Alcune storie dalla fine
(o dall’inizio) del mondo

Ispirato dalla partecipazione all’incontro di arte e media LUMEN nella Patagonia cilena, questo testo racconta di come l’arte del Colectivo ÚltimaEsperanza e l’impegno di molti e molte nella regione cilena stiano forgiando una nuova coscienza plurale del territorio magellanico.
Foto: Pedro López.

Ispirato dalla partecipazione all’incontro di arte e media LUMEN nella Patagonia cilena, questo testo racconta di come l’arte del Colectivo ÚltimaEsperanza e l’impegno di molti e molte nella regione cilena stiano forgiando una nuova coscienza plurale del territorio magellanico.
Foto: Pedro López.


Un anno termina, un anno inizia, avvicinandoci sempre più allo scoccare del cinquecentesimo anniversario di un evento la cui portata storica, economica e geopolitica, e il cui impatto sull’immaginario furono talmente rivoluzionari da poter essere definiti fondativi del sistema-mondo di respiro planetario che ancora abitiamo. Nel 1520, infatti, alla ricerca del passaggio a ovest verso le spezie d’Oriente, navigando sotto bandiera spagnola, la spedizione del portoghese Ferdinando Magellano, flagellata da un ostinato clima e da diserzioni, attraversa uno stretto di mare giù al sud del mondo, nell’attuale Cile, sulla cui esistenza già da tempo si era speculato, e da lì passa da un oceano all’altro: è la circumnavigazione del globo. La notizia, di fatto, cambia il mondo; dalle terre emerse, al mare, agli astri, sopra e sotto e in lungo e in largo il mondo si fa Terra, circolare meraviglia e mistero, ora completa, rapidamente transitabile, globalmente sfruttabile. Dalla fine del mondo, il mondo ha inizio.
Europea è la mano che traccia il disegno, europeo l’occhio che guarda, pur nell’unica accezione di europeo possibile al tempo, cioè una congerie di punti di potere in continua trasformazione, tenuti insieme proprio dalle reciproche conflittualità oltremarine. Il sogno, propulsore dell’esplorazione (o talvolta l’incubo che ne è il rovescio ineludibile, come tradiscono i nomi dei luoghi della regione, dalla Bahía Inútil al Puerto Hambre), si proietta sulla natura, disseminandola di nomi propri che sono il riflesso delle aspirazioni del viaggiatore: “scoperta” diventa così il nome del ritrovamento di questo territorio, che come è noto già esisteva ed era già abitato da migliaia di anni da diverse popolazioni.
Magellano stesso incontra (e cattura con l’inganno), sul continente, alcuni aónikenk; dei selk’nam vede invece, da lontano, solo la traccia, nei fumi che salgono dai fuochi accesi per segnalare la presenza di estranei (cfr. Alonso Marchante, 2014).
La storia locale-globale (ben inteso: coloniale) della Patagonia cilena non si esaurisce però qui, con la “scoperta” dello Stretto di Magellano, con cui un nuovo paesaggio planetario viene inaugurato o forse, per meglio dire, reso ora percepibile e assimilabile alla coscienza.
Questo “passaggio-mondo […] costruttore di territorialità” (Onetto Pavez, 2018), pure nella (o proprio in virtù della) sua estrema collocazione geografica, parteciperà infatti in modo centrale, nei secoli a venire, all’espandersi e corrugarsi del paesaggio planetario (ben inteso: capitalista). Si intrecciano, nella storia della regione di Magellano e dell’Antartide cilena, la storia del Cile tutto e, proprio in prospettiva planetaria, anche quella del suo oltremare europeo.
Sotto spinte interne ed esterne – tra appropriazioni, rivendicazioni, annientamenti, sparizioni, epidemie, estancias, tecnologia industriale, miniere, adattamento, missioni, basi, speculazioni, sogni, investimenti, migrazioni, pinguini, rivolte, deliri, tassonomie, petrolio, guanachi che cedono il passo a pecore, vento, riti, acqua, ghiaccio, canoe, balene, carni in scatola, fotografie, alberghi, evoluzione, ghiacciai, taccuini di viaggio, monumenti, esotismi, e natura, natura, natura… – l’inquieta storia della regione risuona infatti della storia del mondo e i suoi limiti territoriali geo-politicamente definiti sono complicati da numerosi territori altri, di appartenenza ed esclusione, di illusione e delusione, al punto che è possibile spingersi fino ad affermare che “l’identità pubblica [della Patagonia] è quasi interamente una costruzione mitica” (Pecere, 2017).
È in un senso collegato strettamente a questo che il poeta cileno Christian Formoso, in un recente scritto, propone con l’idea della “metafora dello Stretto”: dove le più estese masse d’acqua del pianeta si incontrano, vi è una zona di contatto, popolata da storie diverse e violente contraddizioni.

