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di Gennaro Fucile

“Ora, dovete sapere che, quand’ero un ragazzino, avevo una grande passione per le carte geografiche. Passavo ore a guardare l’America del sud, o l’Africa, o l’Australia, e mi perdevo in tutti gli splendori dell’esplorazione. All’epoca gli spazi non segnati erano molti e quando ne vedevo uno che mi pareva particolarmente invitante (ma lo sembrano tutti) ci puntavo su il dito e dicevo: «Quando sarò grande, voglio andare là». Mi ricordo che il Polo Nord era uno di quei posti. Be’, lì non ci sono ancora stato, e ormai non lo farò. E… ma non parleremo di questo ora. Ce n’era uno in particolare – il più grande e, per così dire, il più vuoto – che mi attirava più degli altri”
(Conrad, 2005).

Ai tempi di Cuore di tenebra (1899) le terre sconosciute, non ancora esplorate, non di/segnate sulle carte geografiche, venivano indicate come “zone bianche” perché in quei punti delle mappe non v’era alcun disegno. Lo stesso Joseph Conrad adoperava la medesima dicitura, che tuttora si addice all’Antartide, sì nota ai moderni, ma ancora inesplorata, scrigno ricolmo di misteri, di segreti, di leggende e deliri. Un continente, terra estesa, tuttora incognita in buona parte, presidiata da un pugno di basi scientifiche e da stormi di uccelli, i pinguini, che nuotano, camminano, talvolta ruzzolano, ma non volano. Sempre in transito, forse perché è nella loro natura di “grandi incompiuti […] impeccabili e impacciati” (Del Giudice, 2009).

Una grande zona bianca anche perché tale appare ai nostri occhi: una distesa accecante per il biancore assoluto, almeno quando il sole l’illumina, perché per sei mesi all’anno l’Antartide è il regno del buio totale. 

Nella grande zona bianca si procede a rilento nelle esplorazioni, non è facile proseguire, il buio perenne avvolge tutto per metà dell’anno, il gelo sempre. Da quelle parti tutto scivola come lastre di ghiaccio sul mare, il genere e il significato, lì gli opposti si alternano in un eterno girotondo, le immagini, le visioni, le fantasie di ieri e quelle di oggi persistono come miraggi, sogni e terrori. 

Tutto è sconfinamento nel continente antartico, a iniziare dal nome. Tutto è ipotesi intorno all’Antartide, a iniziare dalla sua esistenza, non più che presunta per quasi duemila anni. A immaginare una terra posta agli antipodi rispetto alle terre fredde del Nord fu Aristotele che l’indicò come Antarktikos, a ribattezzarla Terra Incognita (dunque, quella per antonomasia) fu Tolomeo, poi le cose cambiarono, venne confusa con il Brasile, con la Nuova Zelanda e modificò ancora il suo nome in Terra Australis Incognita, poi in Trinity Land, mentre i suoi confini si dilatavano fino alla Terra del Fuoco e alla Nuova Guinea. Intorno al 1820 le prime grandi esplorazioni che ne iniziano a mettere a fuoco confini e dimensioni. Nasce l’Antartide, ma non muore la terra incognita perché questo continente è ancora in gran parte inesplorato e continua a tener desta la fantasia. 

Ne colse subito il carattere magnetico, l’orrore di tutto ciò che ci dirotta verso il buio della notte dei tempi, il fascino dello sconosciuto, Edgar Allan Poe, che in quei primi anni di vera esplorazione geografica, spedì il giovane Arthur Gordon Pym in direzione Polo Sud, destinandolo a un incontro che tuttora terrorizza:

“Ma noi già precipitavamo nell’amplesso della cataratta, dove si spalancò un abisso pronto a riceverci. Ed ecco sorger sulla nostra rotta un’ammantata figura umana, di proporzioni ben più vaste di qualunque abitante della terra. E la pelle di questa figura aveva il colore delle nevi immacolate”
(Poe, 1974).

