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di Livio Santoro

 

Nel 1904 il tedesco Kurd Laßwitz mise su carta lo smarrimento dell’insondabile. Il suo è un testo che implicitamente dichiara di contenere se stesso. O meglio il suo, più che un testo, è l’immagine, forse l’incubo, di uno spazio. Uno spazio immenso, vertiginoso, il cui scopo disarmante è rintracciare i confini tra il finito e l’infinito: La biblioteca universale. Una biblioteca popolata da uno spaventoso numero di volumi. Abbacinante. “Per quanto ci sforziamo di immaginarlo, non riusciremo mai ad avvicinarci a questo numero gigantesco” (Laßwitz, 2006), si dice nel racconto. Nella biblioteca di Laßwitz c’è ciò che è già stato scritto, ciò che pur essendo stato scritto è andato dimenticato o perduto, ciò che sarà scritto in futuro, e anche tutte le combinazioni logicamente immaginabili di una convenzionale serie di cento caratteri (le lettere dell’alfabeto, il punto, la virgola, le cifre da 0 a 9, lo spazio tipografico e diversi simboli matematici) a stampa su cinquecento pagine, ognuna di quaranta righe, le quali, a loro volta, contengono cinquanta caratteri ciascuna. Il mondo intero, o meglio l’universo intero, non sarebbe in grado di contenere un numero siffatto di volumi.
Ebbene, al centro di questo spazio (un centro alla maniera di Giordano Bruno, un centro che possiamo soltanto immaginare) c’è una terribile domanda: Quante sono le possibilità dell’infinito, quando questo si traveste da finito? Per coloro che hanno letto il racconto, a voler essere sinceri, anche una soltanto: abbandonarsi allo spaesamento, farsene determinare.
Il finito e l’infinito, in questo loro approssimarsi vicendevole, invertono il proprio ruolo: è il secondo a farsi sulla piattaforma del primo, non viceversa. Ed è esattamente su questa sottile trama di inversione, su questo bizzarro gioco delle parti, che ci affacciamo con Kurd Laßwitz; come se ci sporgessimo sul crinale di un precipizio che sappiamo (almeno dal punto di vista della logica) avere un termine. Un termine che, tuttavia, non saremo mai in grado di accarezzare. Come il numero dei volumi della biblioteca, sappiamo che esiste, sappiamo che soltanto per scriverlo ci vorrebbe un rotolo di carta lungo quattro chilometri, ma non sappiamo che nome abbia.
Va detto, tuttavia, che la fortuna di Laßwitz, disgraziatamente per lui, non è stata all’altezza del titolo del suo racconto. Sicché, probabilmente perché cose tanto abbacinanti non possono restare nell’ombra, la sua idea di base venne poi recuperata dall’altra parte del mondo da un secondo scrittore. Uno che senza dubbio ha avuto maggior sorte. D’altronde le idee sono di tutti, basta coglierle, raccontarle nuovamente, dar loro altra forma e concretezza.
Così, nel 1939, trentacinque anni più tardi, Jorge Luis Borges, che di per sé non ha fatto altro che dare nuove versioni a idee già viste in qualche luogo dove esse sono sempre state, scrive un saggio intitolato La biblioteca total, recuperando esplicitamente il modello di Laßwitz. Modello che poi, ancora dopo un paio d’anni, e siamo nel 1941, affiancherà al mito universale dell’incomprensibile, del caos e dell’incomunicabile. Non si tratta più di raccontare un vezzo da matematici, seppure terribile. L’idea di una biblioteca che contenga tutti i libri immaginabili si tramuta con Borges in un enigma da metafisici, in un crudele gioco filosofico.

 

libro12_borgesCosì nasce La biblioteca di Babele, forse, insieme alla sfera de L’Aleph, il simbolo per eccellenza dell’opera borgesiana. La biblioteca come l’Aleph: un luogo che al suo interno contiene tutti gli altri luoghi, a rigore anche quello generato dalla spaventosa combinazione di uno specchio e di un libro, due oggetti già di per sé senza fine (Tlön, Uqbar, Orbis tertius), per esempio, oppure quello in cui versa l’anima solitaria di un minotauro sofferente (La casa di Asterione). Lì dentro, in quella biblioteca che porta un nome programmatico, c’è tutto: anche queste parole che un autore ha scritto nella canicola di un pomeriggio d’estate senza vento e che alcuni lettori, è augurabile, leggeranno (d’estate o d’inverno non importa, questi sono fatti loro). Qui le combinazioni, rispetto a quelle paventate da Laßwitz si riducono: quattrocentodieci pagine di quaranta righe, ognuna delle quali ospita ottanta caratteri; spariscono i simboli matematici, resta, come vedremo, un’abbondante ventina di simboli ortografici. Il numero di possibili combinazioni che ne vien fuori, tuttavia, non è meno vertiginoso di quello della biblioteca di Laßwitz. Immaginare entrambi è immaginare qualcosa che non ha nome né, probabilmente, l’avrà mai.
Nella biblioteca di Babele, fatta di stanze esagonali che si ripetono nello spazio, ci sono volumi che replicano con testardaggine la stessa lettera per tutte le loro pagine; volumi che sono l’ossessiva ripetizione della medesima incomprensibile serie di lettere; volumi che in quattrocentodieci pagine di caratteri casuali nascondono il tuo nome; volumi che raccontano una storia in cui Alice è la Regina; in cui K. uccide i suoi carnefici e finalmente trova la pace; in cui Paolo e Francesca versano in un’eternità lussuriosa fatta di luce; in cui si racconta dei figli di Muspell e di Ásgarðr stanchi di combattere tra loro; volumi in cui si dimostra e si confuta l’esistenza di dio e dell’uomo; volumi in cui Achille e la Tartaruga smettono di rincorrersi. E ancora:

 

La storia minuziosa dell’avvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsità di quei cataloghi, la dimostrazione della falsità del catalogo vero, il vangelo gnostico di Basilide, il commento di quel vangelo, il commento del commento di quel vangelo, la relazione veridica della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri, il trattato che Beda avrebbe potuto scrivere (e non scrisse) sulla mitologia dei Sassoni, i libri perduti di Tacito.