“Lì vi sono i nostri paradossi estremi e le sorti mutevoli della nostra metafora magellanica […]. Viaggi contro vento e con il vento a favore, naufragi e insediamenti e cicatrici contradditorie che hanno forgiato […] il paesaggio umano multiculturale della regione di Magellano. E lì vi sono anche, tra le altre cose, con nome proprio e con maiuscole, il genocidio delle popolazioni native, la repressione anti-operaia, la cicatrice della dittatura e le sue spietate eredità […]. Questo stretto e le sue rive sono state in parte sogno, in parte transito e in parte meta. […] Non conosceremo mai quanto profonde siano queste acque e le loro metafore finché non lavoreremo per coniare una memoria più ampia, luminosa e plurale, per aprirci a una coscienza plurale delle nostre storie. No, non lo faremo, finché continueremo a portarci dietro lo stesso, vecchio senso tracciato dalle mappe e dagli echi della disillusione imperale e i modi dominanti di guardare, e di guardarci, qui nella regione di Magellano” (Formoso, 2017).

Il pregio più grande del breve ma folgorante testo di Formoso sta, oltre che nella prosa bellissima e affilata (che questa nostra traduzione riproduce, in questo estratto, con malcelato affanno), proprio nella sua insistenza sulla necessità di indagare il processo stesso della memoria: “come” ricordiamo e dunque come vorrem(m)o celebrare lo scoccare dei 500 anni? Se qui, infatti, in questa parte di emisfero nord da cui scriviamo queste righe (così lontana ma così implicata) l’avvicinarsi del cinquecentenario non pare suscitare grande interesse, dall’altra parte del globo il dispositivo della commemorazione è più che mai attivo: convegni, conferenze, eventi interdisciplinari e pubblici che abbracciano la prospettiva storica così come quella geopolitica, letteraria, artistica, delle scienze sociali, linguistica, della storia naturale, e oltre. Ma la commemorazione stessa, lontana dall’essere meramente un momento di riconoscimento pubblico di un fatto storico, è essa stessa processo di costruzione storica, il cui esito è aperto: tanto ad assecondare pericolose normalizzazioni che rischiano di ribadire la cronologia imperiale, quanto ad accogliere un più profondo gesto di forza critica che faccia esplodere quelle visioni. Da qui un’urgenza, bruciante, viva: “L’urgenza, sempre e non solo a 500 anni di niente, sarà interrogare le nostre mappe e letture e voci e paesaggi. E farlo dal lato più luminoso dei nostri paradossi violenti” (Formoso, 2017; corsivo nostro).

Indagare mappe, letture, voci e paesaggi dal lato luminoso di un paradosso violento è certamente un compito ben complesso: se ci poniamo nella condizione di guardare al territorio (a ogni territorio in generale, a quello della regione in particolare) come un concatenamento di elementi materiali e immateriali, l’urgenza ci spingerà a collocarci lungo gli interstizi sottili fra i territori fisici e le loro rappresentazioni, fra territorio e metafora, percezione e immaginazione, dato, corpo, egemonia e resilienza, anelo, illusione e memoria. Sarà così che, nella regione, finiremo per rinvenire mappe, letture, voci e paesaggi ovunque arrivi il mare.

A sinistra: Mappa dello Stretto di Magellano, 1635. Fonte: sito memoriachilena.
A destra: América invertida, Joaquín Torres García, 1943.

