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di Gennaro Fucile

 

Ne erano convinti i nativi del Sud-ovest americano, in particolare i Navajo o gli Hopi, ma dello stesso avviso erano anche gli eschimesi: dalla Terra è emersa l’umanità, dal grembo della Grande Madre. In seguito, morendo si ritorna alla Terra: l’Ade dei greci, lo Svartálfaheimr della mitologia norrena, lo She’ol ebraico, l’Inferno cristiano sono posti sottoterra. I viaggi più estremi si intraprendono all’inizio e al termine dell’esistenza. Pre vita e dopo morte, ma anche vita, perché grandi miti raccontano da tempo immemorabile di città e regni fiorenti nel sottosuolo, dall’Eldorado sudamericano alla Shamballah himalayana, di discese e risalite, esplorazioni e congetture.

Nel corso di ogni esistenza si compiono un numero imprecisato di viaggi; molti di questi lasciano minime tracce, alcuni ci segnano in profondità. 

Mille percorsi, forse un falso movimento che ci conduce sempre a reiterare l’inizio, a preparare la fine, moltiplicando le avventure, le scoperte del mondo comunemente percepito dai cinque sensi: il cosiddetto reale

Si può anche solo immaginare di compiere viaggi, incontrando i medesimi ostacoli, vivendo emozioni identiche, esplorando terre dove il pericolo, che qui nell’ignoto regna sovrano, trascina con se disastri, tragedie, eroismi, sventure, colpi di scena, paura ed eccitazione, come si addice a ciò che è sconosciuto; altrettanto accade quando ci si avventura realmente alla ricerca di terre immaginarie, che si spostano continuamente perché sospinte dall’immaginazione, in un continuo rovesciamento di orizzonti, andando a comporre un’unica grande narrazione. All’origine c’è il viaggio verso la nascita da cui si dipartono tutte le storie degli uomini: cronache delle esplorazioni di terre reali o presunte tali, finzioni di viaggi entro coordinate note e reali, finzioni pure. 

A ben vedere, la geografia nel suo farsi è sempre stata immaginaria e forse il patto finzionale ha confini più ampi di quelli che ragionevolmente gli si riconoscono. Si è percorsa la terra in lungo e in largo, si è sorvolato sopra e intorno a essa, immaginato di andare verso le stelle e di immergersi negli abissi marini. Fondato è il sospetto che scoperta e racconto non siano altro che due lati della stessa medaglia. Lo insinua la lingua araba, che fa derivare i termini narrare, novità ed eventi dalla stessa radice “[…] i primi due poi accumunati dalla stessa parola, quasi a suggerire che è «l’evento», ciò che è «nuovo», a essere degno di «narrazione o, se si vuole, per contemporaneo risvolto dialettico, che quanto è oggetto di «narrazione» si postula implicitamente  come «evento», «novità»” (Arioli, 2015).
Sulla stessa rotta si incrocia un termine della lingua italiana. Annota lo stesso Angelo Arioli: “Notevoli le analogie con l’italiano novella, ulteriormente sobillate da un’intrigante etimologia: «Avviso di cosa recentemente avvenuta, poi Narrazione di cosa favolosa [cioè contenente cose nuove, inaudite] (Pianegiani, 1988)» (ibidem).

Una scoperta dietro l’altra, una fantasia dietro l’altra, disegnando una mappa dietro l’altra; ma al tempo di Google Map, il nostro tempo, che ne è di questa tensione verso l’ignoto? Le terræ incognitæ si sono estinte, a prima vista, da oltre sessant’anni. Lo constatò il geosofo John Kirtland Wright nel suo intervento all’apertura del quarantatreesimo incontro annuale dell’Association of American Geographers di cui Wright era presidente, tenutosi a Columbus, Ohio, il 30 dicembre 1946: “Se per terra incognita intendiamo un’area che ignoriamo totalmente allora oggi non esistono più terræ incognitæ sulla faccia della terra” (Wright, 1947).

