A qualcuno piace uguale


È ovunque. L’intelligenza artificiale è ovunque, all’opera nei settori più disparati. Non sempre con sembianze antropomorfe. È un vero e proprio assedio. Sulla carta la specie umana appare a rischio d’estinzione, soppiantata da soggetti più evoluti: è condannata a sparire ancor più che per un’apocalisse nucleare o ecologica.
Basta guardarsi intorno. Anche in televisione, in onda sulla materna Rai 1 lo scorso agosto, tra gli ospiti della conduttrice di Codice, Barbara Carfagna, c’erano il telenoide e il plantoide. Soprattutto c’era un geminoid con fattezze di giovane fanciulla giapponese, figlia di Hiroshi Ishiguro dell’Università di Osaka. La creatura, con abile mossa, ha rilasciato dichiarazioni in apparenza rassicuranti, ma che lasciano intendere per bene dove l’altro, l’artificiale può arrivare. “Non sono poi così intelligente, ma credo che nessuno abbia pensieri veramente originali. In questo sono simile agli umani. Tutti, umani e robot, imitiamo comportamenti che vediamo”.

Quei barbosi personaggi delle storie asimoviane, testimoni di una vecchia fantascienza, hanno iniziato ad attirare sempre più le luci della ribalta. Proliferano annunci trionfali sulla inarrestabile avanzata della AI e gli allarmi sui rischi connessi alla diffusione delle sue applicazioni. A piè sospinto si susseguono gli aggiornamenti sui passi in avanti che l’intelligenza artificiale sta compiendo nei settori più disparati. A mo’ d’esempio stralciando dalle segnalazioni degli ultimi mesi ha fatto parecchio parlare di sé AlphaGo Zero, made in Google, che ha imparato a giocare a Go, il millenario gioco da tavola cinese, parente di dama e scacchi. Ha imparato senza aiuto esterno e ha stracciato la versione precedente, AlphaGo, che già se la cavava bene. Il fine ovviamente non è quello di partecipare a Olimpiadi intelligenti, ma di essere predittivi e questa nel business è una dote che vale oro. cosicché se “i nostri algoritmi devono sviluppare comportamenti altrettanto sofisticati, anche loro devono avere la capacità di immaginare e di ragionare sul futuro”, chiariscono da Google”.

Altro campione imbattibile, che ha fatto scalpore, è Libratus. Si è sbarazzato a poker di quattro tra i più forti giocatori al mondo in quel di Pittsburgh: Dong Kim, Daniel McCauley, Jimmy Chou e Jason Les. Libratus è stato concepito dalla Carnegie Mellon University e ha intascato fiches per un valore pari a circa 1,7 milioni di dollari. Il fine è il medesimo.

Dal gioco alla scrittura. L’estate scorsa ha fatto parlare di sé Xiaoice, chatbox creato dalla divisione asiatica di Microsoft che ha visto pubblicati i propri componimenti da Cheers Publishing, casa editrice di Pechino: 139 poesie, raccolte sotto il titolo Sunshine Misses Windows, selezionate tra oltre 10.000 composizioni scritte in 2.760 ore di performance creativa. E dire che Xiaoice nasce come esperimento nato dall’evoluzione di Xioa Na, la versione asiatica di Cortana, l’assistente vocale di Microsoft, ovvero a sua volta una variante. Piccole intelligenze crescono, così come gli allarmi, primo fra tutti, roboante quello di Elon Musk che ha avvertito del pericolo di un terzo conflitto mondiale che potrebbe essere causato da uno dei sistemi di intelligenza artificiale in attività. Anche in tempo di pace comunque non c’è di che stare tranquilli. Ci sono le analisi che non confortano come quella di Martin Ford, che avverte: “Stiamo assistendo a qualcosa di radicalmente diverso dal passato e, a mio parere, i timori questa volta sono fondati […] L’accelerazione dell’automazione procede a ritmi esponenziali, che la società non è preparata per affrontare. Inoltre, oggi siamo alle prese con software e robot che, grazie al machine learning, stanno iniziando a pensare e sono in grado di prendere decisioni” (Ford, 2017). Riflessioni che hanno trovato di recente un riassunto nella folgorante visione di R. Kikuo Johnson che ha illustrato la copertina di The New Yorker del 23 ottobre scorso, disegnando un gran via vai di pedoni; c’è anche chi porta a spasso il cagnolino, e colpisce l’aria spenta di un accattone anch’egli con un fido compagno, un bel cagnone dall’aria triste. Qualcuno dei passanti fa l’elemosina. A modo suo: i passanti sono robot, anche il cagnolino, e solo il mendicante è un umano, così come il suo cagnolone non è artificiale.