Sarà allora “paesaggio”, brumoso e spumoso, anche il corpo di una balena spiaggiatasi a febbraio dello scorso anno a Punta Delgada, allorché è ripreso durante una necropsia dal gruppo di lavoro del Museo de Historia Natural Río Seco di Punta Arenas nel video Musculus (di Cristóbal Marambio); sarà paesaggio che interroga ed è interrogato, se arte e scienza lavoreranno insieme per toccarlo, raccontarlo e rappresentarlo e farsi toccare, raccontare e rappresentare in quella carne, producendo così saperi esperienziali intorno alla relazione complessa e ineludibile fra territorio naturale, sviluppo culturale e identità comunitaria, oltre che sperimentando pratiche innovative intorno ai processi di musealizzazione e di trasformazione della cultura immateriale in patrimonio (cfr. Patricia Domínguez, 2018).
Saranno “mappa” anche “le immagini dei corpi [delle popolazioni native], fotografati al principio del secolo scorso [e che forse si continueranno a vendere anche] nei negozi di souvenir del secolo che verrà” (Formoso, 2017), alcuni dei quali ora adornano (ripresi in forma di silhouette, come da foto bianche, nere, rosse, a strisce o a pallini, la testa a punta, la cosmovisione di quella pittura del corpo sconosciuta al turista che passa) le insegne delle tante strutture ricettive lungo le stradine di Punta Arenas e Puerto Natales, in un sinistro ritorno, nel mondo ligneo dell’insegna turistica, di quella vita viva che prima si è posta sotto pressione, poi in estinzione, ora sotto silenzio; saranno “mappa” se tenteremo lo sforzo di indagarne il processo di visibilità differenziata, invisibilità e visibilità al contempo (in base a varie e mutevoli logiche di profitto e a mutevoli e coesistenti discorsi).
Saranno “voci” anche i canali della regione e “letture” saranno i ghiacciai, se li percorreremo con la forza di un’operazione artistica di tipo organico (legata cioè all’opera e al suo ambiente di produzione) come quella dei cileni Colectivo ÚltimaEsperanza; un’opera che, dal gelo, (si) riscalda col fuoco dell’urgenza che l’attraversa.

Interrogare il paesaggio: poetica organica
ÚltimaEsperanza nasce nel 2004 come collettivo di arte sperimentale che, attraverso tecnologie tanto analogiche quanto digitali, si propone programmaticamente di esplorare la relazione fra lo spazio geografico della regione di Magellano e dell’Antartide cilena e la memoria (collettiva e personale), la storia (ufficiale e/o posta sotto silenzio) e il concetto complesso di identità (nelle continue tensioni fra locale e globale).
Dal punto di vista più strettamente tecnico, tenendo conto anche delle evoluzioni interne occorse negli ultimi quindici anni nella pratica del Colectivo, entrano in gioco nel loro lavoro approcci diversificati e vari materiali, che includono l’immagine, la voce, il suono, la luce, il racconto, il laboratorio, la natura e diversi oggetti-elementi relazionati all’uso quotidiano o alla cultura di un dato luogo. In questo senso, il loro è un lavoro che rientra pienamente all’interno del grande ombrello delle cosiddette “artes mediales”, particolarmente vive in questo momento nell’intero Cile: qui si va sviluppando infatti una originalissima intersezione tra arti performative, arti visuali, arti sonore, tecnologia (in vaste accezioni del termine), e scienze (nei diversi rami) che complica di molto la nozione di media art di matrice anglo-americana, ponendosi in relazione tanto a quest’ultima quanto a saperi decoloniali e altre inflessioni “minori”, nel senso genealogico e critico del termine, che molto può raccontare delle transizioni più recenti del Paese, anche in termini di economia culturale (cfr. Montero Peña, 2015).
Incontrare il Colectivo ÚltimaEsperanza tra Punta Arenas e Puerto Natales, conoscere più a fondo la profondità dell’operazione artistica che i suoi fondatori conducono dal, sul e per il territorio della Patagonia cilena è un po’ come assistere al dispiegarsi materiale (fatto cioè piano piano e giorno dopo giorno sul piano dell’azione-teoria collettiva, come diremo più avanti) di questa riflessione critica così necessaria intorno allo Stretto che abbiamo provato a invocare più sopra, ovvero un’interrogazione di mappe, letture, suoni e paesaggi che sia coestensiva al territorio stesso.

