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di Antonietta De Feo

 

Mezzo bestia e mezzo uomo, “infamia di Creti” (Alighieri, 1996) e punizione divina, dall’unione fra le più riprovevoli che il Mito abbia trasmesso nasce costretto nel parossismo dell’orrido poetico il Minotauro. 
Intreccio di stanze, gallerie e curve senza alcuna via di uscita, sciagura e meraviglia concepita dal genio prometeico di Dedalo nasce il leggendario Labirinto. 
Minotauro e Labirinto sono proiezioni allegoriche di cui Friedrich Dürrenmatt si serve per rivelare lo smarrimento umano di fronte alle attese deluse, e il suo è un racconto, una trasposizione del mito greco ben diversa da quella operata dalla teologia cristiana. L’essere che Pasifae, moglie del re cretese Minosse, partorì dopo che “era stata montata da un toro bianco”, si spoglia qui dell’ira insensata che lo rese, nell’inferno dantesco, custode del cerchio dei violenti. Si osserva, bensì, “il farsi” dell’esistenza corporea, emozionale e sensitiva di un mostro, dentro e attraverso un mostro architettonico rivestito di specchi mistificanti. Ed è proprio il Labirinto umbratile a suscitare nel lettore angoscia e terrore: esso esaspera l’impenetrabilità della natura umana, l’ambizione antropica di medesimezza e, al contempo, il dramma della solitudine.

 

Vide davanti a sé un’infinità di esseri fatti com’era lui, e come si girò per non vederli più, un’altra infinità di esseri uguali a lui. Era come paralizzato. Non sapeva dov’era né cosa volevano quegli esseri accovacciati tutt’intorno, forse sognava soltanto, anche se non sapeva cosa fosse sogno e cosa realtà.

 

libro08_durrenmatt.La penna dello scrittore svizzero descrive uno sprovveduto Minotauro che, ingannato e isolato da uno spazio di innumerevoli riflessi, non è capace di riconoscere il confine demarcatore tra sé e le immagini di sé. Anzi, egli attribuisce una presenza reale a quelle visioni, tutte identiche in movimenti puerili e scomposti, fino a ritenere “di essere un essere fra molti esseri uguali”. È insomma un “sentire” senza “giudizio”, un “rimettersi all’apparenza senza cercare di possederla e di saperne la verità” (Merleau-Ponty, 2003). Questa rappresentazione sensibile dell’illusione, in cui il Minotauro appare beffa delle sue stesse ombre, richiama al pensiero il mito platonico della Caverna. Eppure non c’è conoscenza qui che liberi dalla schiavitù dell’impressione pura, non c’è modo di approdare a un’idea distinta e perfetta di sé e del mondo. Non si tratta tuttavia di freddo e compiaciuto scetticismo: nel racconto di Dürrenmatt il Minotauro, come proiezione della condizione umana, suscita pietà ancor più che ribrezzo. Una pietà narrata nella gioia di veder imitati i propri gesti, gioia che diventa danza ritmica dell’essere con le sue immagini, insieme specularmente identiche e inverse. 
Seppure riuscisse a identificare i fenomeni percettivi, a riconoscere in quegli specchi il proprio duplicato, il suo resta un destino di desolazione, senza alcuna via di fuga se non la morte. Lo conferma l’incontro con l’alterità, il contatto con “altra carne”. Come vuole il mito, infatti, al Minotauro venivano dati in pasto ogni anno, come tributo della città di Atene, sette giovani e sette fanciulle. In questo inquietante passaggio, l’uomo-toro di Dürrenmatt giunge ai margini della conoscenza.

 

E quando la fanciulla gli corse fra le braccia, quando toccò d’un tratto il suo corpo, la carne calda, bagnata di sudore e non il duro vetro che aveva fin lì toccato, comprese – nei limiti in cui si può parlare di comprendere da parte del minotauro – che fino a quel momento era vissuto in un mondo in cui c’erano solo minotauri, ciascuno rinchiuso in una prigione di vetro.

