LETTURE  / CONVERSAZIONI SULL'EDUCAZIONE


di Zygmunt Bauman in collaborazione con Riccardo Mazzeo / Erickson, Trento, 2012 / pp. 146, € 12,00


Intelligenti come missili

di Adolfo Fattori

 

“Volete sapere qual è la cosa più bella dell’insegnare? Assistere al momento in cui uno studente o una studentessa scopre il proprio dono. Non c’è sentimento paragonabile a quello”. Così Stephen King in 22/11/’63 (2011; cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 36), con la consueta maestria e con inimitabile sintesi, esprime un sentimento che sa di antico, odora di inchiostro e carta di quaderno, risuona del trillare della campanella del cambio d’ora, e di quelle relazioni maestro-allievo cui ci ha abituati la letteratura, accompagnati da un senso di nostalgia che può però riguardare ormai solo i più anziani di noi.

Sensazioni e sentimenti ormai, diremmo, dimenticati, a guardarsi intorno addirittura estranei al mondo della scuola – fra tutte, la principale, necessaria, centrale istituzione educativa, quella che serve da modello a tutti gli altri organismi formativi che la modernità ha prodotto, specie negli ultimi decenni, tranne, è naturale, la famiglia.

La nostalgia stimolata dalle frasi di King è legittima: rimanda alle nostre infanzie, a tempi di noia e fatica, certo, ma anche a momenti di divertimento e gioia.

Non è comunque la prima volta che lo scrittore accenna alla scuola: molto più realistico e inquietante – e attuale – è invece un passaggio contenuto in un suo romanzo più vecchio, Il Talismano (2002), il cui protagonista, un ragazzino perennemente in fuga, durante le sue peregrinazioni, ad un incrocio di una città sconosciuta, appena raggiunta, si imbatte in “un alto edificio un po’ tetro e con innumerevoli finestre che sembrava un ospedale per malattie mentali e quindi era probabilmente il liceo”: dalla omologia delle architetture, alla analogia con le “istituzioni totali” il passo è breve.

Ora, le impressioni e le emozioni suscitate dai due brani dello scrittore del Maine – come anche Zygmunt Bauman sostiene che la letteratura riesca a fare (cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 11) – esprimono in poche battute e meglio di molta saggistica la catastrofe che investe l’intera sfera dell’educazione, della comunicazione, della relazione.

Un conflitto che si articola nel luogo in cui si scontrano gli anacronismi della forma che una modernità ormai passata ha dato alla scuola e la necessità di fare i conti con le urgenze – inevitabili – della condivisione sociale dei linguaggi e dei significati in un mondo in cui tutti i parametri della vita sociale stanno cambiando, fra digitalizzazione, migrazioni, trasformazione dei rapporti di produzione, completa riconfigurazione dei rapporti di spazio e tempo e delle forme di comunicazione e scambio.

Un mondo che appare intraducibile dagli uni nelle lingue degli altri. Dagli occidentali adulti, dalle nostre élites al centro di questi mutamenti negli idiomi e nelle visioni del mondo di tutti coloro che sembrano volerci invadere, scalzare, sostituire (i giovani, i migranti, i “paesi emergenti”). E verso cui l’Occidente non riesce più a praticare le sue classiche strategie di conquista e colonizzazione – prima di tutto culturale.

Zygmunt Bauman e Riccardo Mazzeo intendono discutere di educazione in senso molto generale – di socializzazione, insomma – ma rimane il fatto che il fulcro attorno a cui ruotano e da cui si irradiano tutti i dispositivi organizzati di costruzione sociale della realtà, di negoziazione e condivisione del senso che diamo al mondo in cui viviamo è la scuola, l’istituzione che conserva il primato sulle tecnologie della trasmissione delle conoscenze.

Ora – e prendiamo ad esempio l’Italia – se l’idea di scuola che ancora resiste nell’immaginario e nelle rappresentazioni sociali come nelle direttive ministeriali e nei discorsi politici rimane il modello profondo cui ci si ispira per ragionare non solo sulle strategie di istruzione, ma anche sui processi di inclusione, accoglienza, confronto, la mission che ci si presenta con più urgenza non riguarda più la socializzazione all’interno di una stessa cultura, o la colonizzazione di una cultura da parte di un’altra, quanto la necessità di far empatizzare culture diverse, in senso verticale (giovani e adulti), in senso orizzontale (locali e immigrati, metropoli e periferie…).

Partendo da queste premesse – in parte dichiarate, in parte solo evocate – Mazzeo e Bauman discutono dell’intero scenario attuale, e, in un capitolo in particolare, ragionano di scuola. Mazzeo cita Paola Mastrocola e il suo Togliamo il disturbo (2011), testimonianza dello stato di disincanto e riflusso di molti insegnanti, magari una volta “impegnati” nei confronti del loro lavoro. E del desiderio che il passato – che non ha mai lasciato la scuola – torni ad essere un presente legittimato, in cui l’insegnante spiega, l’alunno ascolta, a casa studia, poi viene interrogato, e gli viene messo un voto. E quelli che non studiano? Che non rendono? Via da scuola, a fare qualcos’altro.