Nataniel Álvarez e Sandra Ulloa . Fonte: sito espacioliquen.org.

Sandra Ulloa e Nataniel Álvarez, un collettivo che è un duo (e un duo che è un collettivo), mettono infatti al centro della propria pratica proprio la relazione d’appartenenza al territorio della regione, rappresentando così un esempio molto significativo della capacità dell’arte contemporanea di far balbettare la macchina trasparente del racconto storico concepito in Europa e normalizzato a livello mondiale, che è il cuore palpitante di una certa retorica celebrativa della “scoperta” e che rischia di impedirci di dedicarci al compito, urgente, di confrontarci con l’eredità difficile di questo evento storico rivoluzionario.
Nel lavoro estetico del Colectivo, lo sguardo rivolto al racconto egemonico non è pacificato, bensì molto inquieto.
Il nome stesso del Colectivo già rimanda in sé a una particolare posizione critica rispetto alla relazione fra il territorio di questa regione e il racconto storico della sua “scoperta”, dal momento che Última Esperanza è il toponimo alquanto drammatico attribuito dal navigatore Juan Ladrillero al fiordo da lui rinvenuto nel 1557. La scelta di questo nome non soltanto situa il lavoro del Colectivo in un preciso luogo di enunciazione, come a dire “È da qui che noi parliamo”, in un atto congiunturale. Più ancora che questo, la scelta di un toponimo tratto da una mappa rimanda immediatamente a due potenti tecnologie costitutivamente relazionate con la costruzione storica dello Stretto: l’esplorazione e la cartografia, attraversare e misurare.
In effetti, la pratica dell’esplorazione e quella della mappatura sono ben presenti nel lavoro del Colectivo ÚltimaEsperanza, che si dispiega nell’attraversamento dello spazio esteriore, l’intervento quasi simbiotico in esso e l’atto di riconfigurare e sovra-iscrivere il paesaggio patagonico con l’uso di micro e macro proiezioni. Tuttavia, la pratica del Colectivo si confronta criticamente con le tecnologie dell’esplorazione e della mappatura, appropriandosene e, così facendo, mettendone in questione gli assunti ideologici non in un’ottica puramente critico-diagnostica, ma di cura, cioè liberando da essi un potenziale altro a partire dal processo stesso della pratica estetica.

Micro-residenza Radicante, 2018. Crediti: Pedro López.

A partire dalle prime micro proiezioni dei propri volti in nidi d’uccello, per arrivare alla dimensione macro e della pluralità di volti proiettati che è ora quella maggiormente esplorata dai due artisti, nel lavoro del Colectivo si dà una interessante dinamica fra documento e immaginazione. Nell’opera Hidropoética, per esempio (un progetto dinamico iniziato nel 2011 e ancora in corso, articolato attraverso distinte azioni artistiche in diversi contesti naturali della regione di provenienza degli artisti), convergono suoni, voci e immagini frutto di registrazioni e documentazioni raccolte durante lavori sul campo realizzati previamente nella vasta regione con l’obiettivo specifico di indagare la relazione fra chi abita questi spazi e lo spazio stesso, ponendo esattamente la domanda sul cosa significhi ‘il (/quel) luogo’.
Il processo di produzione dell’opera passa quindi per l’ascolto di storie, che richiede la creazione delle condizioni per l’ascolto, cioè per un incontro carico di vicinanza che scopre e coinvolge anche gli artisti stessi e che per questo è un documento caldo e palpitante. Queste testimonianze registrate raccontano diversi modi di appartenere al luogo. I luoghi scelti sono luoghi carichi: carico può essere lo spazio domestico; carico è lo spazio della natura più monumentale, la foresta a Cabo Holland (durante l’esperienza di micro-residenza e navigazione Radicante, di marzo 2018) o Campos de Hielo Sur per esempio, un falso vuoto abitato dai ghiacciai (oggetti vivi, con scale e temporalità altre da quella umana, che pongono questioni molto rilevanti per il presente, esplorate attualmente in tanti campi del sapere, incluso quello filosofico-ecologico; cfr. Pamela Domínguez, 2018); carica la frontiera bianca dell’Antartide, contesa e continuamente ridefinita.

