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di Adolfo Fattori e Roberto Paura

 

La fantascienza è sempre la storia di un viaggio. Vale probabilmente per tutta la letteratura, ma è sicuramente così per la science fiction, ultima erede delle grandi esplorazioni, delle spedizioni nelle terræ incognitæ, di quel sentimento d’avventura aderente all’immaginario di massa.

Ma l’ignoto è incertezza sempre appostata dietro l’angolo, con il suo portato di stupore, meraviglia e terrore. Succede così nella Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, che ha prima di tutto il potere di mettere in scacco il lettore. Senza il rischio di sbagliare, possiamo definire science fiction i tre romanzi di cui è composta: Annientamento, Autorità, Accettazione (Jeff VanderMeer, 2015). Ma nello stesso tempo ci rendiamo conto che questa collocazione non copre affatto l’intero spettro delle impressioni che ispira, dei temi cui allude. C’è dell’altro, sicuramente, almeno, una propensione, una curvatura verso il fantastico e l’horror che occhieggia e balugina man mano che si avanza nella lettura. In omaggio, certamente, alla definizione che lo scrittore stesso ha dato delle sue opere, “New Weird”.

In effetti, prima con una serie di allusioni, vaghi riferimenti, accenni, poi con sempre maggiore decisione man mano che si avanza nella narrazione, l’attenzione del lettore, più che dai pur chiarissimi richiami ai topoi della fantascienza, viene catturata dall’atmosfera di ansia e inquietudine che serpeggia nel racconto. Come se, consentendoci l’uso di qualche “figura” del linguaggio del cinema, lo sguardo dei personaggi – il racconto è quasi sempre “in soggettiva”, seppur in terza persona – sia sempre focalizzato su uno zoom che inquadra dritto davanti a sé, un “campo limitato, “sull’asse”, mai panoramico, mai “grandangolare”. 

Quello che avviene attorno, ai lati, alle spalle del personaggio di turno si può intuire, si può temere, ma nella maggior parte dei casi non si può afferrare con lo sguardo, non si può mai decifrare.

Né, attraverso l’alternanza di luoghi e di tempi che nel montaggio della storia si alternano, si riesce presto a decrittare, a intuire una qualsiasi catena di cause ed effetti fra i vari nuclei di eventi messi in scena. Almeno in Annientamento

Insomma, seppure la cornice della trilogia è fantascientifica, è prepotente una tensione che allude continuamente all’horror, seppur spogliato della sua classica dimensione soprannaturale. Il pensiero corre a Howard Phillips Lovecraft, e alle sue terræ incognitæ, quegli universi maligni dalle geometrie scalene, quegli spazi ultrastellari fatti di malvagità disumana che evoca nei suoi racconti, fino al Kadath, territorio “oltre il deserto di Leng”, raggiungibile solo attraverso i sogni – o gli incubi – di cui “il solitario di providence” scrive nel suo romanzo postumo, Il miraggio dello sconosciuto Kadath (Lovecraft, 2015).

Narrativa postmoderna, quella di Vandermeer? Decisamente. Lo scrittore mescola le carte, e partendo dalla speculazione scientifica rielabora il racconto dell’orrore su base razionale, continuando il lavoro di Lovecraft, che pur scrivendo di “orrore soprannaturale” ribadiva continuamente nei suoi articoli e nelle sue polemiche che la dimensione magica di certi fenomeni era frutto della nostra percezione, in un universo sicuramente naturale e descrivibile razionalmente (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero32).

 

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Faro di St. Marks, Florida - www.zazzle.com.au/nordicpeek

 