Quel primo secolo di esplorazioni su mare e su carta si concluse proprio con un possibile seguito del romanzo di Poe e a tentare l’impresa non poteva che essere colui che si era già inoltrato in terræ incognitæ di ogni genere, dagli abissi marini al centro della Terra e fin su alla Luna: Jules Verne. Il papà francese della fantascienza scrisse La sfinge dei ghiacci nel 1897, concependolo come un completamento/seguito della vicenda narrata da Poe, che riteneva come opera incompiuta, cercando di dare nerbo scientifico all’avvistamento finale della terrificante creatura. In breve, tale capitano Len Guy, undici anni dopo la scomparsa di William, comandante della goletta Jane su cui si era imbarcato Gordon Pym, parte per ritrovarlo. La premessa è che quella di Poe non sia finzione ma una cronaca vera. In questo ennesimo viaggio straordinario, Verne tentò di uscire dall’indeterminato pur di rendere cognito ciò che Poe aveva volutamente lasciato nell’indeterminato, ma la sua impresa fallisce laddove è lo scrittore a prevalere, lasciandoci visioni di un mondo alieno di grande forza, nonostante le “spiegazioni” che attraversano il romanzo, tra i più farciti di dati e termini scientifici della sua produzione, un autentico compendio del sapere ottocentesco:

“Fu allora che, a un quarto di miglio, si profilò una massa che dominava la pianura di una cinquantina di tese, su una circonferenza di due o trecento. Quella massa, per la sua forma strana, somigliava a un’enorme sfinge, con il torso eretto, le zampe stese in avanti, accoccolata nell’attitudine del mostro alato che la mitologia greca ha posto sulla via di Tebe.
Era un animale vivo, un mostro gigantesco, un mastodonte di dimensioni mille volte superiori a quelle enormi degli elefanti delle regioni polari, i cui resti si ritrovano ancora?… Nella disposizione di spirito in cui eravamo lo avremmo potuto credere, e credere anche, che il mastodonte stesse per precipitarsi sulla nostra imbarcazione e stritolarla sotto i suoi artigli.
Dopo un primo moto di paura illogica e irragionevole, riconoscemmo che là vi era soltanto una roccia di conformazione singolare, la cui sommità stava liberandosi dalle nebbie”
(Verne, 1977).

La rassicurante spiegazione scientifica non termina qui, ma non scaccia i brividi che la visione del presunto mostro ha scatenato. L’Antartide è un orizzonte mobile, come Daniele Del Giudice ha intitolato il suo romanzo a quattro voci, frutto di un suo autentico viaggio in quelle terre e di uno successivo del tutto immaginario effettuato nel 2007; entrambi si mescolano con taccuini di esplorazioni reali rivisitati da Del Giudice: quello dell’italiano Giacomo Bove con la spedizione italo-argentina del 1882 a bordo della nave Capo de Hornos prima e poi con la goletta San José, e quello del belga Adrien Gerlache de Gomery sulla nave Belgica nella spedizione promossa dalla Reale società geografica di Bruxelles compiuta tra il 1897 e il 1899. Siamo al tempo del romanzo verniano e al tempo stesso ai nostri giorni, ma il sentimento è invariato, medesime le allucinazioni, le distorsioni. Scrive De Gerlache/Del Giudice:

“Ricordo che un giorno credetti di scorgere a un centinaio di metri dalla nave una cassa grandissima, Mi torturai il cervello non sapendomi dare ragione del perché quella cassa fosse stata trascinata fino a lì, se non altro per il legname che in quel momento e in quel luogo era un elemento prezioso, da non doversi sciupare così. Mosso da profonda curiosità mi diressi verso l’oggetto e le mie racchette da neve lo urtarono subito: la supposta cassa si rivelò un foglio di giornale volato via chissà quando dalla nave”
(Del Giudice, 2009).

Annota quasi un secolo dopo Del Giudice:

“A latitudini diverse accade agli esploratori di scorgervi, riflessi nei miraggi, le navi e i compagni lasciati lontano, e i miraggi erano reali, solo le dimensioni ingannavano, sembrava tutto più grande e più vicino”
(ibidem).

L’Antartide è una terra dove il nostro immaginario trova ancora albergo, tuttora; dove le esplorazioni immaginarie qui più che altrove sconfinano nello studio scientifico e nella conoscenza geografica.