 

Illustrazioni di Hendrik Willem van Loon (1882-1944).

 

Quell’intervento poi pubblicato nei Geography Annals dell’Associazione, proseguiva così, tracciando ancora una rotta percorribile dall’immaginazione: “Se noi osserviamo abbastanza da vicino la Terra intera – se, in altre parole, la scala cartografica della nostra indagine sia abbastanza grande – appare come un immenso patchwork di terræ incognitæ in miniatura … se oggi non c’è una terra completamente incognita, allo stesso tempo non c’è una terra completamente cognita. Anche se un'area fosse esaminata a tappeto da un esercito di microgeografi, molto della sua geografia rimarrebbe sempre sconosciuto e quindi così come non esiste alcuna «terra incognita» in senso assoluto, non esiste terra del tutto conosciuta" (ibidem).
Non perdendo mai di vista queste coordinate, potremmo individuare dei campi dove gli sconfinamenti tra il noto e l’ignoto, il veritiero e la finzione, il reale e l’immaginario sono ancora all’ordine del giorno, come se fossero dei semplici punti cardinali. In questo modo si evita maggior smarrimento, si fissano sul mappamondo della mente linee guida.

“[Esistono] dei punti privilegiati intorno ai quali la finzione si organizza e acquista coerenza, luoghi in cui le linee di forza del fantasticare vanno a concentrarsi. A ogni attrazione corrisponde un centro. Per questo certi punti geometrici e geodetici diventano punti sublimi: poli o centro. Il mondo straordinario è costruito come questo: trama del molteplice incrocio delle latitudini e delle longitudini; esso è preso nel fuso del campo magnetico, sfera quasi perfetta. Viaggiare lungo queste linee significa rapportarle all’indice del desiderio che si condensa ai poli cui questi reticoli si riferiscono, verso il centro di questa palla. Cerchi e punti formano una geografia consueta, un programma di cammino e navigazione”
(Serres, 1979).

Verso quali terræ incognitæ tendiamo a dirigerci? Quattro punti cardinali, si è detto:
- le zone del disastro, catastrofi come negativi delle meraviglie della scienza e della tecnica, dove l’immaginazione è tuttora lussureggiante;
- il territorio di tutti i giorni, le città, soprattutto le grandi metropoli dove incessante è la modificazione del disegno urbano nelle cui vie scorrono ancora storie di cui sono protagoniste;
- il grande continente bianco, l’Antartide, tuttora in parte oggetto di esplorazione scientifica, in parte di incursioni immaginarie. Ecco le terræ (tuttora) incognitæ, o meglio, parte di esse, perché l’area più vasta e sconosciuta, esplorata sin dai primordi è sotto i nostri piedi, dove si viaggia sin dai primordi, cercando rifugio in grotte che discendono verso l’infinito. Da questo sommario elenco è assente si noterà la voce isola, ritenuta per certi versi adiacente al concetto di terra incognita. Qui basterà dire che ogni terra circondata interamente dal mare è come l’Isola di Pasqua, ormai nota ma sempre sfuggente. L’isola è il luogo dell’altrove, sede naturale delle utopie, luogo ambiguo, cosicché tutte le utopie sono ambigue e altrettanto le loro sedi naturali, le isole appunto. Più che ignote oggi le isole sono sparite dalle mappe dell’immaginario, sono luoghi difficili da concepire come lo sono le utopie di questi tempi. L’isola di Lost (2004 –2010) non a caso senza nome, è un ritorno di fiamma della fantasia memorabile proprio perché unica.