Certo, per descrivere l’Area X, Jeff VanderMeer si è ispirato alle sue approfondite perlustrazioni della riserva naturale di St. Marks, in Florida, non lontano da dove vive. Una zona solcata da fiumi e acquitrini, profilata da scogliere e isolotti, su cui si staglia un faro, l’unica struttura umana ben visibile ai visitatori. In questa zona incontaminata la natura ha modo di proliferare rigogliosa, lontana dalla minaccia costante della “sesta estinzione di massa”, quella che sta estinguendo la biodiversità a un ritmo che non si vedeva dall’epoca della scomparsa dei dinosauri, e che è strettamente legata all’ascesa della civiltà umana. Attento lettore di testi fondativi dell’ecologismo contemporaneo, a partire da Primavera silenziosa di Rachel Carson, che negli anni Sessanta prospettava un mondo futuro stravolto dall’uso massiccio di pesticidi, dove, come nel romanzo La strada di Cormac McCarthy, gli uccelli “un giorno se ne andarono” (McCarthy, 2007) per sempre, VanderMeer non sarà rimasto insensibile al fascino dei resoconti relativi a un’Area X per eccellenza, alla quale la sua evidentemente s’ispira: la “Zona di alienazione”, un’area di trenta chilometri quadrati che ha per epicentro l’ex centrale atomica di Chernobyl. Le immagini spettrali che spesso i media si compiacciono di somministrare al pubblico mostrano una realtà che sembra tratta dai cliché della fantascienza post-atomica: una ruota panoramica arrugginita che si muove ogni tanto spinta dal vento; l’aula di una scuola con i banchi divelti e i libri ancora sul pavimento; enormi edifici di stile sovietico, su cui ancora svetta la falce e il martello, assediati da rampicanti. In questa Zona abbandonata dagli uomini durante i terribili giorni di fine aprile del 1986, la natura ha preso il sopravvento proprio come nell’Area X, invertendo per una volta il rapporto con l’homo technologicus e riconquistando gradualmente alle vestigia della civiltà il proprio spazio vitale. Se, dopo l’incidente nucleare, si temeva che Chernobyl potesse restare per millenni un’area disabitata e spettrale, simbolicamente rappresentata dall’inquietante immagine della Foresta Rossa, i cui pini – colpiti mortalmente dal fallout radioattivo – assunsero poco dopo un colore rosso che mantengono ancora oggi, le spedizioni nella Zona di alienazione hanno scoperto invece una fauna rigogliosa e fiorente. Alci e cinghiali tornarono a frequentare l’area fin dai primi anni Novanta; sono poi tornati i lupi, in una quantità sette volte superiore a quella delle riserve naturali presenti in Ucraina e Bielorussia. E lungi dall’essere silenziose, le primavere di Chernobyl sono salutate dai richiami di numerose specie di uccelli, in particolare cinciallegre e fringuelli, che hanno rivelato sorprendenti capacità di adattamento alle elevate dosi di radiazioni ancora presenti, grazie a particolari mutazioni, come cataratte agli occhi o cervelli più piccoli della norma. Ci sono rondini “albine”, il cui piumaggio è screziato di bianco, che con l’arrivo dell’inverno migrano, anche se poi non tornano in primavera, forse perché sono geneticamente troppo deboli per compiere il lungo viaggio verso l’Africa. Ma, come racconta Alan Weisman in Il mondo senza di noi, lungo il fiume Pripjat’, nel cuore della Zona di alienazione, sorge “uno dei migliori siti di birdwatching in Europa, dove si possono osservare albanelle reali, mignattini, cutrettole, aquile reali, aquile di mare a coda bianca e rare cicogne nere che veleggiano oltre le torri di raffreddamento spente” (Weisman, 2010).

La natura dell’Area X descritta da VanderMeer potrebbe a un primo sguardo sembrare quella di un’area sconvolta da un fallout radioattivo, che ha provocato sorprendenti mutazioni nel corso dei decenni, o dei secoli. La terra incognita per eccellenza, in molta narrativa di fantascienza post-atomica, è spesso rappresentata da aree del mondo rese irriconoscibili dalle trasformazioni catastrofiche di una guerra o di un’incidente nucleare. Nel classico romanzo di Isaac Asimov Paria dei cieli, del 1950, l’orizzonte della Terra del remoto futuro è contraddistinto da una tenue luminescenza azzurrina. Basta allontanarsi di pochi chilometri da un centro abitato per imbattersi in aree proibite, dove la radiazione, anche dopo migliaia di anni, sembra essere ancora troppo forte perché qualcuno possa avventurarvisi. Queste zone, chiamate “Suolo Sacro”, sono controllate dal governo locale della Terra, un gruppo di fanatici religiosi che si oppone sordamente all’egemonia dell’Impero Galattico, di cui la Terra è parte (Asimov s’ispirò probabilmente alla situazione della Giudea sotto il protettorato romano, affidata a un governatore locale succube dell’influenza degli zeloti); secondo l’archeologo imperiale Bel Arvardan, eroe del romanzo, queste zone radioattive custodirebbero le vestigia dell’antica civiltà terrestre, le prove che un tempo l’umanità abitava un solo pianeta. 

 

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1852, U.S. Coast Survey Map of the Florida, dettaglio.

