m03.jpg Rielaborazione di Cena in Emmaus, Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1602, cm. 139 × 195, Londra, National Gallery

UNA COINCIDENTIA OPPOSITORUM
IN VERSIONE DA
OSTERIA

di Livio Santoro

 


In una massima murale del signor Naoshige 

era scritto: «Considera le cose 

di grande importanza non troppo seriamente».

 

Yamamoto Tsunetomo

Hagakure



Nell’Aleph di Jorge Luis Borges (2003) c’era (c’è) ogni cosa, la possibilità di ogni cosa e di ogni sua prospettiva. Nell’Aleph, quella piccola sfera nascosta nella cantina di un appartamento di via Garay, in Buenos Aires, né luminosa né buia in cui ci sono tanto la luce quanto l’oscurità, le contraddizioni convivono senza che più le si possa considerare tali, in una coincidentia oppositorum ipertrofica, accogliente e totale. La grandezza di oggetti come l’Aleph, che esistano o meno, ha fatto la fortuna della narrativa, e ha ispirato il pensiero quando questo si trovava a dover rappresentare quell’ente fantasioso che comunemente, e da più parti, è stato chiamato con il nome di Dio. La possibilità da essi offerta sta in quella gratificante necessità umana di dover pensare all’annullamento delle differenze; annullamento che è in Dio, nell’assoluto o, alla maniera di Plotino, nell’Uno: “vita immutabile, tutt’intera, infinita, completamente stabile” (2004).
Non una descrizione paesaggistica della realtà che opera per separazione, che settorializza gli elementi e gli attributi di un ente, ma una definizione operata dal pensiero che assume nell’ente unico il peso dell’eterogeneo, facendone cifra dell’assoluto.
D’altronde l’eterogeneo è proprio la misura del possibile come manifestazione del mutamento, pur nella fissità dell’istante. L’eterogeneo di cui parliamo è contemporaneità totalizzata, è sovrapposizione, mai gerarchica, di una serie indefinita di attributi coevi ma qualitativamente distanti. E sono numerosi gli oggetti totali che l’intelletto umano ha creato, tutti dispositivi, come l’Aleph, in grado di sconfiggere l’incertezza terrena che accompagna l’umano nella lenta recita della sua lunga tragedia.
Ma in quanto oggetti del pensiero, della narrativa o della religione, queste totalizzazioni uniche dell’eterogeneo restano immagini, rappresentazioni, simulacri. Proiettano l’uomo nell’oltre-mondano, lo disarcionano dalla sua dimensione terrena, spesso dalla sua corporeità.
Che allora si rintracci invece nel concreto, nel palpabile, la stessa natura degli oggetti totali del pensiero; si cerchi scavando nella più sensoriale delle piattaforme: tattile, gustativa, olfattiva. Quella piattaforma in cui si riproduce il corpo stesso di quell’uomo il cui pensiero s’arrovella. Naturalmente in questa dimensione non è possibile ricercare l’assoluto come cifra dell’eterogeneo, ma si può cercare l’eterogeneo come cifra dell’assoluto, purché i suoi elementi siano contemporanei nella stessa localizzazione. Una traduzione dell’assoluto oltremondano sulla scena del concreto, potrebbe dirsi. Si ricerchi quindi un oggetto totale visibile, al di fuori della narrativa e della filosofia (che probabilmente sono la stessa cosa).
Ma prima si ricordi brevemente quanto due filosofi del passato hanno detto sull’uomo, che in fin dei conti è sempre il protagonista di questa nostra storia. Martin Heidegger l’ha descritto come quell’ente che, unico, è in grado di porsi il problema dell’Essere (dunque, diciamo noi, anche di Dio); Ludwig Feuerbach, invece, ha ancorato l’uomo alla dimensione della carne e dei nervi, secondo quell’adagio abusato e un po’ mal interpretato che recita “l’uomo è ciò che mangia”.
In queste due versioni dell’uomo stanno esattamente due possibilità (se abbiamo ancora intenzione di seguire il ragionamento che sopra abbiamo cominciato): quella di rappresentarsi l’oggetto totale, sintesi dell’eterogeneo, come un fatto del pensiero; quella di rappresentarselo come fosse invece un fatto della materia palpabile, la stessa che abbiamo sotto gli occhi, nelle mani o tra i denti. Ma tra le due, sia detto con franchezza, seguendo l’opposizione Heidegger-Feuerbach che abbiamo proposto forse con troppa leggerezza, è la seconda a precedere la prima: perché l’uomo che non mangia non può pensare; l’uomo che mangia può invece pensare (o allo stesso modo può non farlo), e solo di conseguenza può porsi il problema dell’Essere, dell’Uno, di Dio e di tutte queste cose che hanno bisogno della maiuscola per vestirsi di grandezza.
Prendiamo allora la seconda strada sopra indicata, e in essa cerchiamo l’eterogeneo nell’oggetto unico, che annulla e accoglie, concettualmente, le contraddizioni e le aporie. Siamo partiti da un libro, L’Aleph, in cui si racconta di un oggetto totale, e arriviamo adesso ad un altro libro, in cui, all’atto della concretizzazione dell’immaginario, incontriamo proprio un altro oggetto totale.
La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a firma di Pellegrino Artusi, è il libro di cui parliamo; il pasticcio di maccheroni è invece il nostro oggetto totale.
Questa la storia che ne parla e lo presenta:

 

I cuochi di Romagna sono generalmente molto abili per questo piatto complicatissimo e costoso, ma eccellente se viene fatto a dovere, il che non è tanto facile. In quei paesi questo è il piatto che s’imbandisce nel carnevale, durante il quale si può dire non siavi pranzo o cena che non cominci con esso, facendolo servire, il più delle volte, per minestra.
Ho conosciuto un famoso mangiatore romagnolo che, giunto una sera non aspettato fra una brigata di amici, mentre essa stava con bramosia per dar sotto a un pasticcio per dodici persone che faceva bella mostra di sé sulla tavola, esclamò: - Come! per tante persone un pasticcio che appena basterebbe per me? - Ebbene, gli fu risposto, se voi ve lo mangiate tutto, noi ve lo pagheremo. - Il brav’uomo non intese a sordo e messosi subito all’opra lo finì per intero. Allora tutti quelli della brigata a tale spettacolo strabiliando, dissero: - Costui per certo stanotte schianta! - Fortunatamente non fu nulla di serio; però il corpo gli si era gonfiato in modo che la pelle tirava come quella di un tamburo, smaniava, si contorceva, nicchiava, nicchiava forte come se avesse da partorire; ma accorse un uomo armato di un matterello, e manovrandolo sul paziente a guisa di chi lavora la cioccolata, gli sgonfiò il ventre, nel quale chi sa poi quanti altri pasticci saranno entrati.
Questi grandi mangiatori e i parassiti non sono a’ tempi nostri così comuni come nell’antichità, a mio credere, per due ragioni: l’una, che la costituzione dei corpi umani si è affievolita; l’altra, che certi piaceri morali, i quali sono un portato della civiltà, subentrarono ai piaceri dei sensi.

 