- Tornando all’esplorazione del sottosuolo, questa precede di millenni la speleologia, inizia nella notte dei tempi, con l’uomo, perché la vita e la morte distano lo spazio di un passaggio, quello dalla terra al sottosuolo dove riposano i resti mortali. Esplorare il sottosuolo è avventurarsi nel regno dei morti, alla ricerca di un mistero senza fine. Sotto i nostri piedi, estesa quanto l’intera superficie del pianeta, c’è un’unica grande, terra incognita che accoglie e protegge l’ignoto. Tutte le avventure umane non sono altro che questo: un’esplorazione progressiva di ciò che è sconosciuto. Avventurarsi nella direzione di territori posti al di là del nostro orizzonte è impresa tutta umana, perché non solo, non sempre, non più dettata dalla necessità di stabilirsi in terre più fertili, generose, meglio disposte verso l’uomo. 

Ci si appresta a viaggiare, ad addentrarsi in terræ incognitæ, spinti da tutt’altra necessità, quello di spingere sempre avanti il confine, di avvicinarsi quanto più è possibile al grande passaggio nell’oscuro inimmaginabile. Le storie vere di viaggi, le cronache di quei viaggi autentici e le vere storie di viaggi immaginari si annodano più volte; andamento sinuoso che suggerisce di guardare all’intera letteratura non solo come un solo grande fiume che trasporta storie di viaggi nel quale sfociano innumerevoli affluenti e che a sua volta disegna un delta infinito, ma che illumina il probabile senso primigenio del narrare, perché “Qualunque racconto (romanzo, storia, cronaca, film, fumetto, ma persino le immagini) presuppone una geografia fantastica, così come presuppone biografie, storiografia, scienze e persino un’epistemologia fantastiche” (Calabrese, 2006).

I più grandi viaggi nell’antichità sono viaggi nel sottosuolo, nel regno dei trapassati, dove il rischio di non tornare, di restarne a far parte anzitempo è una minaccia costante e concreta. Il viaggio verso terre sconosciute è affare per eroi e poeti che ne cantano le gesta, ma solo ai più gloriosi tra di loro si addice l’inabissarsi nelle terre della morte. Catàbasi, gesto estremo, solo Eracle, Orfeo ed Enea si spingeranno nell’altrove all’alba della civiltà occidentale. La dodicesima delle fatiche dell’eroe mitologico figlio di Zeus, lo vide recarsi alla foce del Tenaro, in Laconia, per inoltrarsi nel Regno dei Morti. Molte le versioni del mito d’Orfeo (in versi, in musica e in prosa, da Poliziano a Claudio Monteverdi e Christoph W. Gluck, fino a Dino Buzzati e Cesare Pavese), che a Roma venne soprattutto celebrato da Ovidio nel libro X delle Metamorfosi e da Virgilio nel libro IV delle Georgiche. Il primo ci offre una raggelante istantanea, mentre narra della vana risalita verso l’esterno con l’amata Euridice:

“Si avventurano per un viottolo in salita, scosceso, abbuiato da un nebbione compatto, dentro un silenzio muto”
(Sermonti, 2014).

Il poeta mantovano ricorda la vicenda all’interno della favola di Aristeo, e in seguito riproporrà un secondo viaggio abissale nel VI libro dell’Eneide. Qui, l’eroe virgiliano, giunto al lago d’Averno, descrive così l’ingresso nel sottosuolo:

“V’era una profonda grotta, immane di vasta apertura;
rocciosa, difesa da un nero lago e dalle tenebre dei boschi,
sulla quale nessun volatile poteva impunemente dirigere
il corso con l’ali; tali esalazioni si levavano
effondendosi dalle oscure fauci alla volta del cielo”
(Virgilio, 1989).

In precedenza, sulla soglia dell’Ade si era fermato Ulisse dopo aver raggiunto il paese dei Cimmeri per incontrare l’indovino tebano Tiresia nel canto XI dell’Odissea, ma quasi a come a riscattare il mancato passaggio, andrà in seguito primo fra gli uomini a oltrepassare le Colonne d’Ercole: 

“Ma misi me per l’alto mare aperto,
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto”
(Inferno, Canto XXVI).

