Oltre l’inettitudine:
una storia di libero arbitrio

Robert Walser
L’assistente
Traduzione di Cesare De Marchi

Adelphi, Milano, 2022
pp. 237, € 19,00

Robert Walser
L’assistente
Traduzione di Cesare De Marchi

Adelphi, Milano, 2022
pp. 237, € 19,00


Appartiene al periodo zurighese, che dal 1898 giunge fino al 1904, il romanzo di Robert Walser dal titolo L’assistente, recentemente riportato alla luce, dalla pregressa condizione di fuori catalogo, a opera della casa editrice Adelphi, nella traduzione di Cesare De Marchi. Si tratta di un testo che, nonostante contenga in potenza molte delle tematiche care all’autore, viene comunemente ritenuto uno di quelli più realistici della sua produzione letteraria. Chiaro non si possa prescindere dal fatto che la connotazione debba necessariamente adattarsi alle specificità di Walser, pur nella doverosa considerazione della derivazione genetica da un’esperienza professionale che lo vide al fianco dell’ingegnere Dubler sul lago di Zurigo a partire dal 1903 (ecco perché, pur essendo stato scritto a Berlino nel 1907, il romanzo è annoverabile al periodo zurighese).
È un vissuto estremamente peculiare quello dello scrittore svizzero che, carico di una serie di vicissitudini familiari di non poco conto sul piano delle conseguenze emotive su un carattere reso permeabile all’instabilità dell’esistenza da un sentire fuori dall’ordinario, attraversa l’intero suo mondo creativo rendendolo più complesso di quanto non appaia a una lettura superficiale.

Robert Walser (Biel, 15 aprile 1878 – Herisau, 25 dicembre 1956).

La morte prematura della madre, il suicidio di un fratello, la fragilità psichiatrica di un altro, unitamente alle problematiche di sostentamento economico che si affacciano nel ristretto regime familiare sin dai suoi primi anni di vita, spiegano, chiaramente solo dal lato concreto della riconducibilità a un senso, l’origine di certi punti di interesse dello scrittore. Il resto lo fa il suo universo, quel sostrato immaginativo con cui egli riesce a portare tra le pagine dei suoi scritti tutto quello che la vita parrebbe relegare a una dimensione esclusiva di dolore senza alcuna spiegazione che non sia il capitombolo in un punto piuttosto che in un altro del meccanismo storico di una ruota che gira e determina l’esplicarsi condizionato di un casuale venire al mondo. Non che Walser si spinga in forma evidente a offrirci una spiegazione degli accadimenti che scorrono sotto i nostri occhi nel corso dell’incedere della vicenda umana di Joseph Marti che ne è al centro – non avremmo altrimenti parlato della sua creatura più realistica –, ma certamente nell’equilibrio compositivo dell’opera che restituisce non solo l’esterno della verificazione degli eventi, ma anche la complessità delle dinamiche che si accompagnano ai moti di pensiero e di spirito del protagonista e dei personaggi che vi ruotano intorno, pare tradire se non un senso, la ragione di un verso assunto dalle cose e dell’impossibilità che sia altrimenti.
È lo sguardo la chiave di lettura del romanzo, non nell’opportunità che esso garantisce di attribuzione di cause, in una logica psicoanalitica, o nella produzione degli effetti che si impongono come stati o modi di essere di chi lo popola, ma nell’evidenza di un dominio di un’attenzione ossessiva che il protagonista rivolge a sé stesso, agli altri o alla natura che lo circonda, fuori dai confini umani dell’abitato, rurale o industriale che sia, o che gli altri rivolgono a lui. Lì risiede il nucleo della narrazione: la celebrazione profana dell’ambiguità umana in molte delle sue infinite declinazioni attraverso la squisita caratterizzazione delle figure o più semplici macchiette che interagiscono con Marti e che, nell’istante in cui fungono da specchio della sua inafferrabile identità, in un gioco di proporzioni elastiche, si interfacciano anche con il lettore, restituendo a lui e a noi l’improcrastinabile occasione di testimonianza di atti di una miseria in cui versiamo per natura e da cui fuggiamo ancorati a utopistiche visioni che ci tolgano dall’abisso in cui sappiamo, in forma primigenia e atavica, di essere.

Joseph Marti giunge alla Stella Vespertina, la villa dei Tobler, “sorpreso di avere con sé un ombrello” in una mattinata di pioggia, quasi preludio di un insospettabile senso di adattamento che ne spiegherà la durata e la permanenza in quei luoghi ben oltre le legittime attese, per volere dell’ufficio di collocamento e per necessità: chiamato a svolgere il ruolo di assistente nell’affiancamento a padron Tobler attraverso la gestione fruttifera dei suoi discutibili brevetti, Marti intraprende un viaggio dentro sé stesso, senza che Walser ci offra il sostrato della sua storia passata, di cui ci fornisce esclusivamente qualche dettaglio di relazione idoneo solo a confondere le idee, semmai ce ne fossimo fatta una sufficientemente stabile di questo nuovo arrivato, e senza che avanzi, nei potenziali rimandi dell’estetica narrativa, alcuna indagine psicologica che si radichi a un trauma in grado di risolvere tensioni nella restituzione di un senso. Navighiamo a vista. Dentro un’instabilità che è non solo resa alla condizione umana, ma anche riconoscimento di un’impossibilità di venirne a capo nel processo di identificazione della medesima, che avanza nel romanzo con sempre maggiore forza travolgendo tutti, con la tendenza contraddittoria dell’agire umano. In fondo, l’esistenza non è che “una giacca provvisoria, un vestito che non calza bene”. Recita un passaggio eloquente rispetto alla rilevanza esterna e alle ripercussioni intime dell’accoglienza di un esistere tellurico:

“Non capire una cosa non era niente di disonorevole, ma fingere di comprenderla era un ladrocinio. Non si poteva chiamarlo in altro modo, e Joseph avrebbe avuto di che sprofondare per la vergogna. Oh, ne aveva avuto un furioso batticuore. Sentiva come il risucchio di un’onda nera su tutta la propria esistenza. La sua anima, che per il resto non gli pareva cattiva, lo soffocava da ogni lato. […] Ma in capo a un’ora stava di nuovo bene. […] Joseph non aveva dimenticato il fatto orribile di poco prima, se lo portava dentro vergognosamente, eppure esso si era cangiato in una sorta di afflizione spensierata, di armoniosa fatalità”.

Ora gran parte del romanzo è in questa perenne oscillazione comportamentale e, in qualche modo, ideologica, non solo del protagonista, ma anche di coloro che vi ruotano intorno: nessuno è irremovibile, né Joseph che dall’anonimato ossequioso della ripetitività meccanica di ciò che gli viene richiesto si inoltra negli anfratti pericolosi della coscienza e del risveglio, né padron Tobler che dagli accessi di ira passa alla fraterna benevolenza, né la moglie che, sorpresa dalla spudorata sincerità con cui Joseph inaspettatamente contesta, critica, da un angolo di riproposizione di scorci di inettitudine cari alla letteratura, da Fëdor Dostoevskij a Italo Svevo, cancella l’accaduto resettando il proprio processo di conoscenza. In deroga all’uomo “audace e intrepido”, in grado di reggere le sorti del mondo, latore di un’idea che, superando l’angusto limite del potere personale, mira al conseguimento del tutto, qui nessuno è irremovibile, dicevamo, e tutti sono destinati al fallimento. Parrebbe tale assunto muoversi sul piano delle logiche imprenditoriali, ma, a ben guardare, Walser si spinge con egregia maestria, non lasciandolo intendere apertamente, ben oltre e investendo con colpi di grazia ripetuti e costanti la fragile composizione mai allegorica dei membri della villa all’interno della quale ciascuno sembra esistere esclusivamente in funzione dell’altro, in un domino destinato a risolversi clamorosamente al termine del romanzo. Lo anticipa, e senza eccessivi nascondimenti, il passaggio che segue:

“Casa Tobler, eccola lì, salda e al tempo stesso leggiadra, come fosse abitata da grazia e sobrietà! Una casa così non si abbatte facilmente; mani operose ed esperte l’hanno costruita con malta, travi e mattoni per durare. Non la schianta il vento del lago, e neppure un uragano. Che danno potrà mai farle qualche affare sbagliato? Tuttavia una casa ha due aspetti, uno visibile e uno invisibile, una compagine esterna e una sostanza interiore, e la struttura interiore è forse altrettanto essenziale, anzi a volte forse più essenziale di quella esterna nel reggere e sostenere il tutto. A che giova che una casa sia adorna e bella a vedersi, se gli uomini che la abitano non sanno sostenerla e reggerla?”.

Tutti deludono perché nessuno si rivela essere, al termine dei giochi, ciò che pareva al principio. In realtà, il discorso è ancora più complesso, perché non accade che qualcuno si manifesti in forme totalmente incomprensibili alla luce degli esordi della narrazione. In fondo, non abbiamo a disposizione elementi a sufficienza di nessuno della comunità umana coinvolta per potere sostenerne l’imprevedibilità del seguito. Abbiamo, però, l’aggiunta di un tassello che scombina le certezze iniziali, senza negarne le premesse. Ciascuno contiene in sé tutto e il suo contrario e lo immette, nel rispetto di inconoscibili logiche, nell’agire quotidiano. All’ambiguità degli individui fa da sfondo un più leggibile mutare, quello della natura che risponde alle leggi delle stagioni, a un incedere del tempo calendarizzato e, pertanto, più stabile, nell’accezione della prevedibilità, rispetto alle turbolenze umane. Sebbene anche questo punto, al giorno d’oggi, sia ormai scardinato dalla crisi climatica del pianeta.

Al di fuori delle derive di questa nostra epoca storica o, meglio, geologica, resta il fatto che la natura racconta di un principio e di una fine, ricorda alla vanagloria degli uomini la caducità della dimensione terrestre, quella che in qualche modo sfida Joseph Marti inoltrandosi, umano sciocco o audace e convinto padrone di sé, nelle acque del lago, quella che il paesaggio anticipa nello splendore esasperato dell’estate molto più che nell’evidenza del buio, quella che villa Tobler prova a combattere nell’illusoria convinzione che il successo di un’idea possa garantire uno squarcio di eternità. Tutto, invece, è destinato a finire: la villa, il tempo felice della giovinezza, i sogni, gli amori, la forza della sfida all’impossibile. Si affranca un margine, quello in cui Joseph Marti si accompagna a chi lo aveva preceduto nel ruolo in casa Tobler, un ultimo votato alla disperazione e all’alcol, che, senza più nulla da perdere, non si tiri indietro, insieme a lui, scorgendo una prossima tempesta all’orizzonte. Lì dove ogni accenno di amore è oramai negato, ma sopravvive una storia di compassionevoli sguardi.