 

Il film Il pianeta delle scimmie, del 1968, riprende il topos delle aree sopravvissute alla catastrofe atomica e lo rende centrale nell’economia della storia. I protagonisti, infatti, si mettono in viaggio verso un territorio chiamato la Zona Proibita, un’area misteriosa oltre i confini della civiltà scimmiesca dove in passato una spedizione condotta dall’archeologo Cornelius ha trovato dei bizzarri manufatti. Giunti all’ingresso della Zona Proibita, i protagonisti scoprono che i manufatti misteriosi sono in realtà oggetti quotidiani appartenuti alla civiltà umana: una dentiera, un paio di occhiali, una bambola parlante. Gradualmente, la verità si rivela agli occhi dell’astronauta Taylor (impersonato da Charlton Heston), e viene confermata dallo scimmiesco professor Zaius: la Zona Proibita custodisce le vestigia di una civiltà preesistente sul pianeta, quella umana, che proprio gli esseri umani hanno poi spazzato via per la loro follia, probabilmente a seguito di una guerra nucleare. Addentrandosi infine nella Zona Proibita, Taylor scopre, com’è noto, i resti della Statua della Libertà, e si rende conto che il pianeta dove si trova non è altri che la Terra. Le terre incognite del futuro post-atomico assumono un ruolo importante anche nel capolavoro di Walter M. Miller jr., Un cantico per Leibowitz, del 1958 (cfr. www.quadernidaltritempi.eu//numero25).
Nel corso delle sue ricerche archeologiche, Frate Francis Gerard dello Utah dell’Abbazia di Leibowitz si imbatte in un antico rifugio antiatomico. Le reliquie dell’epoca precedente al Diluvio di Fiamma (l’armageddon nucleare), i “Memorabilia”, sono tenute in altissimo conto dai monaci dell’epoca successiva, unici custodi della conoscenza del tempo che fu, i cui ricordi sono persi nella leggenda. Mentre si aggira all’interno del rifugio, frate Francis ricorda un episodio avvenuto ottant’anni prima, quando, durante un’analoga spedizione archeologica, un gruppo di monaci dell’Abbazia si era imbattuto nel “luogo di una pista di lancio intercontinentale, completa di parecchi, affascinanti serbatoi sotterranei”. La spedizione finì tuttavia in un disastro quando, nel tentativo di comprendere il funzionamento del sito, l’intera area venne distrutta dall’esplosione di un missile, producendo un profondo cratere poi riempito dell’acqua di un torrente deviato da alcuni pastori e divenuto un lago. Pertanto, ai monaci dell’Abbazia è fatto divieto assoluto di provare a utilizzare gli strumenti del passato, limitandosi a recuperare solo libri e altri documenti.

Tutta la narrativa post-apocalittica è focalizzata sull’idea che, per i sopravvissuti al disastro, il mondo del passato appaia irriconoscibile, quasi alieno, mentre quello del presente è diventato un mondo violento e selvaggio, ormai privo di punti di riferimento. Una terra incognita nella quale i sopravvissuti e i loro discendenti vagano trascinandosi faticosamente tra le rovine dell’antica civiltà, senza riuscire più a riconoscerne i luoghi, completamente mutati dal disastro, e privati dei loro strumenti di orientamento. Nel recente romanzo Stazione Undici di Emily St. John Mandel, una spaventosa epidemia spazza via il 99% dell’umanità e fa sprofondare la civiltà tecnologica in pieno medioevo. Nei giorni immediatamente successivi all’ecatombe, uno dei sopravvissuti, rimasto bloccato in un aeroporto, che diventerà la sua casa per i decenni a venire, cerca di usare un’applicazione del suo cellulare per visualizzare la mappa del posto in cui si trova, dato che l’aereo su cui viaggiava è stato fatto deviare su una parte del Canada che egli non conosce. Ma Internet non funziona e i suoi tentativi sono inutili: dovrà rassegnarsi a vivere in un mondo di cui conoscerà solo un’area di pochi chilometri quadrati al di fuori dell’aeroporto; al di là c’è l’ignoto, “hic sunt leones”, nel vero senso della parola. È una considerazione penetrante quanto angosciante. Oggi ci sembra di poter orientarci in ogni parte del pianeta, grazie al GPS e a una banale applicazione sul cellulare. Ma basterebbe che Internet venisse meno, per rendere il mondo molto più ignoto e ostile ai nostri occhi. Autostrade, stadi di calcio e altre grandi strutture della nostra civiltà tecnologica si trasformano, in questi romanzi, in vestigia inquietanti quanto dovevano sembrare, per gli uomini medievali, i resti delle grandi arterie stradali e degli anfiteatri costruiti dagli “antichi”. Così appaiono, in effetti, ai protagonisti di Stazione Undici ma anche, in un futuro più remoto, a quelli del romanzo di Terry Brooks I figli di Armageddon, dove il collasso della civiltà tecnologica è l’espediente che permette alla magia di riconquistare il suo posto, la cesura tra l’epoca della fantascienza e quella del fantasy, di cui Brooks è l’interprete più noto. In questo mondo post-apocalittico, in ogni bosco, dietro ogni tornante di un sentiero sconosciuto, alberga il mistero, l’incognita, il pericolo; le meraviglie della civiltà diventano luoghi ammantati di leggenda, temuti ed evitati. Avviene così, per esempio, per l’osservatorio astronomico sul Mauna Kea che, nel romanzo Cloud Atlas di David Mitchell e nell’omonimo film dei fratelli Wachowski, gli indigeni del mondo post-apocalisse considerano sede di demoni malvagi. Nel fortunato romanzo Metro 2033 di Dmitrij Gluchovskij, primo capitolo di una serie di successo, la più quotidiana delle meraviglie della civiltà, la metropolitana (in questo caso di Mosca), si trasforma in una terra incognita piena di insidie e di misteri. I protagonisti si imbattono nella leggendaria Metro 2, che sarebbe stata costruita al tempo dei sovietici per consentire ai leader di spostarsi tra i palazzi del potere anche dopo un bombardamento atomico. Figure intraprendenti, gli “Stalker”, escono ogni tanto sulla superficie per recuperare oggetti e strumenti che possono tornare utili nel mondo al di sotto.

