La psicosi di massa
che ha avvelenato l’Italia

Pablo Trincia
Veleno
Una storia vera
Einaudi, Torino, 2019

pp. 296, € 18,50

Pablo Trincia
Veleno
Una storia vera
Einaudi, Torino, 2019

pp. 296, € 18,50


Prima del terremoto del 2012, un altro evento di portata devastante per le vite degli interessati si era abbattuto sulla Bassa, quell’area “piatta e argillosa di Pianura Padana, piena di campi, paludi, affluenti del Po e aziende agricole”, che si stende “tra le pendici dell’Appennino reggiano e le Valli di Comacchio sull’Adriatico”. Con una sinistra coincidenza, l’epicentro di entrambi i disastri viene a localizzarsi nelle campagne modenesi tra Mirandola e Finale Emilia, assediate dalla fumàna, la nebbia così fitta per lunghi periodi dell’anno da potersi tagliare con il coltello. Ma se la calamità sismica si manifesta con tutta la sua ineludibile portata, lasciando nel territorio ferite visibili, l’altra catastrofe, quella che a partire dalla seconda metà degli anni Novanta investe sedici minori e le loro famiglie in una serie infinita di processi che per i primi anni godranno di ampia copertura mediatica, col tempo slitta progressivamente al di fuori della soglia d’attenzione pubblica, andando a inserirsi nel novero delle tante tragedie rimosse della memoria collettiva del nostro Paese.


La zona oscura. Dal podcast di la Repubblica (foto di Matteo Macchiavelli, salvo dove indicato diversamente).

A partire dal 2017 Pablo Trincia e Alessia Rafanelli curano per la Repubblica un podcast che in breve guadagna ampia risonanza, al culmine di tre anni di ricerche sul campo e di scavo nei documenti processuali dell’epoca, scampati all’oblio grazie al salvataggio eroico di alcune persone del luogo, toccate negli affetti dal caso che avrebbe legato nelle cronache il suo nome alla Bassa Modenese. Nel 2019, la loro inchiesta è diventata un libro a firma del solo Trincia, che riprende il titolo proprio di quel dossier multimediale: Veleno. Una storia vera.

Uno scandalo rimosso
Dopo l’enorme scandalo che accompagnò le prime udienze, il caso era scivolato fuori dai radar delle cronache italiane, relegato alle pagine dei giornali di provincia. Spesso la stampa italiana celebra i suoi processi in un rito parallelo a quello della giustizia e il caso della Bassa non fa eccezione, ma quando nel 2014 Trincia cominciò a interessarsene erano in pochi a ricordarsene. Recatosi a Mirandola, il giornalista capisce subito che non avrà vita facile a recuperare informazioni utili per ricostruire quanto accaduto:

“Ho interpellato diverse persone, tutte residenti lì da anni, o da sempre. Nessuno sembrava avere memoria di una storia che pure per parecchio tempo aveva occupato pagine e pagine delle cronache locali. Era un ricordo fumoso, di un qualcosa accaduto troppi anni addietro, e che comunque era successo «là fuori», in quella landa contadina di paesi dormitorio dove modenesi e mirandolesi non amano particolarmente addentrarsi”.

Non sembra un muro di omertà, quello a cui si trova davanti, quanto piuttosto un fenomeno di rimozione collettiva, con cui la coscienza degli abitanti della zona ha reagito allo scandalo e all’azzeramento di interi nuclei familiari, nell’ambito di indagini che avevano portato in carcere alcuni loro concittadini, in fuga all’estero altri, e condotto alla morte per le pressioni degli inquirenti e la condotta dei servizi sociali altri ancora. Ma come poteva essere stato cancellato con tanta efficacia dalla loro memoria un caso che aveva originato tre diversi filoni giudiziari e cinque processi, coinvolgendo decine di persone, sconvolgendo la vita loro e quella dei loro bambini, che in molti casi non avrebbero più rivisto?
Un caso che si era meritato un duplice appellativo, quello di Pedofili della Bassa Modenese ma anche quello di Diavoli della Bassa, a testimoniare i due cardini su cui si era incernierato l’impianto accusatorio dei giudici di Modena: lo smascheramento di una vasta rete di pedofili, in grado di coprire in maniera capillare diverse province del Nord Italia, e l’esistenza di una setta satanica sovrapposta proprio a questa organizzazione.

Artefici/vittime/testimoni al tempo stesso all’epoca in cui il scoppiò il caso.

Una cosa così grossa da meritare interrogazioni parlamentari e magari il coinvolgimento di esperti di riconosciuta esperienza e fama internazionale, ma che in questo caso rimane stranamente confinato alle stanze dell’Ausl di Mirandola, affidato alle cure di una giovane psicologa e delle sue colleghe, tutte gravitanti nell’orbita del Cenacolo Francescano di Reggio Emilia.
L’implacabile furore degli inquirenti di provincia, informati dalle inquietanti testimonianze dei minori raccolte dalle psicologhe dell’Ausl, travolse in un’onda di piena anche un sacerdote della zona, don Giorgio Govoni, parroco di Straggia e San Biagio, nel cuore della zona calda. Un religioso molto sui generis, un benefattore dei poveri, che di giorno mandava avanti una ditta di autotrasporti e per questo era conosciuto dai suoi parrocchiani come “il prete-camionista”.
Alla memoria di don Giorgio, il parroco di Finale Emilia e suo amico personale don Ettore Rovatti aveva dedicato un libro, “le cui poche copie stampate erano andate a ruba senza dar seguito a una ristampa, anche a causa delle intimidazioni che la casa editrice aveva ricevuto da parte di alcuni degli avvocati dei bambini allontanati”. Don Ettore aveva seguito con passione il caso dopo che don Giorgio, in attesa di processo, era stato stroncato da un malore nel 2000, proprio dopo essere venuto in possesso di informazioni che sembravano poterlo scagionare:

“Ai suoi occhi [di don Ettore, ndr] non era altro che un’incredibile isteria collettiva causata dall’inesperienza e dall’imperizia di professionisti che, credendo di aver scoperto un gruppo di pedofili, avevano distrutto interi nuclei familiari”.

Dai suoi scaffali usciranno i faldoni con migliaia di pagine di sentenze del Tribunale di Modena, della Corte d’Appello di Bologna, della Cassazione di Roma, e i verbali e i documenti dell’Ausl di Mirandola, che guideranno l’inchiesta di Trincia e Rafanelli. Ed è da qui che ha inizio appunto Veleno.

Il contagio non risparmia nessuno
Quella di Veleno è la storia di un’infezione che si allarga a macchia d’olio nel giro di brevissimo tempo. Chiunque entri in contatto con i suoi contorni rischia di finirne inghiottito: è un buco nero giudiziario, un pozzo famelico che aspetta solo di ingoiare la prossima vittima. È il destino che tocca per esempio a una delle madri che si sono viste portare via la loro vita dalla mattina alla sera: Lorena Morselli, una maestra d’asilo di Massa Finalese, la cui infinita vicenda giudiziaria attira da subito l’attenzione di Trincia. Accusata in seguito alla testimonianza di una nipotina di abusi satanici rituali e violenze sessuali nei confronti dei suoi quattro figli, che ormai non vede da quando erano piccoli, la storia di Lorena è paradigmatica delle vicende che hanno coinvolto gli altri genitori associati al caso dei Diavoli della Bassa.

La casa dove viveva una delle famiglie coinvolte, quella dei Galliera. Foto di Carolina Paltrinieri.

Per molti di loro l’orrore comincia nel cuore della notte, prima dell’alba, quando la polizia bussa alla porta con un decreto di allontanamento del Tribunale dei Minori di Bologna: prima ancora che vengano accertati i fatti, che si raccolgano prove concrete che giustifichino la separazione dai figli, sulla semplice base delle accuse formulate da parte di bambini che in alcuni casi nemmeno conoscono gli accusati. Come nel caso del bambino zero che innesca il tritacarne in cui saranno fatti a brandelli i diritti di bambini e adulti, genitori o semplici conoscenti delle presunte vittime di abusi.
Quando Trincia, in uno dei passaggi emotivamente più intensi della sua ricerca, riesce a parlare con uno dei protagonisti dell’accusa, l’ex responsabile ai servizi sociali Marcello Burgoni, la risposta che ottiene è la conferma a un sospetto che la sua ricostruzione lascia emergere un tassello per volta, fino a comporre un quadro sconvolgente:

“– […] la storia è stata costruita e ricostruita dai processi ed è quella, e non può essere diversamente, perché la verità è quella lì. I processi però non avevano solo condannato. Avevano anche assolto. In più occasioni. Di quale verità parlava [Burgoni, ndr]? Era ancora convinto che quella applicata dai suoi psicologi fosse una metodologia corretta?”.

Burgoni all’epoca era il superiore di Valeria Donati, la giovane psicologa ancora fresca di studi che ha a che fare con tutte le presunte vittime di questa organizzazione del male ramificata nel Bassa. È lei che seguiva «Dario», il nome di fantasia con cui Trincia decide di battezzare il bambino zero per tutelarne la privacy. Nel corso di uno dei processi, spiega lei stessa come si fosse arrivati all’identificazione di alcuni sospetti: attraverso una catena di associazioni del tutto arbitrarie, alla ricerca di una conferma dell’idea che già aveva ben chiara in testa.

“Quando Dario inizialmente le aveva detto che erano coinvolti anche altri bambini, lei aveva provato a indagare per capire meglio chi fossero. Un giorno, durante un colloquio […] Dario aveva anche chiesto se oltre alla pelle gialla i cinesi avessero gli occhi a mandorla. E se fossero di colore «verde». La Donati si era immediatamente insospettita.
«Ho collegato tutti questi fatti, e debbo ora riferire, che la piccola Elisa che io conosco, è una bambina dagli evidenti tratti somatici asiatici (la mamma è thailandese) ed ha anche la particolarità di avere gli occhi a mandorla e insieme verdi». A quel punto aveva chiesto al piccolo se quella domanda sui cinesi l’avesse fatta perché pensava a una bambina che si chiamava Elisa. Quindi quel nome non era venuto da lui. Era stata lei. Che aveva arbitrariamente associato una banale domanda sulla forma e il colore degli occhi di un intero popolo all’identikit di una bambina di tre anni con gli occhi a mandorla che era seguita dagli stessi servizi sociali”.

E così dalla bocca di un “bambino emotivamente e psicologicamente instabile erano uscite volanti della polizia piombate a tutta velocità su intere famiglie che ora non esistevano più”. È uno schema ricorrente, che Trincia decodifica con cura, precisione di riferimenti e dovizia di particolari. Il lettore non può fare altro che assimilare incredulo la reiterazione degli errori e delle forzature, l’orrore dei ricatti e delle vere e proprie violenze psicologiche a cui i minori furono sottoposti, per confermare la tesi preconfezionata dell’accusa. E qui, se possibile, l’inchiesta di Trincia fa un ulteriore scatto in avanti.

Una notte lunga vent’anni
Gli esami medici a cui vennero sottoposte le presunte vittime di abusi non lasciavano adito a dubbi: secondo i referti, violenze efferate si erano perpetrate ai loro danni e i racconti dei bambini lo confermavano. Poi, però, in sede di dibattimento processuale cominciarono a emergere dei dubbi: gli specialisti convocati dal giudice per le indagini preliminari contraddissero le conclusioni della consulente della procura, sempre la stessa persona, e il loro parere palesò l’infondatezza delle accuse.
Se all’epoca dei processi in primo grado questo punto raramente modificò la traiettoria di sentenze già scritte, nei gradi successivi i capi d’imputazione più infamanti caddero uno dopo l’altro. D’altro canto, come potevano essersi consumati rituali satanici vicino a centri abitati o persino nei loro centri storici? Come potevano essere stati compiuti decine o centinaia di sacrifici umani e animali senza che una sola sparizione di un gatto o di un bambino fosse denunciata? E come potevano essere passati inosservati a insegnanti, compagni di scuola, familiari e vicini i segni delle spietate violenze fisiche inferte alle vittime durante le messe nere?

Audiocassetta contenente la registrazione registrata la voce di una delle bambine che avrebbe subito degli abusi.

Come viene fatto notare nel podcast di Veleno, probabilmente con degli avvocati migliori a difendere gli imputati la giustizia avrebbe stabilito prima e senza difficoltà la verità dei fatti. Ma la maggior parte degli accusati condivideva un contesto di marginalità, isolamento e povertà, se non proprio di degrado e miseria, culturale oltre che materiale, che rendeva in qualche modo “possibili” le accuse ai loro danni e li eleggeva al ruolo di vittime sacrificali da immolare sull’altare dello scandalo, più che della giustizia.
Se non desta sorpresa un simile esito nell’ambito di un “colossale pasticcio giudiziario”, lascia quanto meno sconcertati la constatazione che, malgrado le assoluzioni nei successivi gradi di appello, a tutti i genitori sia stato di fatto impedito di ricongiungersi con i figli da cui erano stati allontanati all’epoca: alcuni di loro hanno dovuto attendere questa inchiesta giornalistica per provare a riallacciare rapporti umani spezzati vent’anni prima.

Una questione di metodo
La genesi del contagio è incredibilmente simile alle dinamiche riportate nelle cronache storiche della caccia alle streghe in Massachusetts nel xvii secolo o delle vicende avvenute sempre in Nord America tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, poco prima che il panico satanista si diffondesse da questa parte dell’Atlantico, investendo prima il Regno Unito e poi le campagne emiliane.

