Dal futurismo alla novella:
il tragicomico dei “buffi”

Aldo Palazzeschi
Le novelle
A cura di Gino Tellini
Centro Studi “Aldo Palazzeschi”,
Università di Firenze
Mondadori, Milano, 2023
Tomo I (Il Re Bello, Il palio dei buffi, Bestie del 900)
pp. 546, € 50, 00
Tomo II (Tutte le novelle, Il buffo integrale, Novelle disperse),
pp. 984, € 50,00

Aldo Palazzeschi
Le novelle
A cura di Gino Tellini
Centro Studi “Aldo Palazzeschi”,
Università di Firenze
Mondadori, Milano, 2023
Tomo I (Il Re Bello, Il palio dei buffi, Bestie del 900)
pp. 546, € 50, 00
Tomo II (Tutte le novelle, Il buffo integrale, Novelle disperse),
pp. 984, € 50,00


Per la prima volta sono pubblicate in questi due tomi tutte e cinque le raccolte novellistiche di Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, Firenze 1885-Roma 1974) nell’ordine in cui sono apparse in origine: Il Re bello (1921), Il palio dei buffi (1937), Bestie del 900 (1951), Tutte le novelle (1957), antologia curata dallo stesso autore che riprende 34 novelle dalle raccolte precedenti aggiungendone 30 nuove, e Il buffo integrale (1966). Usiamo il termine “novelle” non a caso perché si ricollega alla tradizione narrativa di Giovanni Boccaccio, ammirato modello di Palazzeschi che – esempio più unico che raro, almeno nel Novecento – considera l’autore del Decamerone padre e maestro della letteratura italiana. Questa edizione, diversamente impostata, con tutte e cinque le raccolte in successione cronologica, recupera per la prima volta integralmente Il Re bello (con le nove novelle finora omesse) e presenta le sette novelle disperse, raggiungendo il totale di 98 novelle. Quasi un moderno Decamerone. Quindi un’edizione più completa del Meridiano del 1975 (Tutte le novelle, a cura di Luciano de Maria, prefazione di Giansiro Ferrata) che si limitava a riproporre la raccolta del 1957 e Il buffo integrale del 1966, presentandone in totale 82.

È difficile ridurre nei confini di una definizione standard i racconti di Palazzeschi. La varietà delle situazioni, della stessa lunghezza e in parte anche del tono, rende la novellistica palazzeschiana abbastanza refrattaria a una formula tipizzante. Si passa dalle atmosfere fantastiche e lontane nel tempo de Il Re bello che dà il titolo all’omonima raccolta del 1921, a racconti più realistici, grotteschi e amari come Il gobbo o La veglia, o a bozzetti giocati sul dialogo come Carburo e Birchio, due ragazzacci che conversano in vernacolo fiorentino, o La Bomba, stringatissimo racconto dialogico, che ricorda un certo sperimentalismo del Palazzeschi autore del Codice di Perelà. Una cosa è certa: il Palazzeschi delle novelle e dei romanzi della maturità è scrittore più tradizionale del poeta un po’ futurista e dadaista che suonava su una tastiera antilirica, volutamente autoironica e dissacrante (“Son forse un poeta?/No, certo./Non scrive che una parola, ben strana,/la penna dell’anima mia:/«follia» si legge in Chi sono? del 1909), e soprattutto antidannunziana (due esempi tipici: La fontana malata; E lasciatemi divertire!) e già orientata alla narrazione in chiave comico-parodistica. Insomma, tanto nella poesia quanto nella prosa (ma più nella prima che nella seconda), Palazzeschi non concede inchini all’estetismo della bella pagina, ma preferisce tirare calci diretti anche al decoro della paginetta smaltata, classicistica, raffinata, della prosa d’arte. Ecco cosa scriveva a proposito della ‘bella pagina’ in un passaggio riportato da Gino Tellini nell’introduzione al primo volume delle novelle:

“Solo la bella pagina! La bella pagina! Nient’altro che la bella pagina! Con che pesantezza veniva imposta! Comandavano solo loro! E sono durati tanto! E invece io ho sempre odiato la bella pagina! Con la bella pagina mi pulisco il culo!”.