Sarà l’Alighieri a narrarlo, secoli dopo, una volta ritrovatosi in una selva oscura da cui prenderà piede la sua celeberrima spedizione verso il centro della Terra nel corso della quale incontrerà o si ricorderà anche di coloro che lo avevano preceduto nella perigliosa avventura e porterà a sintesi l’intera letteratura di viaggio oltremondano che l’aveva preceduto con immagini quanto mai vivide dell’infernale mondo sotterraneo:

“In su l'estremità d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d'un grand' avello…”
(Inferno, Canto XI).

Quando nell’anno del Signore 1665, padre Athanasius Kircher pubblica Mundus Subterraneus (ma l’edizione più completa è del 1678), l’immaginario occidentale si è già intrufolato a più riprese nelle viscere della Terra, alla ricerca del senso della vita, degli amori perduti e del riscatto. La differenza è che ora a popolare il sottosuolo non sono più (solo) i defunti. Il mondo sotterraneo descritto dal visionario studioso austriaco pullula di vita, è abitato da insetti e da giganti, vi scorrono fiumi, ci sono laghi. Tra acque e fuochi sotterranei si scorgono fossili e metalli e il gesuita Kircher, colto, coltissimo discetta su tutto, del sole e della Luna, di panspermia e correnti oceaniche. Opera nata sotto il segno dell’alchimia, testo di passaggio non solo dal sopra al sotto, ma da un sapere all’altro, da quello della tradizione millenaria a quello moderno.

“Simile al cuore del nostro organismo, un fuoco centrale, sosteneva il Kircher, azionava ed alimentava il geocosmus terrestre, perfetto opificium Dei che l’autore prefigurava nelle fogge di un’enorme pompa idraulica. Era, quella del Kircher, una grandiosa applicazione della tradizionale similitudine microcosmo-macrocosmo e dell’altrettanto cruciale immagine del dio-costruttore, una visione estatica e, allo stesso tempo, scientifica che individuava nel subterraneus il luogo del mirabile conjugium dei due principi dell’acqua e del fuoco”
(Zanot, 2009/2010).

Il tutto in analogia anche con la circolazione del sangue nel corpo umano, che William Harvey aveva descritto nell’Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, una quarantina d’anni prima, nel 1628.

Soltanto qualche anno dopo, un altro insigne studioso, vissuto ai tempi di Isaac Newton, viaggiatore, astronomo, matematico, fisico, studioso di cose del cielo e della terra Edmond Halley, scopritore della cometa che porta il suo nome, pubblicò un articolo sulle Philosophical Transactions, della Royal Society di Londra (1692), dove espose l’ipotesi della terra cava, ipotesi che disegnava il nostro pianeta come un sistema di sfere cave concentriche, ben tre, non comunicanti tra di loro e una quarta sfera posta al centro, il nucleo caldo del globo terrestre. Di fatto gli antichi miti extra europei e la sorgente razionalità occidentale si incontrarono tra cunicoli e caverne, un po’ come quando ai nostri tempi si scavano tunnel da due punti opposti di una montagna e le due squadre di operai all’opera si ritrovano faccia a faccia. La teoria di Halley non riscosse consensi tra gli scienziati dell’epoca, ma diede il via a una serie di testi che nel tempo, fino a oggi ancora, edificano il grande racconto della terra cava. “Il primo di questi romanzi è stato probabilmente l'anonimo Relazione di un viaggio dal polo artico al polo antartico attraverso il centro del mondo (1721), seguito da Lamekis di Charles de Fieux (1734), in otto volumi, dove l'interno della terra diventava il rifugio di alcuni sapienti di origine egizia, tra templi sotterranei e mostri del sottosuolo” (Eco, 2013).