L’interno del cimitero di Finale Emilia (Modena), teatro dei presunti rituali satanici. Foto di Carolina Paltrinieri.

Una reazione a catena che partiva da un adulto particolarmente apprensivo (la madre affidataria, nel caso di «Dario»), si estendeva agli esperti o presunti tali e alla fine produceva una vera e propria isteria di massa, in grado di vedere nemici ovunque, dal semplice conoscente al vicino della porta accanto.
La psicologa Giuliana Mazzoni, studiosa di fama internazionale dei fenomeni di psicosi di massa, consultata da Trincia, spiega in maniera convincente le ragioni del successo di questi racconti così poco plausibili:

“Individuare il cattivo ti restituisce serenità, […] ti restituisce la possibilità di convivere con te stesso e di non dover dire «è colpa mia»”. È più facile e consolatorio pensare che il tuo bambino sia stato vittima di abusi atroci, piuttosto che accettare che sia un bugiardo patologico. In molti casi, la Mazzoni riscontra una concomitanza sospetta tra le denunce di abusi e le conferenze di presunti esperti, che “fondamentalmente informavano insegnanti e genitori dell’esistenza dell’abuso sessuale collettivo di tipo satanico, e invitavano genitori, insegnanti e assistenti sociali a interrogare i bambini, senza in realtà insegnare come interrogare i bambini”.

La psicosi di massa legata ai cosiddetti satanic ritual abuses in questa storia s’innesta sul fenomeno dei “falsi ricordi”, su cui facevano forse inconsapevolmente leva le interviste delle psicologhe dell’Ausl. In Italia le linee guida per l’esame dei minori in caso di abusi, mutuate dalle pratiche internazionali, erano state recepite nel 1996 dalla cosiddetta Carta di Noto, un documento che raccomandava di “evitare […] il ricorso a domande suggestive o implicative che diano per scontata la sussistenza del fatto che è oggetto dell’indagine”.

Un disegno fatto dal bambino “Dario” (il nome è d fantasia): dai suoi racconti prese il via l’intera vicenda.

Un approccio antitetico a quello adottato dai professionisti associati al Cismai (il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia), a cui tutte le professioniste coinvolte in prima linea nel caso dei Diavoli della Bassa facevano riferimento, promotore di un metodo di ascolto ritenuto pericoloso, basato su teorie antiscientifiche e in grado di inquinare la memoria dei bambini “provocando danni paragonabili a quelli di un abuso realmente vissuto”.
Sono le stesse paure e i sospetti piantati nelle loro menti dalla ginecologa e dalle psicologhe a far germogliare la pianta carnivora che inghiottirà le vite loro e dei loro cari. Dopotutto, come fa notare una delle ragazze ormai adulte, “come fa a dire delle bugie una dottoressa?”

Il sangue non muore mai
Le storie di don Giorgio, Lorena e «Dario» sono solo alcuni frammenti di una storia collettiva dai confini molto più larghi e dai contorni che sfumano in una “dimensione parallela in cui ragione e buon senso parevano concetti alieni”. Il labirinto di inganni, doppiezze, falsi ricordi e accuse infondate costruito intorno ai giovanissimi testimoni dell’accusa hanno originato nella storia recente delle cronache italiane uno dei più eclatanti esempi di post-verità, quando l’espressione ancora nemmeno esisteva.


Pablo Trincia insieme alla collega Alessia Rafanelli ha condotto il podcast da cui nasce anche il libro Veleno.

Un racconto inventato di sana pianta, basato su interpretazioni arbitrarie dei fatti e ricco di dettagli al limite dell’incredibile, che finisce per sostituirsi alla realtà stessa dei fatti: passando sopra alle vite, ai sentimenti, ai diritti e ai ricordi delle persone coinvolte. Nello stesso labirinto sembrano oggi trincerarsi i protagonisti delle accuse, artefici di una manipolazione spietata, a cui Trincia dedica ampio spazio di replica senza che tuttavia la loro versione riesca a opporre una spiegazione credibile all’orrore che hanno saputo evocare a scapito delle vittime della loro caccia alle streghe.
Il suo lavoro, come il podcast curato con la collega Rafanelli, è servito a riaccendere i riflettori su questa vicenda. Molti punti sono ancora da chiarire, molte responsabilità ancora da accertare. Anche se la storia dimostra quanto sia difficile imparare davvero dai nostri sbagli e le vittime non potranno riavere indietro gli anni che si sono visti negare, restituire verità e giustizia è un passaggio doveroso in uno stato di diritto e potrebbe aiutarci in futuro a disinnescare sul nascere altre subdole forme di contagio da psicosi collettive.

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