Nell’opera stessa, nel mapping che ne costituisce l’elemento-chiave e nel dispositivo del concerto-performance, finalmente disintegrate in frammenti queste microstorie soggettive del territorio escono dall’archivio della raccolta-documentazione, per ritornare dunque al territorio, sotto forma ora di proiezioni monumentali a integrarsi così con gli elementi del paesaggio naturale, che funzionano in questo modo quasi come schermi vivi, cioè superfici che interagiscono con la proiezione in un’esperienza al contempo molto fisica e marcatamente contemplativa.
Nel tessere i racconti uno dentro l’altro, uno con l’altro, viene fuori che appartenere è una fluttuazione dinamica che, nonostante sia ancorata a uno spazio fisico, è altamente mutevole. Volti (di chi racconta) appaiono nel paesaggio naturale. Tutto un paesaggio umano appare nei volti, una raccolta di tratti che, loro malgrado, raccontano altre storie ancora, che la Storia grande non riesce, non può o non vuole raccogliere. Il paesaggio interiore (il viso, il racconto, la memoria, la microstoria) si rovescia all’esterno (la registrazione, la luce, le texture) e il paesaggio esteriore, a sua volta, diventa strano e allo stesso tempo intimo.
Una certa audacia, una qualche forma di insolenza anima il gesto artistico; c’è molta insolenza nel misurare il tempo di un volto sul tempo di una montagna di ghiaccio. Un’insolenza che somiglia in tutto all’insolenza stessa del vivere questa piccola profondissima vita, radicati nella propria condizione e sempre in movimento. L’estremo è, in definitiva, l’estremamente prossimo.

Hidropoética (Glaciar Grey), 2013. Crediti: Colectivo Última Esperanza.

L’importanza politica di questo lavoro in relazione più precisamente alla riflessione sul cinquecentenario è da sottolineare. Nel lungo e multiforme progetto Hidropoética, la tecnologia della cartografia che da cinque secoli accompagna la trasformazione dello spazio incognito dello Stretto in territorio tracciato non viene annullata, bensì risulta implementata attraverso le possibilità fornite dai nuovi media. Tuttavia, la sua funzione ideologica originaria, basata sulla complessa dinamica speculativa tra sconosciuto e conosciuto, risulta totalmente trasformata. In quest’opera addentrarsi nel paesaggio non significa pretendere di saturare lo spazio dell’immaginazione, bensì ampliarlo. E questo non perché le arti mediali in sé siano più progressive o aperte delle tecnologie del passato, ma piuttosto per via di una specifica scelta degli artisti, una posizione che questi assumono.
Scelgono, infatti, di fare arte a partire dall’urgenza, usando gli strumenti oggi a loro disposizione per seminare dubbi sulla presunta oggettività iscritta nel paesaggio e riportare l’attenzione sulle pratiche di demarcazione territoriale come, in definitiva, pratiche di immaginazione, i cui effetti sono tuttavia molto reali e creano territori sociali, politici, affettivi che eccedono i limiti arbitrari del territorio fisico, o li attraversano. Addentrarsi nello spazio significa pertanto incontrare silenzi e segreti e dunque lavorare a partire dal potere che il segreto stesso ha di mettere in questione il dispositivo egemonico della territorializzazione, conservando racconti non autorizzati, come vedremo ben presto relativamente al lavoro di Ulloa.
Si tratta di un tema particolarmente rilevante per il presente della regione, dal momento che, trasversalmente alle epoche e ben al di là dell’evento storico che ebbe luogo quasi 500 anni fa, la forma in cui immaginiamo il territorio continua a essere vincolata alla dimensione sociopolitica, dentro una lunga e dinamica oscillazione tra appropriazioni del territorio e riappropriazioni.
Qui, l’ombra lunga dei “paradossi violenti” evocati da Formoso, iscritti nella logica della “scoperta”, continua a risuonare nei contrasti attuali legati alla privatizzazione delle risorse e all’espropriazione e svendita delle terre (come accade nelle aree di Bio Bío e La Araucanía, teatro della lotta dei Mapuche e di episodi di tragica repressione), alla crisi ambientale, al dibattito sull’Antartide. Scegliendo una poetica dell’acqua (fiumi, gelo) e luoghi specifici (lo Stretto, Antartide), il Colectivo ÚltimaEsperanza riesce a portare l’attenzione (intesa anche materialmente come creazione di una condizione di spazio-tempo dell’ascolto attivo) su questi temi, che abbracciano dimensione locale e prospettiva globale.