Basti pensare al ritorno di fiamma delle ipotesi discendenti da esomisterismi vari collegate alla teoria della terra cava avvenuto in seguito alla scoperta nel 1976 del grande lago di Vostok nei pressi della omonima base russa nell’Antartide orientale. Si tratta di un bacino di acqua temperata, sepolto da venti milioni di anni, lungo duecentocinquanta chilometri, largo cinquanta e profondo mille metri. Soprattutto la fantasia si è accesa in seguito all’incontro ravvicinato realizzato dopo anni di scavi che hanno condotto gli scienziati russi nel febbraio 2012 a raggiungere il fondale del lago con una punta da tredici centimetri di diametro.

 

Lena Delta Wildlife Reserve che si trova nel delta del fiume Lena, nell'estremo nord est della Siberia, Russia.
www.wikipedia.org

 

Il Vostok non è l’unico lago subglaciale, se ne conoscono circa quattrocento, è solo il più grande e assicura sulla carta di essere un vero e proprio Jurassic Park aquatico, quantomeno con microbi e batteri a spasso lì sotto in un’acqua purissima che grossomodo dovrebbe avere circa venti milioni di anni. Che forme di vita ospita il lago Vostok? Alieni, viaggiatori temporali, basi Ufo, i sopravvissuti di Atlantide, fedelissimi della croce uncinata e non solo: potrebbero esserci forme di vita complesse? Ecco la terra incognita che ci riporta indietro a quando non eravamo moderni, spuntano misteriose ipotetiche strutture metalliche che potrebbero essere parcheggiate sul fondale, spariscono nel nulla due donne australiane imbarcatesi in un’avventura di turismo estremo: attraversare il continente antartico sugli sci (!), prelevate di punto in bianco da un plotone di soldati statunitensi e poste in isolamento. Voci, leggende extra metropolitane che solo a temperature che vanno a toccare anche i -80° possono fiorire. Il web è ricolmo di racconti del genere, che non possono però essere liquidati come semplici fandonie. Sono il residuo farneticante di un’esplorazione che è ancora ben lontana dall’essersi conclusa, un’avventura in una terra ignota con la sua coda di racconti favolosi, iperbolici, un foro nel maturo disincanto che pervade la condizione postmoderna. Un buco che ci conduce al motivo più gettonato tra quelli che hanno per tema l’Antartide, tornata a vita nova: la teoria della Terra Cava, teorizzata a fine Seicento da Edmond Halley, lo scopritore della cometa che porta il suo nome. La permanenza del mito ai tempi nostri non è solo merito del lago Vostok e dell’Antartide, ha radici più profonde, “come tutti i miti anche questo ha le sue radici nelle immagini archetipiche di nascita, vita, lotta, realizzazione e morte condivise da tutti gli esseri umani” (Kafton-Minkel, 2012). La scoperta di gallerie di epoca neolitica che si inoltrano nel sottosuolo austriaco, in quello tedesco, spagnolo, ungherese, presenti un po’ in tutta Europa, ma soprattutto la città sotterranea di Derinkuiu in Cappadocia nella Turchia orientale, hanno dato man forte alla ripresa delle leggende legate a città, civiltà e continenti perduti. 

Lo stesso studio monumentale che Walter Kafton-Minkel ha dedicato sul finire degli anni Ottanta ai mondi sotterranei e al mito che li sorregge della Terra Cava, è più che un indizio del buon stato di salute di questo retroimmaginario, così lo si potrebbe definire, che della post modernità fa sua anche la particolare miscela di generi narrativi e non solo che sembra caratterizzare il racconto contemporaneo: 

“In quella che Henry Jenkins ha definito «cultura convergente» nel suo omonimo libro nel 2006, Convergence Culture, ovvero una cultura fondamentalmente partecipativa dove vecchi e nuovi media collidono, la narrazione romanzesca si è spinta ancora oltre: le storie emigrano e si sviluppano attraverso più piattaforme mediatiche e diventano partecipate e collettive grazie all’interazione con l’audience. La storia non parte necessariamente da un libro per svilupparsi oltre, ma trova una delle sue espressioni nel libro, parte di una narrazione molto più vasta. A questo fenomeno Jenkins dà il nome di transmedia storytelling
(Book, Patti, 2015, cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero55).