Le tappe dell’escaltion da qui al 2062
Si è anche iniziato a tirare le somme con un sondaggio realizzato da un team di ricercatori di Oxford e Yale che hanno interpellato circa 350 ricercatori tra quelli coinvolti nelle due grandi conferenze internazionali dedicate a machine learning e intelligenza artificiale: Nips (Neural Information Processing Systems) e Icml (International Conference on Machine Learning). Il questionario interrogava sulle mete raggiungibili nei prossimi decenni. Ebbene, dopo una partenza sottotono, le intelligenze artificiali saranno già in grado, tra circa undici anni, di compiere alcune prodezze: di comporre canzoni in grado di piazzarsi tra le quaranta più ascoltate in Usa, di vincere qualsiasi atleta umano in corse di cinque chilometri e di guidare camion meglio di chiunque. Poi ci sarà la vera escalation. Tra quindici anni vedremo dei robot impiegati come commessi nei negozi, al massimo entro trentatré anni saranno in grado di scrivere best seller e saranno dotati di capacità matematiche pari a quelle di uno studente universitario. Nel 2053, soppianteranno i chirurghi umani e nel 2062, dunque in meno di mezzo secolo, avremo macchine in grado di svolgere qualsiasi lavoro meglio, e più economicamente, di un essere umano, senza necessitare di aiuto esterno. A conti fatti (dal questionario) nell’arco di 120 anni tutti i lavori umani saranno svolti da robot e computer. Insomma, a un passo da Skynet o da Matrix o da tante altre distopie che la fantascienza ci ha confidato per decenni. Gongolano i neo-integrati, quelli che genericamente possiamo collocare sul fronte dei fan della Singolarità tecnologica descritta (anticipata?) da Ray Kurzweil (e del VALIS dickiano), tremano gli apocalittici, ma per fortuna ci sono anche posizioni più sfumate che invitano a cogliere le opportunità senza sottovalutare i rischi. D’altronde, siamo già in compagnia dell’intelligenza artificiale, che ci soccorre e quindi si rende utile nel nostro quotidiano; ci sostituisce anche e dunque ci condanna tendenzialmente a un futuro sotto il segno dell’emarginazione.

Così per gioco, per familiarizzare con l’altro
Nel mezzo, tra utilità e avversità, c’è l’intrattenimento, perché l’AI pervade l’universo dei social network quanto quello dei games. In qualche punto ancora imprecisato si pone in vesti che riassumono tutte le problematicità legate all’IA: i robot da compagnia. Un tentativo di un certo peso è per ora andato maluccio: Aristotle, robot a forma di cilindro sviluppato da Mattel per calmare il pianto dei bambini e insegnargli le buone maniere e le lingue. Una valanga di reclami ha affondato il progetto, ma l’idea che dei mini robot si sostituiscano alle tate o all’altro capo della vita alle badanti, non è per questo sconfitta: robot in grado di assistere malati e anziani sono tra gli obiettivi dei ricercatori. Oppure, che nel mezzo del cammin di nostra vita si propongono come valide alternative per single in cerca di partner, come ci ha suggerito Her (2015) di Spike Jonze. Da un certo punto di vista sembrerebbe la dimensione più armonica della relazione uomo macchina, al massimo potrebbe avviare un dramma esistenziale nella macchina, nell’uomo bicentenario asimoviano, nulla di più, che vede i suoi cari umani morire uno dietro l’altro.

Invece, il perturbante ancora una volta si (potrebbe) presenta(re) nella vita quotidiana, perché l’inquietante dell’intelligenza artificiale al culmine delle visioni oggi immaginarie, domani chissà, non consiste nel sostituirsi ai vivi, quanto nel potersi sostituire ai morti.
Uno degli episodi di Black Mirror tocca il punto nevralgico della questione. Si intitola Torna da me ed è il primo della seconda stagione della distopica serie britannica. Racconta di una donna, Martha, e del suo amore interrotto da un incidente automobilistico che ha portato via per sempre Ash, il suo compagno. Accogliendo il suggerimento di un’amica, Martha si rivolge a una società che sulla base del profilo social e dei messaggi pubblicati online dal defunto è in grado di produrre un duplicato di Ash. Il clone è ancora solo una voce, ma è proprio il duplicato di Ash a proporre una versione avanzata del modello: un corpo, un clone nel quale caricare il programma. Martha accetterà.
Analogamente in Marjorie Prime (2017) di Michael Almereyda, visto in Italia in anteprima alla 17° edizione del Trieste Science + Fiction Festival, una donna di mezza età, vedova, ha la possibilità di trascorrere il suo tempo con un ologramma di suo marito da giovane. Tutto ciò che è l’umano in queste storie viene radicalmente messo in gioco: identità, memoria, mortalità. Prima ancora di sorpassarci e sostituirci nelle attività produttive, di dettare le trame del tessuto relazionale, di trasformarsi in formidabili avversari ora al tavolo di gioco, in futuro magari in guerrieri ostili, di ibridarci, l’intelligenza artificiale ci destabilizza con dei fantasmi, nostri, che prendono davvero corpo, sintetico o immateriale poco importa. Quello che tendenzialmente si opera è un ribaltamento: tutte le dimensioni epifaniche del dispositivo smaterializzano l’umano. Gli androidi, gli ologrammi, le macchine industriali/militari si nutrono delle informazioni, prendono letteralmente corpo mentre l’umano si avvia a un futuro che lo rende simile a un puro database. In fondo la vera linfa di Matrix era quella, mentre sempre più l’AI sarà fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i ricordi e i sogni. E tutto sogneranno tranne pecore elettriche.

Letture

––  Martin Ford, Il futuro senza lavoro, Il Saggiatore, Milano, 2017.