Micro-residenza Radicante, 2018. Crediti: Pedro López.

Ciò è ancora più evidente nel lavoro portato avanti a latere del Colectivo da Sandra Ulloa e recentemente presentato in due diverse istanze nella cornice della sesta edizione di LUMEN, incontro d’arte e nuovi media che dal 2013 ha luogo annualmente nella regione di Magellano e dell’Antartide cilena.
La prima delle due istanze è Coexistencias, un progetto di Ulloa e Claudia González Godoy (artista cilena la cui pratica è radicata nel “fare” materiale, in una inflessione molto disobbediente, specifica, locale del dispositivo dei medialabs e per questo sinceramente politica), inaugurato nel 2017 e articolato attraverso concerti audio-visivi in cui coesistono proiezioni, suono e macchine auto-costruite, e che si propongono come momenti in cui possano convergere, produttivamente, le ricerche di due artiste entrambe interessate da tempo a un elemento del territorio fondamentale per la vita e al centro di numerose tensioni di tipo geopolitico in Cile e non solo, ovvero l’acqua.
La seconda delle due istanze è l’installazione di Sandra Ulloa Poéticas de navegación II, parte della mostra Tu voz es mi enunciado, curata per lo spazio espositivo del Centro Cultural di Punta Arenas da Alessandra Burotto, coordinatrice del progetto di arte e nuove tecnologie Anilla Cultural MAC del Museo de Arte Contemporáneo di Santiago del Cile. La mostra riunisce lavori di tre artisti, incentrati fortemente sull’elemento sonoro: oltre a Ulloa, espongono Rainer Krause, con Lengua local 2:txt/contxt, e Andreas Bodenhofer, con Al final del mundo_los Selk’nam. Ad accomunare le tre opere è la voce, ovvero la memoria orale, di una donna; donne che hanno conservato, in forme differenti, il linguaggio (la lingua o un tipo di linguaggio non esclusivamente linguistico) di un diverso popolo nativo del territorio magellanico.
L’opera di Ulloa, in particolare, è un’installazione che lavora sul visuale, il sonoro e il tattile: al centro dell’opera, un tessuto su cui l’arista, con filo conduttivo e filo di seta, ha ricamato i contorni dello Stretto, tracciando, nel tessere, la sua navigazione, i canali, e le rotte kaweskar, uno dei popoli originari dello Stretto, duramente reso invisibile.
Osservando il ricamo, si riesce a immaginare il tempo attento, il tempo intenso richiesto dalla sua realizzazione e si riesce a immaginare che il ricamare abbia funzionato come una tecnologia di memoria e di scrittura della memoria che passa per l’occhio e la mano: per tracciare i profili tra acqua a terra, la memoria li avrà ripercorsi e dunque interrogati. Tessere è una tecnologia; spesso delle donne.
Il filo conduttivo che compone il ricamo, al tocco, attiva a sua volta un racconto orale femminile: da piccole casse che affiancano la tela, la voce di Carolina Quíntul, tessitrice di Punta Arenas, racconta (in conversazioni avute con Ulloa) di quando ha recentemente scoperto, già in età matura, di avere origini kaweskar, dischiudendo un segreto familiare, che risuona, al contempo, di un grande rimosso, storico e politico, di questa regione.