Questo riferimento agli “Stalker”, da parte di uno scrittore russo come Dmitrij Gluchovskij, ci conduce all’altro versante dell’interpretazione dell’Area X di VanderMeer. Perché, proseguendo nella lettura, appare chiaro che nell’Area X c’è dell’altro. Si intuisce una presenza aliena, sempre più percepita come irriducibile all’umano, sebbene piano piano si insinui, nei protagonisti e nel lettore, il dubbio, il sospetto che questa stia, sottilmente all’inizio, poi con effetti sempre più evidenti, alterando la natura biologica dell’Area, creando mostri, grotteschi e addolorati tentativi di imitazione, e poi calchi sempre più fungibili degli esseri viventi, compresi gli umani, che vi dimoravano o che vi si sono introdotti. La natura lussureggiante dei luoghi non deve ingannare, in questo senso. Perché pur essendo bellissima, apparentemente incontaminata, quasi primordiale, è sottilmente diversa, mutata. Mutata da qualcosa, una forza, una realtà inconoscibile, in fondo impersonale, penetrata presumibilmente attraverso una soglia di qualche genere: un’invasione? Una colonizzazione? Una fuga da un altrove divenuto inospitale? Comunque qualcosa che penetra e sperimenta. 

Le assonanze con la Zona immaginata dai fratelli Strugackij in Picnic sul ciglio della strada diventano evidenti. La Zona è una delle aree della Terra visitate, negli anni precedenti, da una civiltà extraterrestre. Non c’è stato modo di stabilire un contatto, gli alieni sono arrivati, infischiandosene degli esseri umani, e se ne sono andati poco dopo, lasciando le “Zone” invase di oggetti che appaiono, ai nostri occhi, strani e misteriosi, non più di quanto apparirebbero i resti di un picnic agli occhi di una formica. Il romanzo dei fratelli Strugackij e il film da cui è tratto, Stalker di Andrej Tarkovskij, non offrono nessuna chiara e definita interpretazione della Zona: più i protagonisti ne approfondiscono la mutevole topologia, più il mistero s’infittisce. Viene in mente anche The Dome di Stephen King (altra terra che diventa incognita: una cittadina del midwest si ritrova da un giorno all’altro intrappolata in una cupola trasparente, indistruttibile, infrangibile, cavia di un esperimento alieno, probabilmente di un gioco infantile).

O, con un salto ancora più estremo, i desolati paesaggi di Thomas Ligotti ( www.quadernidaltritempi.eu/numero58), cantore contemporaneo della depressione cosmica, altro conseguente erede di Lovecraft, di stati d’animo che fanno da interfaccia deformante della realtà, riscrivendo l’ambiente umano come un deserto polveroso e avvolto da un perenne crepuscolo. 