Meglio ancora fece ai tempi il danese Ludwig Holberg con Il viaggio sotterraneo di Niels Klim (1741), artefice sia di un’utopia stavolta sotterranea e non isolana; Holberg fabbricò un mondo congegnato come un sistema solare con pianeti e satelliti tutto dentro la Terra, letteralmente inglobato. Scritto in latino (Nicolai Klimii Iter Subterraneum, il titolo), la vicenda narra del giovane baccalauro che precipita da una grotta. Si susseguono incontri con le meravigliose creature del sottosuolo, scimmie inclini alla chiacchiera e savi alberi parlanti. Il lato bizzarro dell’Illuminismo.

Gli fece seguito Giacomo Casanova con il Icosameron (1788), il cui titolo completo è una sinossi efficace: Icosameron, ovvero storia di Edoardo e di Elisabetta che passarono ottant’un anni presso i Megamicri abitanti aborigeni del protocosmo nell’interno del nostro globo (l’opera fu scritta in francese ed è tuttora inedita in versione integrale italiana). Romanzo utopico sulla scia de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift e Micromegas di Voltaire, ma anche esperienza iniziatica che non a caso richiede una nuova ennesima discesa nel sottosuolo. 

 

Illustrazione di Hendrik Willem van Loon (1882-1944).

 

Il secolo successivo, tempo di meraviglie della scienza e della tecnica, è tutto un fiorire di spedizioni sottoterra facendosi largo tra caverne naturali, miniere, crateri e altri orifizi del pianeta. Non meraviglia quindi che a fare da trampolino di lancio per le più fantasiose avventure nella terra cava furono le asserzioni del capitano di fanteria J. Cleves Simmes, distintosi nella guerra del 1812 contro gli inglesi. Nel 1818 declarò: “A tutto il mondo io dichiaro che la terra è vuota e abitabile all’interno, che essa contiene un certo numero di sfere solide, concentriche, cioè poste l’una dentro l’altra, e che è aperta ai due poli per un’estensione di dodici o sedici gradi” (in Eco, 2014).
Si rivolse a varie società scientifiche, anche al Congresso degli Stati Uniti, sostenendo che la Terra al suo interno è cava e abitabile, proponendo allo stesso congresso una spedizione al Polo Nord alla ricerca del foro perduto da cui calarsi. Andò in giro per gli States a tenere conferenze sul tema, a seminare l’immaginario della terra cava. Tutto culminerà con il grande romanzo che inaugura i Voyages Extraordinaires, ovvero Viaggio al centro della Terra (1864). È il passaggio alla modernità, ostinato e forse insensato nel suo procedere come lo scorbutico Otto Lidenbrock, professore di mineralogia e zio del giovane protagonista Axel. Questi vanamente lo scongiura a desistere di attraversare a bordo di una zattera il mare interno nel quale si sono imbattuti:

“Ascoltami! Esiste un limite anche alla maggiore delle ambizioni; non bisogna lottare contro l’impossibile. Noi siamo male equipaggiati per un viaggio in mare. Non si percorrono cinquecento leghe su un’accozzaglia di tavole, avendo per vela una coperta e un bastone per albero, contro venti scatenati. Non possiamo governare, siamo in balia delle tempeste e sarebbe da folli tentare questa impossibile traversata”
(Verne, 1978).

Parole al vento, l’avventura proseguirà tra mille peripezie, come è noto. Quanto ai precedenti, si segnala un romanzo omonimo del 1821, che si deve a un demonologo, Collin de Plancy, o l’incompiuto l’Isaac Lumédec (1855) di Alexandre Dumas che sul tema dell’Ebreo errante ci conduce di fronte alle Parche, sempre giù, nel sottosuolo d’Egitto. Altra avventura in basso si deve a George Sand, che in Laura. Viaggio nel cristallo (1864), più sentimentale e fiabesco di Verne, ma pur sempre una discesa nel cuore della terra, una sequenza di visioni del giovane Alexis innamorato della Laura del titolo. Il romanzo verniano uscì nello stesso anno, coincidenza, così come i protagonisti che vivono entrambi con uno zio tedesco in città tedesche (e si notino i nomi: Axel e Alexis). Coincidenze, uscirono praticamente insieme. Contestazioni invece arrivarono una decina d’anni dopo in seguito alla pubblicazione di La tête de Mimier (1876) di René de Pont-Jest con strascico giudiziario per via della smaccata similitudine tra i due voyages. Il tempo è galantuomo. Il seguito della storia, ovvero il successo di pubblico del testo verniano, le diverse riprese cinematografiche e televisive nel corso dei due secoli successivi, hanno fatto dell’opera il viaggio per eccellenza della modernità così come la Commedia lo è per l’eternità.