Proiettare il territorio: azioni collettive
Qui si intende raccontare un avvicinamento a uno spazio che la logica della “scoperta”, proiettata a partire da queste latitudini e longitudini, fa sentire sempre come estremamente lontano. Un avvicinamento occasionato dalla partecipazione diretta a LUMEN (22-30 novembre 2018; Puerto Natales, Porvenir, Punta Arenas), incontro articolato in laboratori, eventi pubblici, concerti che ci ha portato dapprima a incontrare gli scritti di Formoso e poi a ritrovare l’arte del Colectivo ÚltimaEsperanza, insieme al lavoro di numerose altre e numerosi altri che lavorano con l’arte contemporanea e i nuovi media, dedicandosi all’esplorazione del territorio, proiettando insieme, nell’incontro, “geografie immaginarie per un futuro” della regione magellanica (cfr. Montero, 2018).
L’Encuentro LUMEN è un ulteriore frutto dell’impegno di Ulloa e Álvarez che, come direttori della Red de Intermediación LiquenLab (con sede a Punta Arenas), e insieme a quanti e quante lavorano con impressionante dedizione ai progetti generati e prodotti dalla rete stessa, ha proprio l’obiettivo di corroborare azione collettiva nel territorio della Patagonia cilena. A LUMEN, di anno in anno, artisti e curatori nazionali e internazionali sono invitati a vivere l’esperienza di avvicinamento al territorio della regione, ciascuno a partire da ciò che è, dalla propria pratica e posizione e tecnologia (anche senza l’immediata pressione a produrre un’opera, posizione curatoriale che pare politicamente assai interessante).

Termini come “rete”, “nomadismo”, “rizoma”, “relazione”, che circolano ormai da tempo e paiono sempre più convertirsi in etichette prive di senso, in questa occasione si riaprono e si colmano di significato, di fronte al grande sforzo collettivo di decentralizzare il processo di produzione di sapere intorno allo Stretto e alla regione, percepiti come marginali eppure, come abbiamo suggerito, tanto centrali.
Va così prendendo sempre più corpo, sullo Stretto, avvicinandoci alla commemorazione del cinquecentenario, un organismo vivo, differenziato e multiforme (che include e si estende oltre LinqueLab) capace di proiettare uno sguardo trasversale sul territorio della regione stessa, situato e che proietta al contempo questo spazio ben oltre i confini di una “marginalità”.
Nella proiezione collettiva, da questo territorio, a partire dalle sue specificità e dalla prassi qui sperimentata, si vanno forgiando metodologie che potrebbero rivelarsi molto importanti per altri micro-territori che, pur nella differenza, condividono l’urgenza di mettere in questione le proprie mappe, voci letture e paesaggi, come per esempio anche i nostri territori “marginali”, le aree rurali del sud del nostro Paese, analogamente interessate da processi complessi riconducibili alla tensione continua fra globale e locale.

Nell’opera Multiverso, visitabile dal 7 al 11 gennaio 2019 presso il RIOT Studio di Napoli, il Colectivo ÚltimaEsperanza ne dà una prova, in una installazione audio-visuale che è il racconto poetico di come, nell’estate (boreale) del 2017, in occasione della residenza artistica del progetto Liminaria, volto a indagare attraverso il suono i territori rurali del sud Italia. Ulloa e Álvarez abbiano trasportato la loro metodologia operativa di riflessione collettiva sul territorio a Montefalcone di Valfortore (in provincia di Benevento), piccolo comune del Fortore, micro-regione della Campania caratterizzata tanto dalla propria posizione isolata e al contempo di confine fra tre regioni, quanto per la ventosità e la presenza di parchi eolici.
Nell’incontro fra luoghi e metodologie della Patagonia cilena e del sud italiano, la certezza fisica della distanza inizia a cedere e lo spazio lontanissimo delle mappe si popola di micro-intensità, grandi vicinanze, ostinate relazioni di prossimità umana.

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