La teoria della Terra Cava dunque persiste e resiste in un fascio di narrazioni spurie, topos pop dell’ignoto che ha il suo sinistro indiscusso signore delle tenebre: Adolf Hitler. Occultismo e teorie del complotto erano di casa nell’immaginario nazista. I Protocolli dei Savi di Sion erano stati un bestseller nei primi decenni del Novecento, e Hitler li aveva citati a più riprese nel Mein Kampf come prova del complotto sionista per la conquista del mondo. Ma non c’erano solo gli ebrei. Nel 1935 Heinrich Himmler, già a capo della Società Thule, dedita a studi sull’occultismo, fondava la Ahnenerbe, un gruppo di studio sulla spiritualità dei tempi antichi che avrebbe guidato spedizioni in diverse parti del mondo, tra cui una sull’Himalaya alla ricerca del varco d’accesso per Agarttha (o a seconda delle fonti, Agartha, Agarthi, Agardhi o Asgartha), il regno celato nelle viscere della Terra sorretto da una potente dinastia che da millenni sarebbe al lavoro per conquistare il mondo (Buonanno, 2009). Un orientamento dell’intellighenzia ariana che troverà un’avventurosa citazione nelle gesta di Indiana Jones decenni più tardi e che funse da trampolino di lancio per l’idea che il Führer fosse ancora vivo e sul punto di mettere in pratica un progetto segretissimo ma già in fase avanzata di sviluppo nel 1945. Scopo finale: la distruzione del mondo e la sua ricostruzione a opera di un’ élite di pura razza ariana, il cosiddetto Zerplan. Non deve sorprendere che in molti potessero credere che Hitler avesse preparato da tempo un piano B in caso di fallimento del suo primo tentativo di conquista dell’Europa; un’ipotesi alimentata anche dalle voci secondo cui Stalin era convinto che Hitler non fosse affatto morto, ma fuggito in Spagna o in Argentina, come si leggeva nelle memorie dell’ex segretario di stato americano Jimmy Brynes. Non era forse vero che di Hitler non era stato ritrovato il corpo, ufficialmente perché cremato in fretta e furia nel cortile esterno del bunker dopo il suo suicidio? E poiché era già noto all’epoca che alcuni gerarchi nazisti, come Eichmann e il medico di Auschwitz, Joseph Mengele, erano riusciti a riparare in Sud America, perché non credere che lì da qualche parte si trovasse una possibile base nazista, una “Seconda Fondazione”, come quella della saga di Isaac Asimov scritta non a caso durante gli anni della Seconda guerra mondiale, e ugualmente occulta e misteriosa? Dove si trovava la base del possibile Quarto Reich? In Antartide.

 

theamethyst.org/2014/10/23/delta-skelta/

 

A scoprire le carte fu un fantomatico “rapporto Turkey”. Il libro intitolato La distruzione del mondo? Hitler prepara…, intestato a tale Darius Caasy, lo pubblicò una fantomatica Edizioni Rores di Roma nel 1948 (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/ncore09).
Derive del conflitto appena conclusosi? Niente affatto. Quando agli inizi del 2012, gli scienziati russi riuscirono finalmente a raggiungere le acque del Lago Vostok, su alcuni giornali e in special modo sul web rimbalzò la notizia che i russi avessero trovato la base di Hitler. I complottisti ricordarono che tra il 1946 e l’anno successivo, la U.S. Navy impiegò 13 navi di guerra e migliaia di uomini in una esercitazione in Antartide nota come “High Jump”: un apparente spreco di forze all’indomani della fine della guerra e alla vigilia della Guerra fredda. Fu allora una spedizione per rintracciare la città clandestina e distruggerla? Secondo le teorie più fantasiose, in quella base i nazisti avrebbero sviluppato dei velivoli a forma di disco volante. Sarebbero stati questi gli Ufo avvistati per la prima volta proprio nel 1947 negli Stati Uniti: un’avanguardia di una futura invasione. E forse addirittura alcuni di questi Ufo avrebbero portato i nazisti su una presunta base segreta sulla Luna. 