Altro testo che consolida l’intreccio tra viaggio sotterraneo e teoria proto/pseudo/fanta/scientifica della terra cava è La razza ventura (1871), di Edward Bulwer-Lytton, che formalizza ulteriormente l’intreccio di questi temi con la letteratura utopica da un alto e quella esoterica dall’altro, finanche nelle sue derive nel Terzo Reich, tutti elementi che si estraggono in egual misura dalle viscere dell’immaginario intorno al sottosuolo. Il secolo si chiude con l’avventura narrata da John Uri Lloyd, di professione farmacologo, in Etidorhpa (Aphrodite al contrario) uscito nel 1895, romanzo che ebbe tra i suoi lettori anche Howard Phillips Lovecraft, uno che di oscurità se ne intendeva. 

Le cose si fanno più esotiche nel Novecento, con un fiorire nella prima metà del secolo di mondi perduti, civiltà dimenticate e mostri d’altri tempi, tutto sempre ben nascosto sotto i nostri piedi. Lacerti di Atlantide, di Mu, di Lemuria, tempo di Henry Rider Haggard, di film come Orizzonte perduto (Frank Capra, 1937) tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton che inventò di sana pianta la collocazione della mitologica Shangri-La nel sottosuolo e piantò radici in esoterismi assortiti da René Guénon a Madame Blavatsky fino al Terzo Reich; (ri)fiorirono nuovi miti come quello della città di Agarttha (o a seconda delle fonti, Agartha, Agarthi, Agardhi o Asgartha), una specie di India del piano di sotto. Un vero campione del genere fu Edgar Rice Burroughs, al quale l’uomo scimmia non bastava per dare conto della sua lussureggiante immaginazione. Si avventurò sul pianeta rosso (John Carter di Marte, un ciclo di nove romanzi) e nel sottosuolo con la serie dedicata a Pellucidar (cinque romanzi e quattro racconti), una saga iniziata nel 1914 con At the Earth's Core. Il mito della terra cava ha generato un’infinità di storie. Umberto Eco ne ricorda altre ancora: “Il geologo russo Vladimir Afanasevič Obručev si è forse ispirato a Burroughs o a Verne per narrare di una terra cava piena di bestie preistoriche in Plutonia (1924), e sulle tracce di Burroughs, nel 1920, Victor Rousseau aveva pubblicato L'occhio di Balamok dove troviamo un centro della terra rischiarato da un sole centrale che gli abitanti non possono guardare senza morire” (Eco, 2013). Tornano utili anche i toni fiabeschi per conoscere i regni della terra di sotto. Vi ricorse Herbert Read con il suo unico romanzo (era poeta e saggista) La fanciulla verde (1935), che si agganciava alla leggenda dei Bambini Verdi risalente al XII secolo. In questa storia incantata il protagonista, tale Olivero, è guidato da una bambina verde, Sally il cui vero nome è Siloēn, nelle terre da cui lei proviene. Accedono da una grotta, segno che il modello dantesco è sempre stato imprescindibile (lo aveva ben in mente Verne, ad esempio, cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero57).

