Viaggiare, forse tornare,
cercando una patria dell’io

Adrián N. Bravi
Verde Eldorado
Nutrimenti editore, Roma, 2022

pp. 176, € 17,00

Adrián N. Bravi
Verde Eldorado
Nutrimenti editore, Roma, 2022

pp. 176, € 17,00


“Anche l’immaginazione è una delle possibilità della realtà… non dobbiamo abituarci troppo a disprezzarla”: sono le parole che il Piloto Mayor, il capo della spedizione alla quale prenderà parte, rivolge al giovane Ugolino incaricato di testimoniarne per iscritto gli avvenimenti che, nel corso di essa, si svolgeranno. Siamo nella prima metà del Cinquecento a Venezia e l’argentino Adrián N. Bravi (ma residente in Italia) nel suo Verde Eldorado, edito da Nutrimenti, non solo offre così, indirettamente, l’opportunità di un ampliamento di orizzonte nella redazione del diario di viaggio del sottoposto, ma sceglie anche di rendere omaggio alla letteratura tutta attraverso la sua ultima creatura. A ben guardare, è molte cose insieme questo romanzo: un tributo alle visioni letterarie attraverso cui l’umanità ha dato sostanza al proprio immaginario, un testo sul significato e il valore del tempo e della memoria, una riflessione sulla lingua e sulla sua ineludibile connessione con la conoscenza e l’evolversi di un popolo, sebbene l’autore ci metta in guardia rispetto al rischio di credere traguardi illusorie forme di approdo dietro cui si affacciano solo ambigue vanità e fallaci ambizioni sospinte per natura, in un gioco di inerzia, dal genere umano.
Non è affatto un caso che si citi esplicitamente Ulisse, l’Ulisse di memoria dantesca, al di fuori dei possibili rimandi che l’intera vicenda, in qualche modo, offre alla narrazione omerica. Ricorda Dante Alighieri il Piloto Mayor: “Io e’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta” (Alighieri, 2021). Ricorda le parole dantesche rivolte all’eroe omerico, ma, nonostante lo spirito di ambizione umana che lo sospinge a oltrepassare i suoi limiti e per cui la Divina Commedia lo rende in tutto il suo ambiguo fascino, il Piloto Mayor ne scavalca il pure alto potere simbolico anteponendogli Cristoforo Colombo:

“Ma Colombo, che è nato dall’ombra di Ulisse e ha sfidato anche lui le acque e l’ira divina era destinato a varcare quell’«oltre non si metta». E, dunque, noi, caro Ugolino, siamo gli Ulisse che hanno varcato l’ultimo ronchione dell’Europa per andare alla deriva su questi mari in cerca del nostro paradiso”.

Eppure Ugolino, nonostante gli stimoli del capitano, non incarna per nulla il re di Itaca, quantomeno alla partenza, se non nella forma passiva, che ne tradisce la matrice, di un coinvolgimento in una serie di episodi che lo pongono a stretto contatto con la precarietà dell’esistenza e con l’urgenza di un coraggio che qui non prescinde mai dalla considerazione dell’imponderabile che è natura sovrana e conseguenziale respingimento del controllo umano. Ce lo dice esplicitamente:

“Era il mare a incutere sgomento: tanto le calme che rallentavano la traversata, quanto le tempeste che abbattevano contro le vele”. E ancora: “Le calme equatoriali ci hanno rallentato per alcuni giorni, abbiamo tirato avanti con le vele afflosciate come stracci. In quelle notti senza nuvole, il cielo stellato si raddoppiava sullo specchio dell’acqua. Era terribile scorgere quella bellezza, che si pagava con l’immobilità e con il timore di restare lì per sempre”.

Tutto reca in sé il rischio del mutamento improvviso o della stasi eterna perché incompatibile con i tempi umani. Se, però, in questa assenza di certezze, il resto dell’equipaggio ha “un mondo nuovo da scoprire, un’illusione da inseguire, un’ansia di ricchezza”, Ugolino, figlio di un commerciante di tessuti veneziano, non ha un sogno né una speranza, non ha nulla al di fuori del Periphyseon, quel testo filosofico di Giovanni Scoto Eriugena in cui neoplatonismo e cristianesimo si fondono nel riconoscimento individuale di Dio e della natura quale sua diretta manifestazione, su cui trascorre le sue giornate. Egli è, dunque, un’altra storia, una storia di assenze e ferite che nell’affaccio alla vita adulta sperimenta l’ambiguo piacere, celato da una coltre di paura, dell’essere l’unico responsabile di sé stesso. Egli non sceglie di imbarcarsi alla volta delle Indie, delle isole Molucche in Indonesia, ma si offre alla volontà del padre che decide per lui dopo un incendio domestico di portata talmente devastante da lasciare il volto di Ugolino, impossibilitato a evitarne le fiamme, completamente deformato, irriconoscibile al padre e ai fratelli, ma non alla madre e alle sorelle che manterranno con lui quel contatto fisico in grado di garantirgli una coscienza dell’esistere ancora sublimata dalla tenerezza lungo un ultimo tratto di infanzia prima della partenza.

