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[ conversazioni ]
Zygmunt Bauman:  questa società liquida… l’uomo
di Adolfo Fattori
Zygmunt Bauman è uno dei sociologi viventi più influenti dell’ultimo scorcio del XX secolo e di questi primi anni del XXI. Al centro del suo lavoro sono stati il tema della morte nella modernità e nella postmodernità, le nuove povertà nel mondo della globalizzazione, il percorso dell’identità nella contemporaneità. Fra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo Il teatro dell’immortalità (Il Mulino, 1995; Mortality, Immortality and Other Life Strategies, 1992), Pensare sociologicamente (Ipermedium, 2000; Thinking Sociologically, 1990), Vite di scarto (Laterza, 2005; Wasted lives. Modernity and its Outcasts, 2004), e, recentissimo, Homo consumens (Erickson, 2007), che abbiamo recensito in Quaderni d’Altri Tempi n. 10 (http://quadernisf.altervista.org/numero10/homo.htm).
È Professore emerito di Sociologia a Leeds e a Varsavia.
Lo abbiamo intervistato su alcuni dei temi cruciali della sua riflessione.  
Jaques Derrida osserva che ogni morte è la fine di un mondo, ed ogni volta la fine di un mondo unico, un mondo che non potrà mai più essere riprodotto o resuscitato (1). Ogni morte è la perdita di un mondo – una perdita per sempre, una perdita irreversibile e irreparabile. È la mancanza di quel mondo che non ha mai fine – che sarà d’ora in poi eterna. È attraverso lo shock della morte, e la mancanza che ad essa segue, che il senso della definitività, e quanto più il significato di eternità, di unicità, di individualità nelle sue due facce de la memêté e l’ipsèité, sono rivelate a noi, i mortali.
Ma come osserva Vladimir Jankélévitch (2), non tutte le morti hanno la stessa potenza rivelatrice, illuminante e educativa. La mia morte non può essere compresa come definitiva, in quanto tale, né immaginata (non riesco ad immaginare il mondo dal quale sono assente senza immaginare la mia presenza all’interno come testimone di essa, cameraman e giornalista). La perdita di “terze persone” (gli stranieri, gli “altri” anonimi e senza volto), che è destinata a rimanere una nozione astratta e demografico/statistica, ma tuttavia grande per le cifre in cui è espressa, non ci sembrerebbe una perdita insuperabile; quando veniamo a conoscenza di una morte, non siamo in grado di collegare questa notizia a nulla in particolare che riguardi una nostra possibile perdita (usando i termini di Derrida, si può dire che non conoscevamo quei mondi della cui scomparsa siamo stati informati). Sappiamo che tutti gli umani sono mortali, siamo abituati all’idea che tutte le specie viventi si rinnovano attraverso la mortalità di tutti i loro membri, e possiamo assumere, seppure soltanto implicitamente, che passato un po’ di tempo le lacune che la morte ha lasciato aperte saranno colmate; che la perdita, per quanto grandi siano i numeri, non sia irreparabile.
E così è solo un tipo di morte, la morte di “te”, del “secondo” non di un “terzo”, di qualcuno vicino e caro, di qualcuno la cui vita si intreccia con la mia, che spiana la strada verso una “esperienza filosofica privilegiata”, dal momento che mi offre un saggio di quella finalità ed irrevocabilità che riguarda la morte, tutte le morti, e solo la morte. Qualcosa d’irreversibile ed irreparabile sta capitando a me, qualcosa di simile alla mia stessa morte, anche se questa morte riguarda un altro, non è ancora la mia. Sigmund Freud è d’accordo: ha messo in luce il completo collasso che subiamo quando la morte colpisce qualcuno che amiamo – un genitore oppure un coniuge, un fratello o sorella, un figlio o un amico caro. Le nostre speranze, i nostri desideri e i nostri piaceri giacciono nella tomba con lui, non saremo consolati, non riempiremo il posto lasciato vuoto (3).
Gli ultimi due paragrafi del saggio di Freud parlano di un imbarazzo umano, troppo umano – universale e senza tempo. In ogni epoca e cultura, le vite di uomini e donne tendono ad essere intrecciate con le vite di altri umani – i loro parenti, vicini, amici cari – proprio come le nostre vite. Ad alcuni esseri umani noi siamo legati da rapporti di simpatia ed intimità in cui le relazioni “Io-Tu” sono intrecciate. A queste persone selezionate capita talvolta di morire, scomparendo una per una dal nostro mondo, portando il loro mondo via con s é nella non-esistenza; nella maggior parte dei casi non sono rimpiazzate, e in nessun caso sono completamente sostituite – e questa impossibilità di sostituirli completamente offre una panoramica del vero significato di “unicità” e “finalità”, permettendoci di anticipare il significato della nostra morte anche se siamo ancora incapaci di visualizzare il mondo senza la nostra presenza, il-mondo-dopo-la-nostra-morte, il mondo senza che noi possiamo guardarlo.
Quando queste persone vanno via una dopo l’altra – i nostri mondi, i mondi dei sopravvissuti, perdono poco a poco il loro contenuto.
Quelli che vivono a lungo e hanno visto morire molti dei propri cari, risentono della marea crescente di solitudine: la cupa, trascendentale esperienza del vuoto del mondo – un’altra panoramica trasversale del significato della morte.
Per tutte queste ragioni, la fine di un mondo condiviso “Io-Tu” proposta dalla scomparsa del compagno-di-vita può
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In una delle prime sue opere tradotte in italiano, Il teatro dell’immortalità (Mortality, Immortality and Other Life Strategies) lei riflette sul diverso atteggiamento degli uomini della modernità e di quelli della postmodernità nei confronti della morte: nel primo caso, in termini di “decostruzione della mortalità”, nel secondo come “decostruzione dell’immortalità”. A distanza di 15 anni dalla pubblicazione del libro, ritiene che si possa aggiungere qualcosa?
Una strategia più culturale si affianca oggi all’intera classe delle strategie possibili…(con cui si affronta il tema della morte, ndr.) Mentre le condizioni d’efficacia storicamente determinate (così come quelle di attrazione) degli espedienti che Lei ha menzionato cominciano a dissolversi e scomparire, questa strategia alternativa, che gradualmente ma costantemente ha raccolto forza e popolarità in tutta l’epoca moderna, sembra acquisire il primo posto nella società liquido-moderna dei consumatori. Questo stratagemma consiste nella banalizzazione della morte, strappandola dall’aura di evento “unico”, “uno solo”, “una tantum”, “come nessun altro”; dallo stato di sublime – l’ignoto e inconoscibile, un mistero mai sciolto, terribile proprio perché è inconcepibile e inimmaginabile. La “Morte” nelle sue varie forme diventa un episodio quasi onnipresente, ripetibile come qualsiasi altro evento, non definitivo, corredato da una nota, continua nella prossima puntata, come dopo la sigla delle puntate settimanali di una soap opera… la banalizzazione si compie nel diluirsi del fenomeno della morte nel fiume della vita quotidiana. Mentre una volta era una selvaggia, indomita, invincibile alterità, ora la morte è domata, addomesticata, qualcosa che con un minimo sforzo può essere affrontato, confrontato e trattato…
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