Viaggio nel mondo del sacro:
gli amuleti dell’antica Roma

Mino Gabriele
I sette talismani dell’Impero
Adelphi, Milano 2021

pp. 483, € 44,00

Mino Gabriele
I sette talismani dell’Impero
Adelphi, Milano 2021

pp. 483, € 44,00


Il nuovo libro di Mino Gabriele, noto iconologo ed esperto di alchimia, si apre con la dedica a Giuliano Imperatore, l’ultimo monarca pagano: una scelta programmatica per un’opera che si propone di studiare in maniera dettagliata e calligrafica le tradizioni relative ai pignora imperii, cioè i manufatti sacri alla base del potere e della prosperità di Roma. Conservati in luoghi diversi della città, alcuni di essi la tradizione vuole giunti al seguito di Enea approdato sulle rive di Lavinio. Un vincolo simbolico che legava la latinità alle più arcaiche origini troiane.
Tutti questi oggetti (la pietra di Cibele, la quadriga di Veio, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona – figlia  suicida di Priamo –, il Palladio – una statuetta di Atena – e gli Ancilia, ovvero i dodici scudi dei sacerdoti Salii) in virtù del loro valore apotropaico sono anche conosciuti come talismani, una definizione seriore, che risente di un lessico tardo: la disciplina astrologica è anche nota come apotelesmatica, poiché gli astri sono ritenuti apotelestikoi, “che conducono ad un fine, produttivi”, quindi gli astrologi sono anche noti come apotelesmatologoi e i trattati di astrologia prendono spesso il nome di Apotelesmatika, “Sull’influsso degli astri”; la parola passerà nel mondo arabo (tilsam, tilism, tilasm) e servirà da base etimologica e teorica per il “talismano”.

Allontanare il male
Quindi il vocabolo talismano implica un’idea di influsso e di vincolo con un potere altro, astrale – per tale motivo diventerà centrale nelle pratiche astromagiche inclini a cogliere e soggiogare gli spiriti planetari. Più appropriato sarebbe l’uso della parola amuleto: se accettiamo l’etimologia dal latino amoliri “respingere”, nell’amuleto si deve riconoscere infatti un oggetto magico dalle funzioni unicamente apotropaiche, in grado di allontanare il male dalle persone che lo indossano o anche di proteggere animali o luoghi particolari, la casa, i campi, la stalla, etc.; il termine è anche equivalente di filatterio, dal tardo latino phylacterium (< greco phylassein “difendere, proteggere”). Tornando ai pignora imperii, Giove, secondo la leggenda di fondazione, fece cadere il primo vero Ancile dal cielo, inviato da Marte a re Numa come pegno dell’eterna invincibilità di Roma. Uno dei primi pignora per importanza.
Mino Gabriele descrive accuratamente la vicenda: nel terzo libro dei Fasti Ovidio racconta che sotto il regno di Numa una pioggia di fulmini si abbatté su Roma, segno dell’ira di Giove. La ninfa Egeria disse allora a Numa che il fulmine poteva essere espiato e la collera del dio placata. Gli suggerì dunque di cercare l’aiuto di Pico e Fauno, divinità autoctone, perché gli rivelassero il corretto rituale di espiazione. Seguendo i consigli di Egeria, il re catturò i due numi e li convinse ad aiutarlo a “trascinare Giove giù dal cielo”. Per convincere Giove a rivelargli i “riti di espiazione contro i fulmini” (certa piamina fulminis) Numa fece leva sulla propria impeccabilità cerimoniale. Giove credette alle parole del re e “assentì” (adnuit), diede il consenso divino e rivelò a Numa quale fosse il rituale di espiazione necessario. Scrive Gabriele:

“«Taglia una testa (caput)» disse. E il re gli rispose: «Lo farò. Dovrò tagliare una cipolla (cepa) strappata dal mio orto». Giove aggiunse: «Di uomo (hominis)». «Ne avrai i capelli» disse quello. Ma il dio richiede una vita (anima). «Di pesce» ribatté Numa. Giove rise e disse: «In questo modo, fa’ in modo di scongiurare le mie  saette, uomo non indegno di parlare con gli dèi (vir colloquio non abigende deum)”.