 

Incorporando l’altro prima attraverso una goffa intimità sessuale poi cibandosi di esso, il Minotauro apprende, in maniera confusa, il suo orizzonte d’esperienza. Egli si fa mostruoso e orripilante quando la sua lunga lingua violacea poggia sulla pelle bianca della fanciulla, in una unione che “rende insopportabile il farsi uomo di quel toro”. 
Deformità che diventa tale al cospetto della bellezza, e bellezza che diventa tale al cospetto della deformità, Dürrenmatt racconta così la tragedia dell’essere che non può “decidere la propria identità” (Remotti, 1996) perché soggiogata dal brutale contrasto con l’esperienza altrui; dell’essere che non può rivendicare come esito di incontenibile felicità la brutalità perpetrata sul corpo della fanciulla. Per arbitrio umano, si tratta invece di incontenibile violenza, che legittima l’ultimo atto di catarsi del diverso, dopo la prigionia nel prismatico Labirinto. Sarà Teseo, figlio del re d’Atene, con l’aiuto della sua amante, Arianna – peraltro sorella del Minotauro – a liberare il suo popolo da quel mostro. 
In preda alla rabbia per la diffidenza, la paura e la timorosa sfida con cui le vittime sacrificali si mostravano a lui, lui che nel suo “innocente candore” desiderava solo danzare con gli altri, dimenticando la sua condanna, il Minotauro si scaglia alla cieca contro la prima ombra. Sfonda la parete di vetro, la sua immagine si frantuma in innumerevoli schegge e avverte così l’irrealtà di quell’essere davanti a lui.

 

E un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso […]. Avvertì che non esistevano tanti minotauri ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme.

 

Dorme il Minotauro, spaccato dalle sue apparenze, stanco di credere in quella sensazione appena intuita di fratellanza, di amicizia, mentre Arianna avvolge il filo rosso attorno alle sue corna, disponendo l’ultima insidia alle sue attese. E quando si risveglia, disteso al suolo, scorge da quei piccoli occhi rossastri un essere identico a lui, non più riflesso speculare di se stesso, ma un altro minotauro le cui movenze non è in grado di controllare, perché temporalmente dissimili dalle sue. Non può presumere che sia il suo carnefice, Teseo, camuffato da una testa di toro e non può nemmeno abbandonarsi al sospetto di una trappola, tanto è il desiderio di un Tu che gli mostri i sentieri dell’Io.
Ed è proprio in questo ultimo atto del racconto che emergono le peggiori antinomie del vissuto umano.

 

E quando il minotauro si gettò tra le braccia aperte dell’altro, confidando di aver trovato un amico, un essere come lui, e quando le sue immagini si gettarono fra le immagini dell’altro, l’altro colpì e colpirono le sue immagini.

 

Se è vero che l’identità si svela nell’intersoggettività, se il giudizio prende forma nella connessione tra realtà sempre incomplete, è altrettanto vero che è proprio questo aspetto relazionale a renderci soli. L’Io inerisce il Tu ma lo rende inadeguato, malfatto, sempre abbozzato. 
E ancora, oltre e prima di quel pugnale dalla guaina di pelo inferto all’uomo-toro, c’è un’altra dualità insolvibile: è la raison vivante degli impulsi, degli affetti appena accennati del Minotauro contro la raison rationnelle del Labirinto, che vieta e così annulla l’incertezza e la problematicità del reale.

 

Il minotauro sognò amore, sicurezza, vicinanza, calore e contemporaneamente seppe di essere un anormale.

 


 

LETTURE

Alighieri Dante, La Divina Commedia. Inferno, Angelo Signorelli Editore, Roma, 1996.

Dürrenmatt Friedrich, Minotauro, in Romanzi e racconti, Einaudi, Torino, 1993.

Merleau-Ponty Maurice, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003.

Remotti Francesco, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1996.

 

VISIONI

Magritte René, La riproduzione vietata, 1937, riprodotto in Larkin David (a cura di), Magritte, Mondadori, Milano, 1972.

 

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