Non ci si aspetti, però, nulla di rivoluzionario nella prosa di Palazzeschi che è invece molto sorvegliata, a tratti poetica, con ampi tocchi descrittivi sia dei personaggi sia degli ambienti. Ecco un saggio tratto da Il punto nero, uno dei racconti più belli di Palazzeschi:

“Suonarono le tre. Ma loro non sentivano più i colpi. Quel suono indifferente e crudele al quale per due ore s’eran sentite avvinte, lo lasciavano alla sua corsa senza un sussulto, senza reagire. Già uscita dall’oscurità lieve, la piazza era grigia, di un grigiore perlaceo che si sfaceva nell’azzurro gradatamente sotto il cielo ancora turchino della notte bella e fugace. Non un passante del nuovo giorno e non più uno del giorno andato: si era nel vano che lega con un filo bianco le due fatiche. Le stelle se ne andavano tutte come pecorelle stanche e satolle mentre saliva l’ultima: Venere, l’imponente stella del giorno a sospingerle e intimorirle col suo fulgore”.

Il signor Fanfulla, protagonista de Il punto nero, è un solerte e dignitosissimo impiegato la cui vita procede in un grigiore ferreo ma non increspato da dubbi e inquietudini. Marito inappuntabile, padre severo ma non rigido né troppo incombente, impiegato perfetto. Una notte, però, il pendolo regolare della sua routine quotidiana si ferma in una sospensione che genera ansia e panico nella famiglia: il signor Fanfulla rincasa alle tre e mezza, con solo la camicia addosso; “portava ai piedi i calzettini bene sorretti dalle giarrettiere, senza le scarpe e senza il cappello, col colletto e il fiocco della cravatta irreprensibile”. Per quale motivo questa diversione dall’ordinario tran tran?

“Che è stato? Dove? Come? Quando?  Chi? Perché”. Domande alle quali egli non si mostrava sollecito né ben disposto a rispondere, anzi tutto il contrario. Davanti a tante richieste le sue labbra parevano murate, e le pupille fissavano un punto lontano nel vuoto che era inutile cercare”.

Non si saprà mai la causa di quel ritardo. Eppure qualcosa suggerisce al lettore che tale infrazione al tic-tac della quieta esistenza da impiegato e integerrimo padre di famiglia, potrebbe rimandare agli scenari più diversi e inopinabili. Anche se da un personaggio come Fanfulla non ci si aspetta un momento eroico o una scappatella di natura erotica, ci troviamo certamente di fronte a un’improvvisa sterzata in un rettilineo segnato da una riga continua e ipnotica di atti e consuetudini, un punto nero (“Egli diceva che nella vita d’ogni uomo è un punto nero destinato a rimaner tale”). Questo racconto, tratto da Il Palio dei buffi, dà la misura del miglior Palazzeschi novelliere con quel registro che stempera il moralismo (nel senso francese di riflessione esistenziale e filosofica), in un’atmosfera oscillante tra rappresentazione comico-realistica e tono fiabesco-surreale. Il signor Fanfulla Domestici appartiene alla galleria dei “buffi”, un termine che va chiarito perché rischia di essere frainteso: i buffi rappresentano, come nei personaggi pirandelliani (ma con le diversità che vedremo), drammi esistenziali, forme e fenomeni strani, irregolari, figure anomale e contraddittorie, viste e descritte con sguardo mai troppo critico e cinico, ma con ironia e garbata comicità. Lasciamo allo stesso Palazzeschi (ne scrive nella Premessa) il compito di spiegare cosa sono i “buffi”:

“Buffi sono tutti coloro che per qualche caratteristica, naturale divergenza e di varia natura, si dibattono in un disagio fra le generale comunità umana; disagio che assume ad un tempo aspetti di accesa comicità e di cupa tristezza: ragione per cui questo libro forma una commedia tragicomica nella quale i ‘buffi’ vengono portati alla sbarra”.

In questo senso i personaggi delle novelle di Palazzeschi stanno nei dintorni delle maschere nude di Pirandello. Con una differenza, però, spiegata da Gino Tellini nell’introduzione:

“l’occhio che scruta l’orizzonte dei ‘buffi’ non è inquisitorio, non asseconda un codice concettuale che muova da una diagnosi e giunge a un verdetto; bensì è un occhio solidale: incantato dallo spettacolo della vita, desidera scoprirne e rivelarne gli aspetti anomali non per condannarli o deriderli. A essi si affeziona perché in essi vede manifestarsi il flusso inesauribile che rende affascinante la scena del mondo. L’imprevisto e lo straordinario non schiudono spiragli verso l’ignoto o il mistero, al modo di Bontempelli, di Savinio, di Landolfi, ma fanno toccare con mano il molteplice, il vario, il diverso, che sono il sale della vita”
(Tellini in Palazzeschi, 2023).

