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VISIONI / SOPRAVVISSUTO – THE MARTIAN


di Ridley Scott / 20th Century Fox, 2015


 

Marte, viaggio di sola andata


di Roberto Paura

 

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Con una delle sue ormai tipiche conferenze stampa, precedute dalla notizia di un imminente “big announcement” e dal susseguirsi di rumors e voci che inesorabilmente vedono sempre coinvolti in qualche modo anche gli alieni, il 28 settembre 2015 la Nasa annunciava la scoperta dell’acqua su Marte. Di nuovo. I commentatori più smaliziati hanno smesso di contare le volte in cui la Nasa ha annunciato la scoperta di acqua su Marte ormai da qualche anno, ma ogni volta la più antica, grande e potente agenzia spaziale del mondo giura che questa volta è diverso: difatti si tratta di acqua salata che sgorga con la bella stagione, un fenomeno ricostruito attraverso evidenze fotografiche dei satelliti già da un paio d’anni, ma che ha trovato una nuova conferma, sufficiente (?) per poter annunciare una “scoperta” e conquistarsi le prime pagine dei giornali. La Nasa non è affatto nuova a questi meccanismi mediatici. Negli ultimi anni, con lo stesso trionfalismo ha dato notizia almeno tre volte della scoperta di una pianeta “gemello” della Terra, sebbene in tutti i casi si trattasse di pianeti extrasolari con solo alcuni elementi in comune con il nostro mondo, ben lontani dal poter essere definiti con certezza “abitabili”. Ciò nonostante, a ogni annuncio corrisponde una prima pagina di giornale, e un rilancio dell’immagine di un ente spesso criticato dai contribuenti americani per i costi eccessivi in epoca di vacche magre. Poi, quattro giorni dopo l’annuncio dell’acqua salata marziana, ecco che nelle sale di tutto il mondo è uscito uno dei film più attesi del 2015, The Martian (in Italia tradotto come Sopravvissuto), firmato da una leggenda – per la verità recentemente un po’ appannata da qualche flop – come Ridley Scott, e con Matt Damon nei panni del protagonista assoluto. Un gigantesco spot per l’agenzia spaziale americana, protagonista indiscussa del film come del romanzo da cui è tratto, il bestseller d’esordio dello sconosciutissimo Andy Weir, autopubblicato su Amazon prima di essere scoperto da una grossa casa editrice. Acqua su Marte più un film che racconta l’epopea di un astronauta della Nasa abbandonato per errore dai suoi compagni sull’inospitale Pianeta Rosso. Cosa chiedere di più per rilanciare l’agenda marziana della Nasa? E infatti due settimane dopo l’uscita del film, il direttore dell’agenzia spaziale, Charles Bolden, svela all’International Astronautical Congress a Gerusalemme la nuova roadmap per portare l’uomo su Marte entro la metà del decennio 2030, facendo uso proprio di alcune delle tecnologie viste in The Martian (con la dovuta eccezione del simulatore di gravità, sogno di ogni regista di fantascienza da Stanley Kubrick in avanti ma mai preso in seria considerazione negli ambienti aerospaziali).

Basterebbe insomma citare queste “coincidenze” per spiegare il senso di un’operazione come quella tentata da Ridley Scott con il suo film. Un film profondamente americano, come fu Apollo 13 (1995) di Ron Howard, con cui questa pellicola ha alcuni punti in comune. Un film che si vanta della sua solidità scientifica, sebbene per la verità il merito sia tutto di Andy Weir, lo scrittore che con puntiglio da esperto informatico e mancato ingegnere ha cercato, nel corso della lunga stesura del romanzo, di rendere quanto più verosimili possibili gli sforzi del protagonista, Mark Watney, di sopravvivere su Marte. E su questo piano i punti di contatto con un’altra pellicola, Gravity (2013) di Alfonso Cuarón, sono evidenti: in entrambi i casi i protagonisti, astronauti, vogliono tornare a casa, non abbandonarla. I loro sforzi disperati di sopravvivere all’incidente che li ha tagliati fuori dalla strada del ritorno a casa sono la spia di una nuova sensibilità dell’era spaziale: ora la priorità non è più avventurarsi eroicamente nel cosmo per piantare una bandiera a stelle e strisce sulla Luna come su Marte, ma far “tornare a casa i nostri ragazzi”. Anche se Gravity non si è avvalso dell’aiuto della Nasa nella realizzazione del film – cosa di cui più di un pezzo grosso dell’agenzia spaziale si è lamentato –, il prodotto finale ha molto dello spirito che si ritrova in The Martian. In entrambi i casi è una storia di un naufragio. In entrambi i casi i protagonisti lottano disperatamente, pur avendo letteralmente l’intero universo contro, per sopravvivere (e questo spirito di sopravvivenza ritorna prepotente soprattutto in Interstellar, dove paradossalmente Matt Damon impersonava invece i panni dell’antagonista, dell’ennesimo ostacolo allo sforzo prometeico di sopravvivenza impersonato da Matthew McConaughey; cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 52). A ciò si aggiunga il fatto che sono due film scientifici, più che fantascientifici, benché questa distinzione semantica sia meno marcata nella lingua inglese, dove il termine science fiction, tutto sommato, denota semplicemente una storia romanzata alla luce della scienza. 

La distanza tra la fantascienza spaziale dei decenni precedenti non potrebbe essere più ampia. The Martian è chiaramente ambientato nel nostro futuro: quella dell’astronauta Mark Watney non è la prima ma la terza missione su Marte. Se volessimo rispettare la timeline – peraltro assai poco attendibile – della Nasa, saremmo intorno al 2040. Tuttavia, il mondo ricostruito nel film è identico al nostro, fatta eccezione per una tecnologia aerospaziale più evoluta. Non vediamo molto più della sala controllo del programma Ares e delle sale del Jet Propulsion Laboratory, la punta di diamante dell’agenzia spaziale americana; ma è tutto pressoché identico all’oggi. Quelle poche scene ambientate in Cina, dove gli americani vanno in pellegrinaggio per accogliere l’offerta di aiuto da parte dell’agenzia spaziale di Pechino, non mostrano un mondo futuristico. Il romanzo di Andy Weir, del resto, fa leva proprio su questo: raccontare una storia scientificamente plausibile, affinché il lettore non si senta imbrogliato dallo scrittore che caccia fuori dal cilindro il “deus ex machina” fantascientifico per trarre il protagonista fuori dai guai. La domanda che Weir si è posto scrivendo The Martian era, insomma: allo stato attuale della tecnologia, in che modo un essere umano solo un po’ più in gamba degli altri (perché tutto sommato gli astronauti sono un po’ più in gamba dell’uomo qualunque) riuscirebbe a sopravvivere per qualche mese abbandonato su Marte? Che poi è esattamente quello che interessa alla Nasa: capire cioè a che condizioni una missione umana sul Pianeta Rosso possa sopravvivere anche nel worst-case scenario, nella peggiore situazione possibile.

Una volta le cose andavano molto diversamente. Con tutte le prove generali possibili, Apollo 11 fu più un azzardo che una missione a prova d’errore. È noto che Richard Nixon aveva già pronto il discorso da leggere alla nazione nel caso in cui la missione si fosse conclusa con la morte degli astronauti. Una possibilità che molti addetti ai lavori calcolavano in 1 su 2. La fantascienza era la proiezione di questa incosciente assunzione di rischi. Gli astronauti di 2001: Odissea nello Spazio vengono mandati allo sbaraglio nell’orbita di Saturno senza avere alcuna idea di cosa incontreranno. In Alien sbarcano sul pianeta alieno e si avventurano nella gigantesca astronave misteriosa prendendo ben poche precauzioni. Ancora in Gattaca (che è del 1997) il protagonista, interpretato da Ethan Hawke, spiega che nessuno sa cosa ci sia sotto le nubi di Titano, pertanto bisogna mandarci una missione umana. Soluzioni dettate, ovviamente, da esigenze di sceneggiatura e di botteghino. Su Titano abbiamo fatto scendere un lander, su Saturno avremmo mandato almeno una sonda a dare un’occhiata, e prima di ficcarci dentro un’astronave aliena sicuramente oggi la analizzeremo in sicurezza con tutti gli strumenti a nostra disposizione. The Martian esprime perfettamente il nuovo corso dell’avventura umana nello spazio: la parola d’ordine di questo nuovo corso è “non correre rischi inutili”. Lo scontro tra l’anima avventurosa e quello contemporanea e razionale è esemplificata, nel film, dal contrasto tra il direttore della Nasa, Teddy Sanders, e il direttore della missione Ares III, Mitch Henderson: se il primo non intende accettare alcuna soluzione che, nel tentativo di riportare l’astronauta Watney sulla Terra, comprometta la sicurezza degli altri astronauti della missione Ares III, il secondo è invece il rappresentante di quel “momento eroico” dell’era spaziale nel quale si considerava invece accettabile assumersi un certo grado di rischio pur di riuscire nell’impresa. Gli astronauti della missione Ares III si schierano dalla sua parte (“sono pur sempre astronauti”, ossia avventurieri, dice a un certo punto lo stesso Mitch) e si lanciano nell’impresa disperata, che invece la Nasa – del film, come quella di oggi – vorrebbe assolutamente evitare perché non sicura.

Se leggiamo questo film attraverso la lente della campagna mediatica dell’agenzia spaziale americana (è un caso che tra i protagonisti sia del romanzo che del film ci sia proprio la responsabile delle relazioni con i media della Nasa?), riusciamo a leggere anche meglio l’attuale fase dell’avventura umana nello spazio e dei suoi evidenti ritardi rispetto al ritmo che la fantascienza avrebbe voluto imprimergli. Nel suo saggio Le nuove frontiere del possibile (1965), lo scrittore e ingegnere Arthur C. Clarke – che aveva per primo parlato di satelliti geostazionari, ma anche di ascensori spaziali e astronavi a gravità artificiale – assicurava che “entro vent’anni saremo in grado di ascoltare un amico che parla su Marte”, preoccupandosi soltanto del gap di tre minuti circa nelle comunicazioni (tanto impiega la luce, e quindi un impulso elettromagnetico, a coprire la distanza tra i due pianeti). Entro il 2000, sempre secondo Clarke, l’uomo avrebbe iniziato la “colonizzazione dei pianeti”, e nel 2020 – ossia tra soli cinque anni nel nostro futuro – avremmo inviato le prime sonde interstellari. Queste ottimistiche previsioni erano condivise più o meno da tutti i futurologi dell’epoca. In un numero della rivista Popular Mechanincs del 1952, ancora prima dell’inizio dell’era spaziale, lo scienziato missilistico Willy Lay prometteva viaggi sulla Luna, Marte e Venere “all’ordine del giorno entro il 1977”. Nello stesso numero un astrofisico del Caltech, Fritz Zwicky, sosteneva forse tra i primi l’idea del terraforming, ossia la possibilità di trasformare i pianeti del Sistema Solare in ambienti vivibili per l’uomo: “Sfruttando la potenza dell’atomo, saremo presto capaci di spostare Marte fuori dalla sua orbita, spedendolo su una tangente al  di là di altri pianeti per creare un’atmosfera, mentre i nostri pianeti più lontani possono essere fatti a pezzi e rimpiccioliti per essere portati più vicini al Sole” (Hollings, 2010).

La fantascienza contemporanea ha da tempo messo in soffitta questi ingenui sogni della modernità. Nella sua Trilogia di Marte, scritta nella prima metà degli anni Novanta, lo scrittore Kim Stanley Robinson immagina la prima missione umana su Marte (anch’essa chiamata Ares) nel 2026, e l’inizio della terraformazione del pianeta qualche decennio dopo. Nel più tardo romanzo 2312 (pubblicato nel 2012), non è solo Marte, ma anche Venere, Mercurio, e alcune lune di Giove e Saturno, a essere abitate dall’uomo, grazie a portentosi sviluppi nella terraformazione ma anche nel potenziamento umano, che rendere i colonizzatori in grado di adattarsi ad ambienti più ostili di quello terrestre. È un futuro ambientato trecento anni nel futuro rispetto a oggi. Nel 2000 Brian Aldiss e il fisico e matematico Roger Penrose scrissero un romanzo dal chiaro sapore polemico, White Mars (in italiano tradotto come Marte, pianeta libero), il cui titolo è un chiaro riferimento alla “trilogia marziana” di Robinson, dal momento che i tre romanzi che la compongono sono intitolati, rispettivamente, Red Mars, Green Mars e Blue Mars e si riferiscono ai diversi stadi del processo di terraformazione di Marte. In White Mars al tradizionale progetto di una terraformazione del pianeta si oppone un dibattito ampio e articolato sulla sua legittimità morale: opponendosi a questo progetto, i coloni di Marte si oppongono più in generale alla logica imperialista della Terra, collassata sotto i colpi di una crescita economica incontrollata e senza fondamenti. 

The Martian, quindi, a differenza di quanto il titolo del romanzo e del film porterebbero a immaginare, non racconta né di coloni terrestri su Marte né di incontri con marziani. Il marziano del titolo è semplicemente l’astronauta Mark Watney abbandonato suo malgrado sul pianeta rosso e costretto a sopravviverci per mesi, trasformandosi di fatto nel primo vero marziano. Ma, tutto sommato, non è un colono, perché su Marte non ha alcuna intenzione di restarci, anzi: il suo unico obiettivo è tornare sano e salvo sulla Terra, come gli astronauti di Gravity. La fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta non avrebbe mai potuto immaginare un simile plot. Ma come!? Tanti sforzi per abbandonare la Terra e conquistare la galassia, e voi ci proponete un film su un uomo che vuole tornare sulla Terra dopo essere stato su Marte? Forse avrebbero reagito così scrittori come Robert Heinlein, che nel racconto Requiem (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 18) racconta dello sforzo prometeico di un eccentrico miliardario il cui unico obiettivo è mettere piede sulla Luna e passarci il resto della sua vita. Anche più recentemente, due film piuttosto brutti usciti entrambi nel 2000, Pianeta rosso e Mission to Mars, raccontavano della scoperta di vita su Marte da parte della prima missione umana sul pianeta (tra l’altro in Pianeta rosso si utilizza un espediente che ritorna in The Martian: raggiungere il rover Pathfinder della Nasa e utilizzarne le componenti per costruire una radio). Coerentemente con la realtà – almeno quella che conosciamo oggi – la missione Ares III non incontra invece nessun alieno, né tantomeno un microbo marziano, e il povero Mark Watney deve concludere mestamente di essere davvero l’unica forma di vita sul pianeta. The Martian ci presenta quindi una storia che non ha nulla a che vedere con la fantascienza, e molto piuttosto con film d’azione tecnologici. Persino in Gravity, a un certo punto, c’era il momento onirico in cui l’astronauta interpretata da Sandra Bullock, prossima alla morte, incontrava lo spirito del suo compagno (George Clooney) che la incita a non arrendersi. Nel romanzo di Andy Weir e nel film di Ridley Scott non c’è alcuno spazio per extraterrestri o momenti mistici: c’è solo scienza, tecnologia e realismo. L’idea è di rappresentare nel modo più realistico possibile cosa potrebbe accadere se una vicenda del genere avvenisse realmente. La cosa meno realistica, probabilmente, è il lieto fine; ma l’esigenza cinematografica lo impone.

The Martian rappresenta insomma il futuro dell’impresa umana nello spazio secondo la Nasa. Un futuro che rispecchia perfettamente il presente: ogni cambio di programma, come l’invio di rifornimenti su Marte a bordo di una navetta automatica, richiede mesi di lavoro; bruciare le tappe, non rispettando criteri e protocolli di sicurezza, si traduce nell’esplosione del razzo lanciatore; un cambio di rotta di un’astronave non si realizza con una semplice inversione a U, come in Star Trek, ma con una fionda gravitazionale che, per essere eseguita, richiede una manovra di settimane e calcoli di giorni tramite supercomputer. Non c’è da stupirsi se, con queste tempistiche, ancora non siamo arrivati su Marte. La distanza rispetto a un film recente e lodato per la sua scientificità come Interstellar è enorme: lì la Nasa, pur in un periodo di tagli di budget talmente grandi da costringerla alla clandestinità, è in grado di spedire nello spazio decine di astronauti, dotandoli di astronavi avveniristiche. Qui invece si fanno salti mortali per mandare un cargo automatico nello spazio con un vecchio lanciatore. Non è detto, comunque, che le cose debbano andare per forza così. Se The Martian rappresenta la visione della Nasa per le future missioni umane su Marte, tutto fa credere che questa visione sia destinata a essere sorpassata dai fatti. L’avventurosa impresa lanciata da Mars One, una fondazione guidata dall’olandese Bas Lansdorp, progetta di far sbarcare i primi quattro astronauti su Marte entro il 2026, e di lasciarli lì. Non torneranno mai più a casa, perché il loro compito è di costruire una colonia, che entro il 2040 dovrebbe essere abitata da almeno 20 persone, spedite attraverso successive missioni. Secondo il progetto della Mars One, il costo delle spedizioni umane su Marte calerebbe drasticamente se facessimo a meno della necessità di riportare gli astronauti sulla Terra. Un biglietto di sola andata, in sostanza, costa meno di un’andata e ritorno. Il progetto gode di una grande visibilità mediatica, e il primo gruppo di volontari è stato selezionato dopo un’enorme campagna di raccolta delle candidature spontanee. Gli osservatori non nascondono il loro profondo scetticismo sulla realizzabilità di una simile impresa. Uno studio del Mit prevede che, nel migliore dei casi, gli astronauti morirebbero nel giro di un paio di mesi una volta sbarcati su Marte. L’ex presidente dell’Inaf, l’istituto italiano di astrofisica, Giovanni Bignami, non ha usato mezze misure, bollando Mars One come una bufala. Anche ammettendo che sia così, c’è sicuramente un uomo che su Marte potrebbe davvero riuscire a mandare esseri umani battendo sul tempo la Nasa: il miliardario Elon Musk, fondatore di SpaceX, la prima compagnia spaziale privata a essere riuscita a spedire una navicella automatica in orbita, non ha mai nascosto di lavorare proprio a quest’obiettivo, a cui ha sacrificato la sua intera vita. SpaceX ha già presentato i progetti per Red Dragon, un’avveniristica navicella in grado di portare sei astronauti su Marte. I passi da compiere prima di riuscirci sono moltissimi, ma Musk ha mostrato molte volte di saper rispettare i suoi impegni. Come svela il suo biografo, Ashlee Vance, in una lettera interna ai dipendenti inviata nel giugno 2013, Musk spiegava perché l’ipotesi di lanciare la compagnia sul mercato azionario era prematura: “Creare la tecnologia necessaria a stabilire la vita su Marte è ed è sempre stato l’obiettivo fondamentale di SpaceX. Se diventare una società per azioni riduce questa possibilità, allora non dovremmo farlo finché Marte non diventa una certezza” (Vance, 2015). Qualcuno potrebbe pensare che sia una follia, considerando che SpaceX ha un valore stimato a oggi di circa 12 miliardi di dollari, 4.000 dipendenti e una dozzina di contratti già siglati con la Nasa e altri clienti di primo piano per l’uso dei propri razzi lanciatori e delle sue navicelle automatiche. Ma è proprio perché SpaceX non è un’avventura senza basi, come Mars One, che Elon Musk è convinto di potercela fare. Il suo progetto prevede di realizzare una colonia marziana di 80.000 abitanti entro la sua vita (oggi ha 44 anni) e per farlo deve riuscire ad abbattere sensibilmente i costi di una spedizione marziana. E Musk ha i soldi, le capacità e l’ambizione per riuscirci.

Paradossalmente, quindi, The Martian potrebbe non rappresentare realisticamente il futuro dell’uomo su Marte, come la Nasa dichiara. Forse quel futuro è in realtà molto simile a quanto immaginato dalla fantascienza, che ha spesso previsto il ruolo decisivo che le grandi corporation giocheranno nell’espansione umana nello spazio e nella colonizzazione di Marte. E lo scenario tratteggiato da Robert Heinlein nel suo racconto Requiem potrebbe realizzarsi per Marte. Il miliardario e affarista Delos D. Harriman ha molti tratti in comune con Elon Musk. Ormai vecchio e, pur essendo riuscito nell’impresa di portare gli uomini sulla Luna, non ci ha ancora messo piede. Deciderà quindi di realizzare il suo ultimo sogno e di raggiungere il satellite per morirvi. Musk vuole fare lo stesso per Marte. In un’intervista al suo biografo, nel 2012, lo ha detto chiaramente: “Mi piacerebbe morire su Marte, preferibilmente non nell’impatto”. Di tornare a casa, come l’astronauta Mark Watney desidera invece disperatamente, non se ne parla proprio.

 


 

LETTURE

  Brian Aldiss e Roger Penrose, Marte, pianeta libero, Mondadori, Milano, 2001.
Arthur C. Clarke, Le nuove frontiere del possibile, Rizzoli, Milano, 1965.
Robert A. Heinlein, Requiem, 1940, in Id., La storia futura, Mondadori, Milano, 1987.
Ken Hollings, Benvenuti su Marte, ISBN, Milano, 2010.
Kim Stanley Robinson, Il rosso di Marte, Mondadori, Milano, 1995.
Kim Stanley Robinson, Green Mars, Bantam, New York, Usa, 1994.
Kim Stanley Robinson, Blue Mars, Bantam, New York, Usa, 1996.
Kim Stanley Robinson, 2312, Orbit, Londra, Regno Unito, 2012.
Ashlee Vance, Elon Musk: Tesla, SpaceX, and the Quest for a Fantastic Future, HarperCollins, New York, Usa, 2015.
Andy Weir, L’uomo di Marte, Newton Compton, Roma, 2014.

 


 

VISIONI

Alfonso Cuarón, Gravity, Warner Home Video, 2014 (home video).
Brian De Palma, Mission to Mars, Videosystem, 2001 (home video).
Antony Hoffman, Pianeta rosso, Warner Home, 2011 (home video).
Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello Spazio, Warner Home Video, 2015 (home video).
Andrew Niccol, Gattaca. La porta dell’universo, Universal Pictures, 2015 (home video).
Christopher Nolan, Interstellar, Warner Home Video, 2015 (home video).
Ridley Scott, Alien. Special Edition, 20th Century Fox Entertainment, 2012 (home video).