In apparenza al polo opposto, rispetto ai panorami di VanderMeer, in fondo, al loro nucleo simili: il disastro e la mutazione dell’ambiente fanno da riscontro metonimico al precipitare degli umani in voragini interiori sempre più oscure e tenebrose. Se, in effetti, invece di essere stata visitata da intelligenze extraterrestri, la Zona fosse il prodotto di un’apocalisse ambientale (nucleare o di altro tipo), la storia non cambierebbe. Per i personaggi di Un cantico per Leibowitz o de Il pianeta delle scimmie, le terre incognite che esplorano e le reliquie che vi rinvengono sono altrettanto aliene, sebbene in quei casi appartengano solo a un remoto passato. L’intervento esterno, quasi sempre di natura tecnologica, è dunque lo strumento in grado di trasformare il nostro mondo da un ambiente ormai pienamente noto, cartografato, conosciuto e addomesticato, a una realtà completamente sconosciuta e inconoscibile, che coinvolge anche l’idea che abbiamo di umanità. Nell’organizzazione che Jeff VanderMeer dà al procedere dei tre volumi, insieme allo spostamento di punto di vista dall’uno all’altro – nel primo volume le quattro donne (l’undicesima spedizione) che esplorano l’Area, nel secondo il gruppo di scienziati e agenti che agiscono all’esterno della stessa, in continuo conflitto fra loro e con se stessi, e l’unica sopravvissuta dell’undicesima spedizione (la biologa del gruppo), nel terzo uno degli agenti e la biologa, che dall’esterno tornano nell’Area – si rafforza la sicurezza dell’incombere di una catastrofe straordinaria, ma anche della prospettiva di una silenziosa, sistematica invasione: i dubbi che si nutrivano verso coloro che negli anni sono riusciti a tornare dalle esplorazioni nell’Area X, straniti, indeboliti, dis-integrati, si rivelano. La biologa ne è la prova: dalle varie spedizioni che si sono succedute nel tempo ritornano estranei, alieni, copie dei membri. Non reduci, quindi, ma cloni alieni degli umani, sicuramente prodotti più raffinati e convincenti e vincenti dei loro più diretti predecessori: i “baccelloni” del romanzo del 1955 L’invasione degli ultracorpi di Jack Finney – e del magnifico film che ne trasse l’anno dopo Don Siegel.

Allora non si pensava ai cloni. Oggi, in tempi di postumano, è più facile, come scrive Jean Baudrillard in L’illusione dell’immortalità rivolgere la mente verso questa possibilità (cfr. (Baudrillard, 2007), un’ipotesi di vita eterna attraverso una infinita riproduzione in serie dell’umano, strappata in questo caso al controllo dei terrestri e perpetrata da esseri provenienti da altrove, una terra non solo incognita ma inconoscibile, irrimediabilmente aliena.

 

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1882, Florida Map Collection, dettaglio, Biblioteca di Stato della Florida.

 

 


 

LETTURE

  Isaac Asimov, Paria dei cieli, Mondadori, Milano, 1995.
  Jean Baudrillard, L’illusione dell’immortalità, Armando, Roma, 2007.
  Terry Brooks, I figli di Armageddon, Mondadori, Milano, 2007.
  Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1999.
  Jack Finney, L’invasione degli ultracorpi, Marcos y Marcos, Roma, 2005.
  Dmitrij Gluchovskij, Metro 2033, Multiplayer.it Edizioni, 2010.
  Stephen King, The Dome, Sperling & Kupfer, Milano, 2009.
  Howard Phillips Lovecraft, Il miraggio dello sconosciuto Kadath, in Tutti i racconti, Mondadori, Milano, 2015.
  Emily St. John Mandel, Stazione Undici, Bompiani, Milano, 2015.
  Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, Torino, 2007.
  Walter M. Miller jr., Un cantico per Leibowitz, Mondadori, Milano, 2010.
  David Mithell, L’atlante delle nuvole, Frassinelli, Milano, 2005.
  Arkadij e Boris Strugackij, Picnic sul ciglio della strada, Marcos y Marcos, 2011.
  Jeff VanderMeer, Annientamento, Trilogia dell’Area X. Libro I, Einaudi, Torino, 2015.
  Jeff VanderMeer, Autorità, Trilogia dell’Area X. Libro II, Einaudi, Torino, 2015.
  Jeff VanderMeer, Accettazione, Trilogia dell’Area X. Libro III, Einaudi, Torino, 2015.
  Alan Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino, 2010.

 


 

VISIONI

  Franklin J. Schaffner, Il pianeta delle scimmie, 20th Century Fox Entertainment, 2000 (home video).
  Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi, CG Entertainment, 2009 (home video).
  Andrej A. Tarkovskij, Stalker, CG Entertainment, 2012 (home video).
  Andy e Larry Wachowski, Tom Tykwer, Cloud Atlas, Eagle Pictures, 2014 (home video).