ASCOLTI / THIS MORTAIL COIL - HDCB BOX SET


di This Mortail Coil / 4AD, 2011


Sangue, ombre, lacrime
e quel che resta in cenere

di Gennaro Fucile

thismortalcoil 

Chiedete ancora perché sono detti malinconici,

quando ogni piacere, non appena raggiunto,

muta aspetto e diviene nausea…

quando ogni bellezza è una bellezza che svanisce,

ogni fortuna è una fortuna che muta?

Jens Peter Jacobsen

 

This Mortal Coil sfugge alle classificazioni. