A che punto è il futuro?
Nel peggiore possibile


Se si vuole conoscere lo stato della fantascienza internazionale dal punto di vista dell’Italia, la persona a cui chiedere non può che essere Francesco Verso. Non solo perché ormai di casa alle convention internazionali – dalla Francia alla Cina, dov’è ospite fisso, agli Stati Uniti – e perché i suoi romanzi cominciano a essere tradotti all’estero (è il caso di Livido, pubblicato in Australia, Regno Unito e USA), ma anche perché, con la sua casa editrice Future Fiction, Verso sta portando in Italia il meglio della produzione breve mondiale di speculative fiction, e per farlo si trova necessariamente a confrontarsi con gli autori più disparati, dal Brasile alla Nigeria, dalla Cina al Canada. Per chi come lui pubblica e scrive storie ambientate nel futuro, trovarsi alle prese con scenari distopici è il pane quotidiano: sono gli stessi scenari in cui si ambientano i suoi primi romanzi (Antidoti umanie-DollLivido), a dimostrazione della fascinazione che il sottogenere della distopia esercita anche sugli autori nostrani. Da qui siamo partiti per chiedergli di tracciare un quadro dello stato attuale della fantascienza distopica in Italia e nel mondo, e dei tentativi di superarla.

Dal successo di serie come Black Mirror e Handmaid’s tale ai romanzi e film della saga Hunger Games, come si spiega il boom delle distopie? Si tratta soltanto di un filone oggi di moda, oppure è un modo per esorcizzare paure reali e diffuse mai come oggi?

Credo che ogni società abbia i suoi fantasmi e che quindi attraverso le distopie si svelino i contorni di quelli più inquietanti. Mondo Nuovo di Aldous Huxley sull’eugenetica e 1984 di George Orwell sul controllo sociale hanno dimostrato come qualunque progresso tecnologico possa essere piegato agli interessi di lobby economiche e dittature autoritarie. In particolare, la serie Black Mirror simboleggia il lato oscuro di certa tecnologia – comoda e seducente da un lato ma fagocitante e invasiva dall’altro – al fine di smascherare le derive falsamente libertarie del consumismo e sottolineare come ad ogni scalino che si sale verso la facilità d’uso se ne discende un altro verso la dipendenza e la cessione (o auto-cessione) di diritti considerati inalienabili fino a pochi anni fa. Del resto, è normale che qualunque storia (dalla favola all’avventura, dal dramma psicologico alla distopia) abbia bisogno di ricorrere al timore, al rischio personale e collettivo, alla paura conscia e inconscia e all’angoscia più o meno dichiarata per muovere le leve della tensione emotiva e generare un misto di attrazione/repulsione anche se, in ogni caso, negli ultimi anni c’è stato un certo abuso nel ricorso a temi volutamente distopici per cavalcare l’onda del sensazionalismo commerciale e del disfattismo mediatico.

Dopo anni di monopoli Usa e in generale della produzione anglosassone, sono fiorite un po’ ovunque le narrazioni distopiche, e/o in generale fantascientifiche, cinematografiche e letterarie. Quali sono per te le realtà e le opere più significative degli anni Duemila?

Escludendo le serie americane e inglesi, le narrazioni che mi sono rimaste più impresse negli ultimi cinque o sei anni sono quella svedese Real Humans sull’introduzione di androidi lavoratori in una società del futuro prossimo (poi rifatta da Channel 4 della BBC con il titolo di Humans) e quella brasiliana 3% su un ricco mondo Offshore dal quale è però esclusa la maggior parte della popolazione costretta a vivere nelle favelas. Tra i film ricordo The Congress di Ari Fulman (tratto dal romanzo Il congresso di futurologia di Stanisław Lem), una co-produzione Europa-Israele su un’attrice che accetta di farsi digitalizzare affinché una sua copia la sostituisca e le consenta di non lavorare più con tutte le conseguenze del caso. E poi un’altra produzione europea come Mr. Nobody con Jared Leto – il “villain” di Blade Runner 2049 – sulle vicende personali dell’ultimo uomo mortale dopo che l’umanità ha finalmente raggiunto l’immortalità. Per quanto riguarda i romanzi mi sento di citare La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq su un terrificante futuro di alienazione emotiva causato dalla clonazione umana e un classico, benché scritto soltanto nel 2005, come Non lasciarmi di Katsuo Ishiguro su un gruppo di ragazzi nati e cresciuti per diventare donatori di organi allo scadere dell’adolescenza.

Esistono dei temi distopici “tipici”, o quantomeno delle particolari, specifiche declinazioni a seconda delle culture da cui si originano? In altri termini, possiamo parlare di scenari distopici con caratteristiche russe o cinesi, per esempio?

Certo, ogni paese possiede un proprio “fantasma” preferito anche in relazione a uno specifico periodo storico. Basti pensare a Noi dello scrittore russo Yevgeny Zamyatin oppure a Subway dell’autore cinese Han Song. Nel primo caso è la stessa società sovietica – rivista in chiave taylorista – a generare il timore di un futuro privo di individualità, assoggettato ai valori del socialismo reale e intriso di “benessere” calato dall’alto, mentre nel secondo, la metafora del treno metropolitano lanciato a folle velocità verso una direzione futura impossibile da prevedere fornisce la scenografia perfetta di un’angoscia collettiva nei confronti di una modernizzazione, come quella cinese, che rischia di diventare fine a se stessa e quindi inconcepibile per il cittadino che la subisce. In altri continenti, come per esempio l’Africa, le distopie si rifanno spesso al passato colonialista o, ancora meglio, al presente neo-imperialista tristemente diffuso in molti paesi e all’incapacità cronica di liberarsi dall’oppressione straniera. Nato negli anni Settanta dai romanzi di Samuel Delany e Octavia Butler, dalla musica di George Clinton e Afrika Bambaataa e dai dipinti di Jean-Michel Basquiat, oggi l’Afrofuturismo, incarnato – tra gli altri – da scrittrici come N.K. Jemisin, Nnedi Okorafor e Nalo Hopkinson e dalla cantante Erykah Badu rappresenta uno strumento culturale per rivendicare le proprie origini e tentare, come spesso succede, di non essere assimilati dalla cultura occidentale di massa, un tema fortemente distopico quest’ultimo che purtroppo non viene percepito come tale dalla cultura dominante. Antologie come Mothership: Tales from Afrofuturism and Beyond a cura da Bill Campbell edita per Rosarium Publishing oppure Afrofuturism: The World of Black Sci-Fi and Fantasy Culture curata da Ytasha L. Womack per la Chicago Review Press sono due volumi illuminanti a tale riguardo.

In quest’ottica, che cosa propone la scena italiana? E, in particolare, quali sono i temi distopici che affronti nelle tue opere?

La scena letteraria italiana propone distopie legate al concetto di post-apocalittico, di controllo sociopolitico e scenari ucronici a rivisitazione storica. Penso a Qualcosa là fuori di Bruno Arpaia su una migrazione di massa dal sud al nord Europa a causa dei cambiamenti climatici, penso a Un attimo prima di Fabio Deotto su una possibile deriva distopica legata al movimento Occupy in un’Italia dove il denaro è stato abolito e il lavoro è considerato accessorio, penso ancora a Un buon posto per morire di Tullio Avoledo e Davide “Boosta” Dileo dei Subsonica che ruota attorno al classico enigma da risolvere e a una cospirazione globale sullo sfondo di una catastrofe da fine del mondo e infine Anna di Niccolò Ammaniti che riscrive in chiave italiana, anzi siciliana, il classico escamotage del virus che distrugge gran parte della popolazione per seguire le vicende di una ragazza in cerca del fratellino. Direi quindi che il genere mainstream-letterario arriva con decenni di grave ritardo sui temi che la fantascienza anticipa nelle sue riflessioni migliori.
Per quanto mi riguarda, dopo tanta distopia sarebbe tempo di rimettere mano all’immaginazione e provare a fornire soluzioni ai problemi che affliggono l’umanità. Ho scritto di cospirazioni ordite da multinazionali dell’industria alimentare su Antidoti umani, sono passato alla distopia a sfondo sessuale con i replicanti di e-Doll e a quella legata all’iperconsumismo e al transumanesimo in Livido, mentre adesso sto per pubblicare un romanzo composto da due libri dal titolo I camminatori che propone un’alternativa – ancorché fantascientifica e non immediatamente realizzabile – alla società capitalista e alla sedentarietà urbana, due delle impostazioni socio-antropologiche che al giorno d’oggi sembrano impossibili da superare se non addirittura da contestare.