Immagine tratta dalla mini serie Senza confini (come la successiva) dedicata alla circumnavigazione del globo realizzata da Magellano. L’impresa è ricordata in diversi passaggi del romanzo Verde Eldorado le cui vicende si svolgono non molto dopo.

Se senza Itaca Ulisse non si sarebbe mai messo in viaggio, come ci ricorda efficacemente Konstantinos Kavafis, è altrettanto vero che la ricchezza del racconto che lo celebra è legata agli incontri, più o meno felici, in cui il re e il suo equipaggio si imbattono e all’interazione di ciascuno di essi con la moltitudine delle forme che il caso assume, seppure nella necessaria rilettura che vede in esso il punto di confluenza degli interventi degli abitanti dell’Olimpo coerenti a un dubbio equilibrio intriso di simpatie e sentimento di vendetta: i Lestrigoni, i Ciclopi, la furia di Nettuno, per rimanere nel territorio poetico di Kavafis, sono l’occasione per narrare di miserie e sfide, limiti e desideri dell’umano agire (cfr. Kavafis, 1992). La debolezza del Piloto Mayor che cede alla lusinga della propria sete di ricchezza per alterare la rotta prefissata, sfidando le autorità regie e optando per il Rio de la Plata e la risalita dei fiumi Paranà e Paraguay, è la manifestazione, in qualche modo luminosa in quanto rivelatrice, di una caduta importante: quella che restituisce al capitano la sua integrità compositiva attraverso i tratti di un’ambiguità idonea a riportare il lettore alla indimenticata figura di Long John Silver che, nella costruzione de L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson, muove ogni stabilità possibile alterando ogni esito già erroneamente riposto nelle pieghe del passato (cfr. Stevenson, 2015). È certamente questo, si badi bene, ma non soltanto: la sua scelta diventa un tassello di una sorte che supera l’ombra del suo operato per investire la fine di alcuni membri dell’equipaggio e la collocazione adulta del non più giovanissimo Ugolino, uccisi e mangiati i primi dagli indios, salvato il secondo perché diverso, ritenuto uno spirito superiore in grado di dialogare con le divinità che presiedono al fuoco e alla sua potenza distruttrice.
Deformità, dunque, che non ghettizza, che non isola, ma addirittura salva dalla morte certa, che si connota di senso, restituendo al giovane, nell’istante in cui offre l’ingresso in una dimensione sociale, per quanto agli albori, il principio di un approdo e, nella vicinanza della sua Giorgina, la donna che per prima lo capisce, senza ricorso alla mediazione linguistica, in mezzo agli indios, un senso rinnovato di famiglia, dove le ferite sono solchi da percorrere con le mani e non vergogna da celare.

Non si sottrae alla nostra osservazione qualche dettaglio utile a scandagliare le tante possibilità interpretative che un testo così ricco stimola, uno dei quali è certamente l’avere voluto che il protagonista recasse il nome di quel conte Ugolino della Gherardesca che Dante colloca nell’Inferno tra i traditori della patria e che viene ritratto nell’atto di divorare il capo del suo nemico, da cui si distoglie al solo scopo di narrare la sua storia al poeta fiorentino. Ed è lì, in un angolo della sua dimensione privata, che potrebbe annidarsi il punto di unione delle due vicende, laddove, segregato e lasciato morire di inedia presso la Torre della Muda, insieme ai suoi figli, vide offrirsi questi spontaneamente quale pasto per la sua salvezza.
Antropofagia, dunque, cannibalismo, che, se nel personaggio dantesco assume i connotati di una possibile scelta per necessità, tralasciando l’esamina del dato di realtà che non attiene al punto, quasi un volontario sacrificio filiale per la sopravvivenza paterna in un’inversione delle naturali dinamiche tra padri e figli, non molto diversamente si pone nella vicenda del figlio del risoluto venditore di tessuti: egli rinuncia a sé nel tentativo dell’incontro col padre che passa dal nutrimento di un suo bisogno di non vederlo più. Il volere paterno lo fagocita e, in qualche modo, si pone quale premessa ineliminabile della sua trasformazione: Ugolino diventa sé stesso dando ragione al padre dell’inevitabilità dell’atto originario di allontanamento e declinando in parallelo il tema della memoria personale che non è quasi mai fedeltà assoluta ai fatti, ma loro distorsione funzionale alle assenze, ai bisogni, alle ferite insanabili dell’immodificabile passato.
Un cannibalismo anche qui necessitato, seppure in nome di una sopravvivenza che si muove fuori dai bisogni primari e dentro gli egoismi e le pretese genitoriali e che concede un’inaspettata seconda opportunità al figlio apolide. Un cannibalismo che è a suo modo una fuga dal conflitto, cancellare dallo sguardo ciò che disturba, spezza, disarticola, fosse anche un figlio, rimuovere lo scontro. Quello che accade nelle nostre società odierne, dove l’oggetto accantonato delle nostre paure, che sia la morte o il diverso, torna amplificato nello scorrere della violenza quotidiana a più livelli. È, invece, chiaramente bellicoso l’atto degli indios di divorare le carni dei suoi compagni: ottenerne la forza, prenderne il nome, crescere in potenza. Lì tutto è più chiaro, netto. Non esistono sfumature: è il bello e il brutto di una primigenia forma sociale dove manca la raffinatezza del pensiero piegato poi alle leggi distorte delle moderne civiltà, dove la lingua è prevalentemente un suono e, come tale, quasi incompiuta, regala una lettura in potenza e ancora armoniosa dell’universo, senza complesse sovrastrutture ideologiche.