Qualcosa di sicuro è sepolto sotto la gelida superficie dell’Antartide: strati dell’immaginario, che sotto la pressione dei ghiacci talvolta si fondono diventando un solo incubo o un solo sogno. In genere gli incontri ravvicinati del terzo tipo contemplano al tempo stesso l’uno e l’altro. Lo prova senza farsi scrupolo nel terrorizzarci La cosa, il remake girato da John Carpenter nel 1982 del film La cosa da un altro mondo (1951) a sua volta tratto da un racconto omonimo di John Wood Campbell Jr., il numero uno dell’editoria fantascientifica, quella dell’epoca d’oro del genere, il direttore di Astounding. Nella prima versione una gigantesca astronave aliena viene dissotterrata dai ghiacci del Polo artico; circa trent’anni dopo, forse per via della cavità della Terra, il successivo ritrovamento di Carpenter avviene in Antartide, l’unico luogo del pianeta dove può conservarsi immacolato per un tempo infinito il segreto di un atterraggio di fortuna da parte di un veivolo extraterrestre. 

Visitatori provenienti dallo spazio, esseri preesistenti all’umano, creature sepolte negli abissi del tempo, un’intero pantheon alieno ha trovato casa in Antartide. In una delle sue ultime opere, Le montagne della follia, Howard Phillips Lovecraft sceglie quelle lande per far salire in superficie le testimonianze dell’altrove, dei Grandi Antichi che popolano la sua personale mitologia. Niente ha un’apparenza normale. Ne è conscio il narratore, William Dyer, geologo presso l’università Miskatonic in Massachusetts, che si sente subito in dovere di precisare che:

“Dubitare dei fatti che rivelerò sarà inevitabile, ma se eliminassi dal mio resoconto ciò che può sembrare incredibile o stravagante, non rimarrebbe nulla”
(Lovecraft, 2015).

Il vero testimone è però oramai incapace di farsi comprendere. È il giovane studente Danforth che lo ha accompagnato nella spedizione in Antartide e la cui mente resterà malandata per sempre dopo la scoperta della razza sconosciuta di cui i protagonisti verranno a conoscenza. La storia uscì solo cinque anni dopo la sua stesura nel 1931, proprio su quella Astounding diretta da Campbell. Appena due anni dopo lui scrisse la sua cosa da un altro mondo. Entrambe le vicende da due angolature differenti riconducevano al continente antartico laddove si era schiantato Gordon Pym: nei paraggi dell’inconoscibile. Tra il romanzo di Verne e quello di Lovecraft ci sono di mezzo le esplorazioni scientifiche, la conquista del Polo Sud, le tragedie e gli eroismi che hanno strappato al mistero qualche lembo di terra bianca. Gente ossessionata dalla cosa bianca, decisa a braccarla e farla propria come il capitano Achab con Moby Dick. Si alternavano negli equipaggi delle varie spedizioni e stendevano resoconti ai confini della letteratura, del diario di bordo, dell’annotazione scientifica, geografica e della finzione.

Sulla Belgica viaggiava Roald Amundsen, di vocazione esploratore. Anni dopo tornò all’assalto del Polo Sud giungendovi per primo il 14 dicembre 1911. Altri eroi di quell’epopea furono l'irlandese Ernest Shackleton, l’australiano Douglas Mawson, il gallese naturalizzato australiano Edgeworth David, lo scozzese Henry Robertson Bowers, i britannici Edward Wilson e Robert Falcon Scott. La “banda antartica”, li chiama con rispettoso affetto Del Giudice. 

“Presero parte nei primi vent’anni del secolo scorso a quasi tutte le spedizioni, sempre loro, sempre gli stessi, una volta partivano con uno una volta con un altro, e il miglior marinaio antartico, Frank Wild, partì quasi con tutti, nel 1902 con Scott sul Discovery, nel 1907 con Shackleton sul Nimrod, nel 1911 con Mawson sull’Aurora, nel 1914 con Shackleton sull’Endurance, nel 1922 ancora con lui sul Quest…”
(Del Giudice 2009).