Tutto il contrario di ciò che la scuola attuale sostiene di essere, ma che finisce per essere. La rassegnazione dell’autrice è la spia di una sconfitta, personale, forse, ma storica ed etica senz’altro. A meno che l’idea di una scuola veramente per tutti non fosse altro che un’utopia buonista sin dall’inizio. Il fatto è, come scrive Mazzeo, che la Mastrocola “ipersemplifica”, e quella che vorrebbe forse essere una provocazione finisce per rivelarsi una posizione che ibrida il peggio dell’atteggiamento “apocalittico” col peggio di quello “integrato”. Perché sembra difficile che un’insegnante che riflette sul suo lavoro non si chieda se agli alunni che devono studiare Ludovico Ariosto – o Alessandro Manzoni, se è per questo – costoro non piacciono semplicemente perché quando scrivevano non si rivolgevano certo ad un target di quindicenni, né a uomini e donne del terzo millennio...

E il sociologo polacco, con un mirabile esercizio di “pensiero laterale”, risponde con uno spiazzante paragone bellico, descrivendo la differenza fra i tradizionali missili balistici, nati al tempo delle guerre di trincea (e della scuola della modernità), e i moderni missili “intelligenti”, pensati per gestire conflitti in cui il nemico cambia continuamente volto, posizione, organizzazione (come avviene continuamente nel Web, ad esempio).

La modernità classica aveva bisogno di formare rispetto alla capacità di affrontare un compito specifico, fisso, definito. La società verso cui viaggiamo è per natura in continuo mutamento, e così le sfide che propone. E dovrebbe educare alla capacità di modificare continuamente la propria traiettoria, le proprie procedure, così come cambiano di continuo il bersaglio della nostra azione e la sua direzione. Il che vale, ma questo Bauman lo sottintende, prima di tutto per gli educatori stessi. E la Mastrocola, su cui insistiamo perché dato il successo del suo libro appare a suo modo “idealtipica” rispetto a un certo “sentire”, non sembra essere di questa pasta.

Di più: attraverso lei, intravvediamo le élites intellettuali che hanno voce nel mondo occidentale annaspare, girare in tondo, avvolte in un’autoreferenzialità che finisce per rimanere prigioniera di un vischioso intreccio di correttezza politica e culturale dichiarata e di paure e inquietudini latenti, e che non riesce a guardare al mondo che le si trasforma sotto gli occhi con occhi… “intelligenti”, con sensori simili a quelli dei missili di cui parla Bauman: non riescono a “revocare” la conoscenza che hanno del mondo di fronte alla evidente mutazione dello stesso. Spaventati dai “barbari” in arrivo – fantasmi di barbari, in realtà – da tutto ciò che è il risultato del mutamento in atto (si veda in questo stesso numero l’articolo dedicato a Il crepuscolo dei barbari di Alberto Abruzzese) e che è difficile da decifrare, gli intellettuali dell’Occidente non riescono a fare altro che cercare di spiegare il nuovo con strumenti ormai inadeguati.

Cosa che Bauman, stimolato dagli argomenti di Mazzeo, esibendo tutto il suo talento di pensatore spesso eretico, riesce ad evitare, mantenendo il focus del suo discorso sulle giovani generazioni, ma ragionando di immigrazione, economia, consumismo, rete Internet – di come tutte le forze che agitano la catastrofe attuale dovrebbero indurci ad una possibile apocalisse, una rivelazione (Maffesoli, 2009) della direzione in cui ci muoviamo.

Questa è un’epoca di contaminazioni, ibridazioni, meticciati. È un tempo di mutazioni antropologiche radicali. È anche un tempo di inaudite sofferenze, di conflitti, di fame e di disparità umane e sociali.

Siamo nel vortice di una delle giravolte, distruttive e creative insieme, di cui il capitalismo già ci ha dato prova in passato di essere la sorgente e l’energia.

Vediamo intorno a noi prendere forma nuove configurazioni della società e della socialità – e della condizione umana, delle identità – per le quali non abbiamo ancora un nome, ma siamo riusciti solo a rabberciare un prefisso, post, a dimostrazione del nostro ritardo di sensibilità e comprensione. Possiamo però, nel frattempo, osservare ed isolare tracce, segni, indizi dei cambiamenti in corso e proporli all’attenzione – come fa Riccardo Mazzeo – per poi ragionarci sopra – grazie agli spunti e alle riflessioni che Zygmunt Bauman ci offre.

 


 

LETTURE

Abruzzese Alberto, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino Editore, Milano, 2011.

Fattori Adolfo, Zygmunt Bauman; questa società… liquida l’uomo, in Quaderni d’Altri Tempi n. 11,
gennaio/febbraio 2008, 14/02/2012.

Fattori Adolfo, Rifare la storia: Tristano e Isotta alla guerra del Tempo e del Destino, in Quaderni d’Altri Tempi n. 36,
gennaio 2012, 14/02/2012.

King Stephen, Il Talismano, Sperling&Kupfer, Milano, 2002.

King Stephen, 22/11/’63, Sperling&Kupfer, Milano, 2011.

Maffesoli Michel, Apocalisse. Rivelazioni sulla socialità postmoderna, Ipermedium, S. Maria C.V., 2009.

Mastrocola Paola, Togliamo il disturbo, Guanda, Parma, 2011.