Dei due grandi filoni della distopia, ovvero società vs individuo e natura vs individuo, quale viene più frequentato dagli scrittori contemporanei e perché?

Poiché la maggior parte degli scrittori vive in ambienti fortemente antropizzati come le città è molto più frequente trovare distopie del primo genere, anche se ultimamente, negli ultimi dieci, quindici anni, la questione della sostenibilità e della coscienza ambientale ha iniziato a travalicare sempre di più le discussioni accademiche e politiche dove era relegata sin dagli anni Sessanta e Settanta per diffondersi anche in altri settori come la narrativa di genere. Ecco allora che romanzi come la trilogia di MaddAdam di Margaret Atwood, The Water Knife e in parte La ragazza meccanica di Paolo Bacigalupi, la trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, la trilogia di Marte e New York 2140 di Kim Stanley Robinson, La memoria dell’acqua di Emmi Itäranta e ancora The Waste Tide di Chen Qiufan, solo per citare alcuni titoli, vanno a costituire uno zoccolo duro di opere le quali potrebbero rientrare a vario titolo nel sottogenere definito “climate fiction” o narrativa sui cambiamenti climatici, in cui la questione tra individuo e natura torna ad assumere un significato più rilevante e anzi fondamentale per la sopravvivenza di qualunque società sul pianeta Terra.

La società digitale è il terreno fertile per eccellenza delle distopie contemporanee?

Sin dai tempi di Case, il cowboy della rete in Neuromante di William Gibson, passando poi per Neo di Matrix, fino ad arrivare a Elliot Anderson della serie Mr. Robot, il mondo digitale ha rappresentato una forma di distopia poiché ha incarnato un nemico “invisibile” e ha creato delle distanze di conoscenza abissali tra il protagonista della storia e i suoi osservatori. Chi sa davvero come funziona un microchip? Quanti sono in grado di modificare il codice sorgente di un programma, anche il più semplice in commercio? Chi saprebbe come interpretare o scrivere gli algoritmi alla base della tecnologia blockchain? E ancora in quanti potrebbero modellare in Autocad per stampare un banale oggetto in 3D in un fablab di quartiere? Tutte queste competenze – inesistenti fino a venti anni fa – creano una frattura incolmabile, un lessico incomprensibile, un mondo misteriosamente inaccessibile tra la massa di persone “comuni” e i pochi che possiedono queste conoscenze altamente specializzate (che a breve potrebbero addirittura essere ad esclusivo appannaggio delle intelligenze artificiali con conseguenze ancora più imprevedibili). Ovviamente l’ignoranza, sia nel senso letterale che in quello più ampio del termine, produce all’inizio reverenza, poi soggezione e infine sottomissione, se queste competenze non vengono utilizzate per il bene di tutti. Non a caso si parla di “digital divide” come di una forbice di disuguaglianza che ha sostituito nel giro di poco tempo la sperequazione economica e la vecchia lotta di classe.
Per questo gli scrittori di fantascienza (consapevoli o meno di scrivere genere) sono tra i pochi a possedere le chiavi di scrittura delle distopie moderne: gli altri si limitano a vederle “sfocate”, da una certa distanza, poiché oggigiorno senza conoscenza tecnica e scientifica o si raccontano realtà che non esistono più oppure se ne parla come facevano gli astronomi secoli fa, con il naso all’insù, guardando l’universo misterioso per cercare di indovinarne i contorni sfuggenti.