Possiamo distinguere due categorie di racconti: la prima si caratterizza per il sopraggiungere di un caso imprevisto che turba l’ordine delle cose: accade con La veglia, Il ladro, Il gobbo, Il dono, Vita, Amore, 24 agosto, Il punto nero e Lupo.

Nella seconda categoria il racconto si sviluppa unicamente sui caratteri, sulla descrizione dei personaggi, come nei racconti a base binaria Lo zio e il nipote, Carburo e Birchio, Pochini e Tamburini, Bistino e il signor Marchese. Da leggere assolutamente anche Industria, che chiude la prima raccolta, Il Re Bello, e sviluppa con esito quasi grottesco un tema di drammatica attualità come quello delle coppie sterili o a cui è impossibile procreare. Ne Lo zio e il nipote, il racconto che apre Il palio dei buffi, i due protagonisti sono uno il contrario dell’altro: da un lato, il signor Luigi, uno “schizzapiscio (indefesso sputasentenze) misantropo e bacchettone, titolare di un antico negozio di immagini e oggetti sacri (tranne i ceri: il signor Luigi si picca di non essere un ceraiolo!); dall’altro, il nipote, anche lui di nome Luigi, un tipo gaudente e dissipatore che, dopo la morte dello zio, converte il  negozio in un emporio di cosmetici e – dando retta a un amico che si rivela pessimo suggeritore – persino di immagini pornografiche. Luigi junior finisce in galera, “nel suo candore di innocente stolto innamorato della vita, fiducioso nell’abbandonarsi all’incanto dell’allegrezza e della felicità di esistere. Si è bruciato al fuoco delle gioie terrene, ma quell’ardore gli ha donato benessere e piacere, come avviene alle sorelle Materassi” (ibidem).

Passando a tutt’altre atmosfere, in Amore un “istante rivelatore” fa capire, con il bagliore di un lampo, al celibe sessantenne signor Salvatore che egli ha sbagliato la propria vita e ora viene assalito da una irrefrenabile accensione amorosa per la domestica Rosina che finisce per sposare sull’onda di questa improvvisa botta di vita. In Lupo il marchese Onorio, di antica nobiltà feudale, vive in solitudine chiuso nel suo castello, ostile verso il genere umano (al pari dello zio in Lo zio e il nipote), al quale gioca degli scherzi che ci ricordano il Marchese del Grillo, si mostra irascibile e altero, ma, pur frugalissimo fino al sacrificio, è a suo modo generoso con gli altri. Non vogliamo spoilerare il racconto che finisce non proprio bene, ma vale assolutamente la pena leggerlo.
Per rimanere in un ambito nobiliare, Il Re bello è uno dei racconti più lunghi e affascinanti e ci riporta in atmosfere da fiaba. Nel fantastico regno di Birònia, il Re Ludovico XII non riesce ad avere dalla pur prolifica moglie un figlio maschio come erede al trono. Dopo dodici femmine, la consorte muore, e per idea dell’astuto Maresciallo del Regno si dà ufficialmente notizia che è nato l’erede maschio: è Ludovico XIII, il Re bello, appunto. Il problema sorge quando, morto il padre, si deve trovare una sposa al Re bello. Nella prima notte dopo le nozze il Re bello si rivela essere una…regina. Il Re bello resta incinta (intanto il popolo di Birònia nulla sospetta perché Ludovico XIII gira sempre avvolto in un ampio mantello bianco) per opera delle Guardie reali, e dà alla luce due gemelli, maschi. Da zero a due eredi al trono!