Adrián N. Bravi.

Lingua adamitica, la definisce Ugolino, “che non nasce dal pensiero, ma da un istinto primitivo”, “che ha i tratti musicali dell’uomo che indica le cose per la prima volta”. Lingua povera di parole che identificano tutto e il suo contrario, salvo poi coglierne il senso specifico per merito di un suono, il tono impiegato che ricompone ciò che noi potremmo chiamare il disordine cognitivo. Quello che, però, la parola promiscua cela è ben altro dalla facile riduzione a un’inesattezza da mancata centratura del meccanismo raziocinante che domina le nostre vite. È la coscienza dell’assenza di confini, laddove non c’è distinzione tra una scimmia e un albero perché l’una non esiste senza l’altro in un’interconnessione che rivela ciò che noi, invece, abbiamo dimenticato o non abbiamo mai saputo fino in fondo. Ma la libertà passa dalla conoscenza e, se “attraverso la lingua si può governare l’ingovernabile”, anche dal dare un nome alle cose prima mai viste o concepite, persino a Dio, e conoscere reca inevitabilmente con sé la bellezza del desiderio e il rischio dell’ambizione. Recita un passaggio:

“Il cielo sopra gli alberi è sordomuto, coperto di stelle mai viste e costellazioni nuove; non parla con nessuno e non si fa neanche pregare, al massimo accoglie gli auspici della pioggia e del vento, richieste che provengono da persone che nemmeno sanno dell’esistenza di creature celesti che svolazzano e annunciano nascite e resurrezioni”.

Dunque, rapporto diretto con gli elementi di cui si compone la Terra, senza intermediari di alcun genere, perché se un principio superiore esiste esso attiene all’esistente. Persino i morti stanno in un luogo fisico, non distante da quello in cui sono vissuti: “essi sono gli esseri più legati alla terra che esistano”. Così è facile entrare in connessione con chi è dall’altra parte e imparare a concepire la categoria dell’esistente ampliandone portata e confini senza ricorso a barocche cattedrali dalle vertiginose prospettive e in una logica di appartenenza comune in cui, nonostante le cose si rivelino attraverso il verbo nella forma di un sembiante, di un’apparenza, è certo che rispondano a un interesse collettivo, in cui anche la morte è una fatalità e non soggiace a giudizio alcuno. Né bene né male. Un punto di una circolarità che il percorso compiuto dal tempo qui assume, che è un eterno ripetersi, “un perenne presente”, perché “il tempo nella foresta non si misura, scorre come il fiume”. Circolare il tempo, ma anche i discorsi, le capanne, la danza, i dipinti, il ventre delle donne. Un principiare delle cose che si rinnova nel quotidiano e dentro cui si affaccia il desiderio del ritorno in patria, il senso dell’attesa che al tempo restituisce un valore nel raffronto con qualcosa che non c’è e che deve giungere. Fino alla maturità di saggiare quel “qualcosa che impedisce di crollare”: non la speranza, ci dice Ugolino, ma “l’incertezza di sapere se ce l’avrei fatta oppure no”, sostenuta dal potere immaginativo che piega il passato ai nostri bisogni, e che, imparando a non concepirsi al di fuori di lì, diventa sfida, opportunità di crescita, rischio e, infine, Itaca.

Letture
  • Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Einaudi, Torino, 2021.
  • Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Einaudi, Torino, 2015.
  • Konstantinos Kavafis, Settantacinque poesie, Einaudi, Torino, 1992.