Questa la storiella. Ma dov’è l’eterogeneo? Nell’accorpamento di una classica opposizione binaria simile a quelle che hanno sempre foraggiato l’antropologia e un’altra manciata di scienze dell’uomo: il dolce e il salato. Tutto quello che c’è dentro il pasticcio, infatti (rigaglie di pollo, meglio se con uova non ancora mature, creste e barbigli della stessa bestia, funghi, prosciutto crudo e cotto di maiale, animelle di un’altra bestia ancora, tartufo, balsamella e maccheroni), sta chiuso in un involucro di pasta frolla, come quella che s’usa per le crostate anche se un po’ più magra. Questo un primo elemento della nostra dimostrazione.
Inoltre è oggetto totale, il nostro pasticcio, per numerosi altri argomenti. Innanzitutto la coincidenza degli opposti (salato e dolce) che annulla le opposizioni antropologiche di cui abbiamo già parlato. In secondo luogo perché racchiude, nelle sua densità, proprio come l’Aleph, l’essenza dell’eterogeneo e del mutamento: le uova ancora non mature del pollo sono micro-localizzazioni staminali, che si danno senza ancora rilanciare nella pratica sulla scommessa delle possibilità, sono generative di soggettive prospettiche, non ancora compiute nemmeno nel loro essere germinative. In terzo luogo perché con metodologia casistica, sezionando una parte arbitraria dell’enumerazione completa del mondo animale, il pasticcio racchiude in sé elementi di quattro bestie differenti (maiale, vacca, pollo e agnello), allo stesso modo di un’Arca costruita per solcare la rabbia di un Dio irrequieto. In quest’ultima evidenza sta anche la possibilità di avvicinare la rappresentazione del nostro pasticcio a quella metodologia irrequieta che anche il già citato Borges ha utilizzato nella sua lista non esaustiva degli animali cinesi dell’Emporio celeste di conoscimenti benevoli  (Borges, 2009).
Soprattutto, però, è necessario soffermare la nostra attenzione sulla chiusura della storiella, e in questo modo torniamo alle ipotesi che sopra abbiamo formulato. Artusi sostiene, parlando del tracotante mangiatore di pasticci: “Questi grandi mangiatori e i parassiti non sono a’ tempi nostri così comuni come nell’antichità, a mio credere, per due ragioni: l’una, che la costituzione dei corpi umani si è affievolita; l’altra, che certi piaceri morali, i quali sono un portato della civiltà, subentrarono ai piaceri dei sensi”.
Qui l’autore introduce una nuova opposizione dicotomica: piaceri morali contro piaceri dei sensi. E attribuisce, allo stesso tempo, un primato “moderno” e “civile” ai primi (piaceri morali), etichettando di conseguenza i secondi (piaceri dei sensi) come fonte di degenerazioni (il parassitismo) dell’umano. In sostanza, in un libro che parla essenzialmente di cibo (o che dal cibo parte per raccontare di un pezzo di mondo), si insinua l’idea che il piacere da questo ingenerato nell’uomo sia minore (o quantomeno più barbaro) rispetto a quello ingenerato dal pensiero, e dall’azione morale, e la dimostrazione di questa teoria sta anche nella costruzione del personaggio, protagonista della storiella, connotato tendenzialmente da attributi negativi: la tracotanza, come detto, la presunzione, la maleducazione, la negazione del limite nelle capacità dell’uomo.
Ma tornando al principio della storia del timballo, e alla collocazione temporale che la ospita, la questione si stravolge un’altra volta, e la costruzione negativa del personaggio si rovescia grazie al contesto: il Carnevale. Nell’incipit della storia sta allora la nostra soluzione, poiché grazie a questo dato possiamo rivoltare il primato nella dicotomia sopra proposta (piaceri morali vs piaceri dei sensi). Cos’è per noi, infatti, il Carnevale? È di certo più cose: il sovvertimento delle regole, l’epoca dell’opulenza, ma anche quella del sacrifico, del sangue.
In questo modo il nostro mangiatore di pasticci impertinente è un soggetto che si affianca in maniera più che adeguata all’oggetto totale (il pasticcio, appunto) che incontra nel racconto dell’Artusi. Perché il Carnevale è il luogo dell’opulenza e del sacrificio allo stesso tempo, è sovvertimento della verità, mascheramento e dunque nascondimento, dispositivo negativo in una piattaforma a-letheiologica.
Ricapitoliamo: nella storiella dell’Artusi che abbiamo citato c’è un oggetto totale, il pasticcio (luogo della nostra coincidentia oppositorum); c’è un protagonista, un personaggio bieco e parassita costruito attraverso parametri negativi per dimostrare la supremazia civile del piacere morale su quello dei sensi; c’è un contesto, il Carnevale, sovvertimento delle regole della verità, apertura temporanea dei chiavistelli infernali e celesti.
Inoltre, ricordiamo, con Feuerbach (strizzando brutalmente anche Cartesio) abbiamo già sostenuto il primato del corpo sul pensiero, e la necessità che il pensiero ha di subordinarsi proprio alla piattaforma corporea.
Allora che possiamo trarre da queste nostre brevi meso-conclusioni, nell’ermeneutica del testo che abbiamo riportato?
Francamente è difficile dirlo. E anche in questo caso le possibilità sono due, e si contraddicono a vicenda pur essendo conseguenza logica l’una dell’altra. La prima è questa: Artusi ha voluto riportare una storia per dimostrare come, in una sequenza di elementi che negano le opposizioni binarie e si danno all’eterogeneo come cifra dell’assoluto, la verità possa essere sovvertita quando la contestualizzazione scenografica della storia è carica di contraddizioni ed opposizioni come lo è il Carnevale. In questo modo il nostro protagonista mangione, da che poteva essere considerato come un incivile e bifolco abitante della scostumatezza e della tracotanza, diventa invece un testimone del primato del sensibile (e del corporeo) sul morale (il pensiero).
Ma allo stesso tempo (e siamo alla seconda possibilità) la furia con cui il nostro protagonista assume in sé la totalità dell’oggetto pasticcio, rappresenterebbe la tendenza dell’uomo a ricercare nella negazione delle differenze in quanto tali, e nel loro adeguamento in un contenitore singolo che rispetti l’eterogeneo, dunque rappresenterebbe ancora un rivolgimento alla dimensione extracorporea dell’assoluto, coniugabile solo sulla dimensione del pensiero attraverso i nomi maiuscoli di Uno, Essere o Dio (per restare su quelli che già abbiamo citato). In sostanza l’uomo del racconto, mangiando tutto l’oggetto in questione, fin quasi a scoppiare, assume in sé proprio l’eterogeneo come cifra dell’assoluto, riconciliandosi con il suo stesso assoluto, che presumibilmente possiamo chiamare Dio. Che poi quest’essere maiuscolo sia indigesto, riguarda un’altra storia.

 


 

LETTURE

× Artusi Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Edizioni BUR, Milano, 2010.

× Borges Jorge Luis, L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 2003.

× Borges Jorge Luis, Altre Inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 2009.

× Plotino, Enneadi, Bompiani, Milano, 2004.