La mappa delle mappe dedicate al sottosuolo, alla cavità del pianeta è però impossibile da rendicontare. Sempre Eco (cfr. ibidem) precisa che nell’enciclopedico Les Terres creuses, circa ottocento pagine, il più aggiornato catalogo in materia di mondi sotterranei, caverne e profondità assortite, si segnalano oltre duemiladuecento titoli in varie lingue tra saggi e finzioni (cfr. Costes, Altairac, 2006).

Grotte, anfratti, cunicoli sotterranei, attraversamenti da un polo all’altro, città sotterranee. Un altro giro di boa si effettua nel secondo dopoguerra, dopo le considerazioni sopra citate di John Kirtland Wright riguardo alla ambigua sparizione delle terræ incognitæ: sotto la superficie terrestre si costruisce sul serio e si immagina altrettanto seriamente per sopravvivere all’olocausto nucleare.

Il destino può essere feroce oltre misura, perché oltre a riservarci un futuro radioattivo è in grado anche di calcare la mano e condannarci per l’eternità a vivere nel sottosuolo. Può accadere in seguito a un (presunto) confitto mondiale, come nel romanzo di Philip K. Dick, La penultima verità (1964), di rifugiarsi in agglomerati sotterranei simili a formicai, magari per un motivo quasi dimenticato, come raccontò nel 1971 anche un giovanissimo George Lucas in THX 1138, ovvero L’uomo che fuggi dal futuro, claustrofobico affresco dell’umanità del XXV secolo che alberga stabilmente in città sotterranee. Moralismi a parte, il film offre i migliori panorami di questo ramo della distopia fantascientifica, specie nella terra di mezzo posta tra l’insediamento umano e la superficie del pianeta. Il rifugio anti atomico che si espande in metropoli sottoterra è un topos che ci ha consegnato la guerra fredda, dentro il quale gli incubi proliferano. Al termine del braccio di ferro tra i due blocchi, quello statunitense e quello sovietico, alla fine delle grandi esplorazioni geografiche, quando l’epopea delle scienze si è conclusa e l’incanto del mondo evaporato, la speleologia diventa adulta (il suo impianto attuale ha meno di cent’anni) e si iniziano a perlustrare chilometri di terra invisibile ai nostri occhi. 

Al tempo stesso ritorna l’avventura alla Burroughs, ben shakerata con altri esotismi e si finisce anche sottoterra in labirintiche miniere, come succede a Indiana Jones, protagonista di una delle fughe immortalate su pellicola più spettacolari di tutti i tempi in Indiana Jones e il tempio maledetto (1984). Tralasciando cimiteri, necropoli e miniere, i sentieri dell’immaginario, si è visto a volte si incrociano a volte in punti impensabili, specie sottoterra, dove storie di cinema, vecchi terrori, sportivi in cerca d’avventure e studiosi nati sotto il segno della speleologia si inoltrano e spesso finiscono nel perdersi nel cuore della terra. Molti film dell’orrore del XXI secolo si calano nel mundus subterraneus a volte scoprendo cose che sarebbe meglio non scoprire. 

Ne sanno qualcosa i protagonisti di Dead Mine, film del 2012 diretto da Steven Sheil che vede un manipolo di mercenari al soldo di un cacciatore di tesori perduti infilarsi in un bunker giapponese risalente al secondo conflitto mondiale nel bel mezzo della giungla indonesiana. Sotto c’è un intero mondo, non piacevole. Stessa sorte disgraziata per i protagonisti di Il nascondiglio del diavolo - The Cave (2005) di Bruce Hunt, scienziati nelle viscere della Romania. È dello stesso anno la pellicola che a tutt’oggi resta insuperata nel genere e nella produzione horror tout court: The Descent (Discesa nelle tenebre) di Neil Marshall.
Che cosa sono le creature che una dietro l’altra fanno a pezzi e divorano le sventurate speleologhe rimaste bloccate da una frana nel corso di un’escursione? Mondo freddo, inumano, regno del buio assoluto. Quando rapide e feroci, coloro che abitano questo pianeta alieno appaiono come un lampo sulla scena, si leva maestosa la paura ancestrale dell’uomo per l’ignoto, perché: “Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto” (Lovecraft, 2011; cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero32).
Non sappiamo nulla in realtà di quest’altra Terra, tuttora deposito, miniera d’immaginario, così come sono ignoti a noi stessi i nostri grandi viaggi, il primo l’ultimo. Non ci sono alternative, si deve continuare a viaggiare, a cercare materia per racconti, a incontrare lo sconosciuto che ci atterrisce. Forse a conoscere la verità nei paraggi di una caverna, è dai tempi di Platone che si considera sul serio l’eventualità. Viaggiare, altro non c’è.