Divertito dalle sagaci repliche di Numa, Giove rise, il re era quindi degno di «conversare» con gli dèi. Ormai ben disposto, il dio non solo accettò la sostituzione del sacrificio umano con offerte inanimate, ma aggiunse anche la promessa di recare un pegno a sicura garanzia del suo potere (imperii pignora certa dabit). La considerazione e il valore protettivo del fuoco di Vesta, nel corso dei secoli, quanto più crescevano le pretese e le annessioni politiche e letterarie di Roma, fece sì che l’aedes Vestae divenisse deposito dei pignora o signa fatalia, custoditi nella parte più interna del sancta sanctorum, il penus; Servio ne enumera sette, più della metà dei quali erano stati forniti dall’Asia e dalla Grecia (cfr. Servio, 1986), ma Dionigi di Alicarnasso fa capire come fossero di più, cioè tanti quanti le insegne delle dodici città etrusche inviate a Roma al tempo di Tarquinio il superbo. Dalla sola tradizione troiana provenivano il Palladio cioè la statuetta lignea della dea Atena, il velo di Iliona, e lo scettro dello stesso Priamo. Anticamente esisteva senza dubbio una collezione meno ambiziosa, di cui però è stato ben custodito il segreto; stando a un’indiscrezione, la funzione della fecondità vi era crudamente rappresentata dall’immagine di un membro virile (cfr. Plinio, 1986).

È giusto di fatto distinguere le origini della tradizione romana dalla costruzione mitologica successiva; una riflessione da consigliare a chi dei miti antichi si è fatto paravento. Nella cultura romana la storicizzazione del mito inizia con la Repubblica in funzione anti-etrusca. Ma la fondazione di Roma da parte dei troiani risale al III secolo a.C., non prima. A quel periodo risale la leggenda del Pontifex Lucio Cecilio Metello che nel 241, a seguito di un’inondazione, si getta nel tempio di Vesta e salva i pignora imperii. I guai non capitano per caso. A seguito di una inondazione scoppiò un incendio che interessò anche il tempio di Vesta nella cui parte più riposta ‒ nel penus interior dell’aedes ‒ era conservato il più importante pignus imperii: il Palladio, che aveva il potere di garantire l’inespugnabilità della città. La cecità mitizzata di Cecilio venne causata non si sa se dall’incendio o dall’atto di tracotanza di cui si macchiò. Nel penus erano conservati quindi non solo i penates troiani come dice Ovidio, diversi comunque da quelli che avevano un tempietto proprio sulla Velia. Dionigi di Alicarnasso li chiama “dèi troiani”. Essi furono infatti assorbiti nella leggenda troiana: Enea li avrebbe portati dall’Asia, assicurando così la continuità e addirittura l’identità fra le due città. Alcune tappe intermedie, che erano fornite da altre tradizioni e che la nuova leggenda dovette rispettare ‒ Lavinio, Alba ‒, si frapponevano tra Eneo e Romolo.

Demitizzazione necessaria
Roma si senti dunque direttamente interessata dai Penati di quelle città, o per lo meno della prima, l’unica che sopravvivesse: i romani consideravano i Penati e la Vesta locali identici ai propri e ogni anno i consoli, al momento di entrare in carica, si recavano nella città vicina per sacrificare a quelle divinità. Ma è verisimile che i pignora imperii, i signa urbis, risalgano al circolo ellenizzante degli Scipioni (II sec. a.C.); a sua volta una riattualizzazione storica di un mito gentilizio delle origini, concernente l’identità segreta della divinità tutelare di Roma. È il caso di demitizzare la demitizzazione romana. Altri raccontano che i pignora imperii furono portati da Costantino dal penus dell’aedes Vestae di Roma a Costantinopoli. Non si spiegherebbe il rito magico-teurgico compiuto a Ostia contro Teodosio in nome dell’imperatore Eugenio, simpatizzante del Mos maiorum, prima della battaglia di Gorizia del 394 d.C.; in altre parole un seguace dei tempi passati, dell’etica degli antichi, autenticava una nuova fede rammemorando un mondo all’occaso.