L’esordio come poeta
I racconti (o novelle) di Palazzeschi saranno una sorpresa, una piacevole scoperta per molti lettori che associano, giustamente, lo scrittore fiorentino alla poesia o a romanzi più noti come Sorelle Materassi. Il debutto letterario di Palazzeschi è infatti in versi. Le sue prime raccolte, quasi tutte autopubblicate da un fantomatico editore di nome Cesare Blanc – che in realtà era il gatto di Palazzeschi – escono nel clima arroventato del futurismo e della rivista Lacerba: I cavalli bianchi, 1905; Lanterna, 1907; e L’incendiario, 1910. Nel 1908 pubblica la sua prima prova narrativa, Riflessi. E sarà la narrativa (romanzi e racconti) a nutrire l’ispirazione e il lavoro di Palazzeschi dagli anni Trenta in poi: basterebbero due romanzi, Sorelle Materassi (1934) e I fratelli Cuccoli (1948) per confermarlo, anche se dovremmo partire da Il Codice Perelà. Romanzo futurista, uscito nel 1911 per le edizioni Futuriste di Poesia e riproposto nel 1954 con il titolo Perelà uomo di fumo. Perelà è una figura chiave nella produzione di Palazzeschi: innanzitutto perché Perelà (acronimo di Pena, Rete, Lama), l’uomo di fumo, introduce la nozione di “buffo” che verrà poi ripresa, sin dal titolo, nelle due raccolte cult di Palazzeschi, Il palio dei buffi e Il Buffo integrale. Secondo, perché il Codice di Perelà è un antiromanzo, la quintessenza del romanzo sperimentale: non a caso Mondadori lo ripropone negli Oscar in edizione originale, quella del 1911. E non è nemmeno un caso che il Palazzeschi poeta sarà rivalutato dalla neo-avanguardia, e in particolare da Edoardo Sanguineti, mentre sul fronte narrativo Luigi Baldacci in un saggio del 1956 indica nei primi romanzi sperimentali, da La Piramide al Codice di Perelà fino a Due imperi… a metà, le prove più originali di Palazzeschi.

Ma facciamo un passo indietro nel tempo. Qualche mese dopo (fine aprile 1914) la pubblicazione del manifesto Il Controdolore, lo scrittore fiorentino si dissocia dal futurismo, soprattutto per ragioni ideologiche attinenti al suo antimilitarismo che lo porta a negare ogni forma di intervento bellico. Negli anni Trenta-Quaranta, Palazzeschi svolta decisamente sulla narrativa: nel 1932 pubblica Stampe dell’800, una raccolta di ricordi già apparsi su Pegaso, la rivista di Ugo Ojetti. Due anni dopo esce il romanzo Sorelle Materassi, l’opera narrativa più famosa di Palazzeschi. Nel 1936 vede la luce Il Palio dei Buffi, nel 1951 Bestie del 900, raccolta di novelle cui seguono Tutte le novelle (1957) e Il buffo integrale (1966). Ben tre i nuovi romanzi che si succedono a breve distanza a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta: nel 1967 esce Il Doge, nel 1969 Stefanino e nel 1971 Storia di un’amicizia. Riprende anche l’originaria vocazione poetica, pubblicando Cuor mio nel 1968, e nel 1972 un’ampia raccolta, Via delle Stelle. Nel 1971 negli Oscar Mondadori esce l’antologia Poesie, a cura di Sergio Antonielli.

La fama letteraria di Palazzeschi comincia dopo la pubblicazione di Sorelle Materassi, romanzo che ispirerà prima un film nel 1943 (con le sorelle Gramatica, Irma ed Emma) e poi lo sceneggiato televisivo del 1972, regista Mario Ferrero, con Rina Morelli, Ave Ninchi, Nora Ricci e Giuseppe Pambieri nel ruolo dello scavezzacollo Remo. Fra il romanziere delle Sorelle Materassi, e il poeta incendiario e futurista, il poeta da antologia, famoso per la stella di Rio Bo, la casina tutta di cristallo, le celebri beghine e le non meno famose contesse e nobildonne come la Contessa Eva Pizzardini Ba, il poeta saltimbanco e dadaista (“tri tri/fru fru fru/uhi uhi uhi/ihu ihu ihu” scrive in Lasciatemi divertire pubblicata nel 1910; cfr. Palazzeschi, 1963), i lettori hanno ora un ampio materiale per riscoprire un volto di Palazzeschi secondo noi non così conosciuto dal grande pubblico nella letteratura del Novecento.

Letture
  • Aldo Palazzeschi, Poesie, 1904-1914, Vallecchi, Firenze,1963.
  • Aldo Palazzeschi, Sorelle Materassi, Mondadori, Milano, 2017.
  • Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà. Romanzo futurista, Mondadori, Milano, 2018.
  • Aldo Palazzeschi, L’incendiario, Mondadori, Milano, 2021.
  • Aldo Palazzeschi, Due imperi… mancati, Mondadori, Milano, 2022
  • Aldo Palazzeschi, I fratelli Cuccoli, Mondadori, Milano, 2022.