 

Illustrazioni di Hendrik Willem van Loon (1882-1944).

 


 

LETTURE

  Dante Alighieri, la Divina Commedia (testo critico della Società Dantesca Italiana,
  con commento scartazziniano riveduto da Giuseppe Vandelli), Hoepli, Milano, 1993.
  Angelo Arioli, Isolario arabo medioevale, Adelphi, Milano, 2015.
  Edward Bulwer-Lytton, La razza ventura, Arktos, Carmagnola (To), 2006.
  Omar Calabrese, L’immaginazione e le sue geografie, in catalogo mostra Voi (non) siete qui,
  Skira, Milano, 2006.
  Guy Costes, Joseph Altairac, Les Terres creuses, Les Belles Lettres, Parigi, 2006.
  Philip K. Dick, La penultima verità, Fanucci, Roma, 2013.
  Umberto Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani, Milano, 2013.
  Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 2014.
  Ludvig Holberg, Il viaggio sotterraneo di Niels Klim, Adelphi, Milano, 2004.
  Athanasius Kircher, Mundus Subterraneus, (ristampa anastatica), Arnaldo Forni, Bologna, 2011.
  Howard Phillips Lovecraft, Teoria dell’orrore, Bietti, Torino, 2011.
  Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, I Dioscuri, Genova, 1988.
  Herbert Read, La fanciulla verde, Bompiani, Milano, 1952.
  Vittorio Sermonti, Le Metamorfosi di Ovidio, Rizzoli, Milano, 214.
  Michel Serres, Jules Verne, Sellerio, Palermo 1979.
  Jules Verne, Viaggio al centro della Terra, Mursia, Milano, 1978.
  Virgilio, Eneide, Mondadori, Milano, 1989.
  John Kirtland Wright, Terrae incognitae. The Place of Imagination in Geography Annals of the Association
  of American Geographers, Volume 37. Issue, Washingtown, Usa, 1947.
  Irene Zanot, L’arte del cadere. Il mitologema della caduta nella Narrative of Arthur Gordon Pym
  di Edgar Allan Poe e nel Voyage au centre de la terre di Jules Verne, Tesi di Dottorato di Ricerca
  in Scienze Letterarie (Letterature Comparate), XXI Ciclo, a.a. 2009/2010.

 


 

VISIONI

  Eric Brevig, Viaggio al centro della Terra, (3D), 01 Distribution, 2014 (home video).
  Frank Capra, Orizzonte perduto, Sony Pictures, 2002 (home video).
  Bruce Hunt, Il nascondiglio del diavolo – The Cave, Sony Pictures, 2006 (home video).
  Hanry Levin, Viaggio al centro della Terra, 20th Century Fox Home Entertainment, 2008 (home video).
  George Lucas, L’uomo che fuggì dal futuro, Warner Home Video, 2004 (home video).
  Neil Marshall, The Descent – Discesa nelle tenebre, Eagle Pictures, 2012 (home video).
  Steven Sheil, Dead Mine, Entertainment One, 2013 (home video).
  Steven Spielberg, Indiana Jones e il tempio maledetto, Universal Pictures, 2011 (home video).