Tutti eroi, alcuni finiti più tragicamente di altri. Nell’ottobre del 1911 due spedizioni partirono alla conquista del Polo Sud, quella del norvegese Amundsen e quella del britannico Scott composta da cinque uomini tra cui il citato Wilson. Giunsero secondi, tra il 17 e il 18 gennaio del 1912 e perirono tutti nel viaggio di ritorno. Prima di prodursi nell’affondo finale che li avrebbe condotti all’incontro con la bandiera piantata da Amundsen, i cinque si erano avvicinati a tappe verso la meta in compagnia di diverse squadre adibite a vari compiti per il successo della missione. Era presente anche un fotografo e cineoperatore, Herbert Pointing, che riprese vari momenti dell’avventura. Tornato casa, integrò il materiale filmato con scene ricostruite, realizzando il film Great White Silence che terminò soltanto nel 1924 e che è stato amorosamente restaurato dal British Film Institute e sonorizzato da Simon Fisher Turner (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero48).
Tutto scivola nella grande zona bianca, ogni particolare cambia di segno, il taccuino di immagini che si trasforma in uno spettrale ritratto di morte annunciata, riprese di una piccola comunità umana che combatte contro un mondo ostile, sequenze dedicate alla fatica quotidiana e anche alla ricerca di innocenti passatempi, che si mutano da cronaca dell’istante a viaggio nel tempo e su tutto il bianco maestoso, avvolgente, indifferente, dal quale potrebbe scorgersi all’improvviso quella creatura ammantata con la pelle colore delle nevi. È ben composito l’immaginario alla fine della Terra, l’avventuroso, lo scientifico, il fantascientifico, l’esoterico, il mitologico, il soprannaturale, il documentaristico si saldano e si sfaldano rimescolandosi di continuo, oggi come ieri. Nel punto dove Verne aveva provato a spostare la rotta, ritorna un autore di best seller dei nostri giorni, James Rollins, un po’ concorrente di campioni del genere avventura come Clive Cussler e un po’ erede di autori di impianto più scientifico come Michael Chrichton (e prima ancora Asimov). Rollins ha rimescolato le carte in La città di ghiaccio (1999): il ritrovamento di un idolo scolpito nel cristallo in una grotta scavata nel ghiaccio nei pressi di una base militare in Antartide, manufatto di una civiltà incognita, fa partire una spedizione che si inoltra nel sottosuolo alla ricerca della civiltà perduta. 

Che cosa si incontrerà lì sotto? Strane creature, ad esempio, di cui si ignorava l’esistenza: 

“Magari è una qualche specie ignota di dinosauro. Ci sono molti tratti dei rettili primordiali. Persino l’assenza di squame ricorda il plesiosauro. Ma il resto? L’articolazione temporomandibolare è troppo bassa. La mascella è come quella di un serpente, il che gli permette di spalancare le fauci quanto basta per ingoiare anche un piccolo suino in un sol boccone. E so per certo che i dinosauri non avevano peli” 
(Rollins, 1999).

Insomma, nient’altro che ciò che si trova sempre scavando: reperti archeologici dell’immaginario. Mostri, alieni, grandi rettili, spettri, sacerdoti di culti senza tempo e più di ogni altra cosa il buio perenne avvolto in un silenzio cosmico. Solo che da quelle parti, nella grande zona bianca, quei reperti si conservano meglio. 

Sarà per via della temperatura.

 

 


 

LETTURE

  Errico Buonanno, Sarà vero? La menzogna al potere. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia,
  Einaudi, Torino, 2009.
  Clodagh Brook, Emanuela Patti (a cura di), Transmedia. Storia, memorie e narrazioni attraverso
  i media, Mimesis, Milano-Udine, 2015.
  Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2005,
  Daniele Del Giudice, Orizzonte mobile, Einaudi, 2009.
  Walter Kafton-Minkel, Mondi sotterranei e il mito della terra cava, Edizioni Mediterranee, Roma, 2012.
  Howard Phillips Lovecraft, Le montagne della follia in Tutti i racconti, Mondadori, Milano, 2015.
  Edgar Allan Poe, Le avventure di Arthur Gordon Pym in Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze, 1974.
  James Rollins, La città di ghiaccio, Nord, Milano, 2015.
  Jules Verne, La sfinge dei ghiacci, Mursia, Milano, 1977.

 


 

VISIONI

  John Carpenter, La cosa, Universal Pictures, 2011 (home video).
  Herbert Pointing, The Great White Silence, British Film Institute, 2011 (home video).