Un discorso a parte andrebbe poi fatto riguardo ai dodici signa, che presiedono alla nascita della res publica romana, dalla cacciata dei Tarquini alla caduta di Roma: bisogna essere avvertiti della differenza che c’è tra storia e ierostoria, tra storico e simbolico. E sforzarsi di muovere da un piano all’altro mantenendo le distinzioni. Quando Riccardo Cuor di Leone sbarcò a Ostia nell’agosto del 1190 sembrò sovrapporre la ricerca del santo Graal a quella dei pignora imperii. Se ci fu trasmissione alle famiglie gentilizie romane questa avvenne con la mediazione dei Pontifices Maximi, unici eredi della Roma imperiale. Un bel caos tutti questi intrecci, che il bel libro di Gabriele tenta di dipanare: la storia non ha mai cessato di vomitare i suoi intrighi, e noi stiamo qui a subire, attoniti. Del resto la magione dei colti Romani fu, solo per breve tempo, il centro del mondo; una centralità, s’è detto, garantita dal Palladio, originariamente l’antichissima immagine di Atena conservata nella fortezza di Ilio e connessa con la salvezza della città.

Come avviene nel mondo contemporaneo dove tutto è finzione anche questo simulacro possedeva un suo doppio, una replica assolutamente perfetta tenuta esposta alla adorazione dei fedeli ed eventualmente alla brama dei ladri. Una distinzione che implica non solo il furto da parte degli eroi achei Diomede ed Odisseo, ma anche giustifica l’insuccesso finale attraverso un complesso gioco di immagini vere e sostituite. Secondo una tradizione, il Palladio rubato dai due eroi non doveva essere quello reale, che invece tornò alla ribalta nell’ultimo atto della tragedia di Troia, quando Aiace penetrato nel santuario di Atena inflisse il supremo oltraggio alla profetessa Cassandra avvinghiata alla statua stessa della dea. La riproducibilità dei Palladia, veri o presunti tali, li rende antesignani delle reliquiae cristiane, note per aver dato origine a stirpi di santi ibridi, con decine di occhi, mani, braccia e piedi. Nel mondo latino i Palladia erano rintracciabili a Siris in Lucania, dove i primi coloni vantavano origini troiane, a Lucera, a Lavinio; e infine a Roma, dove Enea avrebbe trasportato il Palladio da Troia insieme agli altri pignora e dove sarebbe rimasto invisibile, custodito prima nel tempio di Vesta e forse poi sul PalatinoPer quanto costanti i tentativi di ricollegare a Troia ogni Palladio noto, è probabile che ben presto il nome andasse applicato almeno a gran parte di quelle immagini sacre antichissime e a volte informi per le quali si presupponeva un’origine divina e un’intima connessione con le sorti prospere o contrarie della città. Lo stesso dicasi per il resto dei pignora imperii.

Letture
  • Alfonso X el Sabio, Astromagia. Ms. Reg. lat. 1283, a cura di Alfonso D’Agostino, Liguori, Napoli, 1992.
  • Marco Baistrocchi, Arcana urbis. Considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, ECIG, Genova, 1987.
  • Jacqueline Champeaux, La religione dei romani, Il Mulino, Bologna, 2002.
  • Renato Del Ponte, Favete linguis! Saggi sulle fondamenta del sacro in Roma antica, Arya, Genova, 2010.
  • Georges Dumézil, La religione romana arcaica. Miti, leggende e realtà. Con un’appendice su La religione degli Etruschi, a cura di Furio Jesi, BUR, Milano, 2007.
  • Ovidio, I fasti, BUR, Rizzoli, Milano, 1998.
  • Plinio, Storia naturale IV, Medicina e farmacologia: libri 28-32, Einaudi, Torino, 1986.
  • Servio, Aeneidos librorum 1-5 Commentarii, ed. G. Thilo, Olms reprint, Hildesheim-Zurigo-New York, 1986.