 

In questa spaventosa contemporaneità di vettori, in questo spazio prossimo all’infinito (o infinito in ragione della sua costante ripetizione, in quanto la biblioteca come sostiene il narratore, potrebbe essere “illimitata e periodica”), l’uomo si smarrisce. Non tanto per la vastità, che pure è disarmante nella sua assenza di limiti visibili, quanto per la terribile sensazione che nulla, a rigore, è realmente autentico. Nonostante Martin Heidegger, che pure appartiene alla biblioteca. Tutto è confutabile, ogni storia, ogni dimostrazione. Ogni realtà. Nella biblioteca non ci sono solo libri, ci sono innumerevoli prove dell’infondatezza del lavorio di ricerca, della sua insolubilità. Così gli abitanti della biblioteca, che in fin dei conti siamo noi stessi, vanno avanti negli anni, quando resistono al suicidio ed alle malattie polmonari, soltanto per cercare.
Cercare che cosa?
Un libro diverso dagli altri che alcuni, smarriti nello smarrimento, hanno solamente immaginato.
Non vi è un appiglio, non vi è nulla. Solo congetture.
È un drammatico regressus ad infinitum quello che ci descrive Borges. Il libro, oggetto già di per sé infinito (si prenda Il libro di sabbia, si prenda quanto sostiene la Kabbalah), si moltiplica vertiginosamente.
Sicché si sappia che in un singolo libro, per quanto implicitamente ci sia già tutto, forse, invece, non c’è assolutamente nulla.
Questo per dire che la vita umana (di noi uomini che abitiamo quest’altra biblioteca che è il nostro mondo) non è affatto assurda. Piuttosto, come altrove ha scritto lo stesso Borges, è disgraziatamente reale. In quanto tale è fondamentalmente falsa. L’assurdo non è altro che un pretesto che gli uomini di senno hanno messo davanti ai propri stessi limiti. L’assurdo è uno scarto che va volta per volta coniugato con parole, fino ai limiti che accarezzano l’infinito. È la realtà che lo richiede, disgraziatamente. La nostra e quella della biblioteca. E ognuno di noi, quando balbetta la parola “fine”, quando trova un senso alle cose, probabilmente non fa altro che negare il reale dandogli forma, cercando di declinare le possibilità di una vastità senza orizzonte nel modo meno doloroso possibile (che è poi, forse, il più arrogante).
Nella ricerca estenuante degli abitanti della biblioteca, in cui trovare un volume con una sola frase di senso comprensibile al lettore è evento che fa storia:

 

[Qualcuno] si imbatté in un libro altrettanto confuso degli altri, ma con quasi due pagine di righe omogenee. [Questi] mostrò la sua scoperta a un decifratore ambulante, che gli disse che erano redatte in portoghese; altri gli dissero che erano in yiddish. In meno di un secolo si riuscì a identificare l’idioma: un dialetto samoideo-lituano del guaranì, con inflessioni di arabo classico. Venne decifrato anche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di disposizione con ripetizione illimitata. Quegli esempi permisero che un bibliotecario di genio scoprisse la legge fondamentale della Biblioteca. Questo pensatore osservò che tutti i libri, per quanto diversi, sono formati da elementi uguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Aggiunse anche un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: Non ci sono, nella vasta Biblioteca, due libri identici.

 

Dunque, a rigore, la biblioteca sarebbe finita, seppure vastissima. Come quella di Laßwitz, d’altronde.
Ecco: da un libro con due pagine omogenee, gli abitanti della biblioteca traggono una legge fondamentale che almeno dia un sollievo alla loro ricerca, una speranza forse. Così noi, attraverso i nostri libri, con la nostra arroganza, traiamo leggi di spiegazione del mondo. Ma, in fondo, sappiamo che non stiamo facendo altro che ingannarci. Tutto, la stessa scienza è costitutivamente fallibile. Come gli abitanti della biblioteca noialtri coniughiamo la casualità di una scoperta (sia essa scientifica o meno) allo scopo di superare il nostro spaesamento, gli diamo una direzione. Ma, così facendo, non elaboriamo altro che congetture.
È la nostra paura a farci parlare, a determinarci in quanto cercatori. Ma in fondo sappiamo (almeno dovremmo sapere) che la ricerca in cui siamo imbrigliati non ha soluzione, che è infinita e terribile, fiaccante. Siamo fatti di questo smarrimento. È terrificante, certo, ma è proprio così.

 


 

LETTURE

Borges Jorge Luis, La biblioteca total, in Sur, n. 59, 1939.

Borges Jorge Luis, La biblioteca di Babele, in Finzioni, Adelphi, Milano, 2003.

Laßwitz Kurd, La biblioteca universale, in Bartocci Claudio (a cura di), Racconti matematici, Einaudi, Torino, 2006.

 

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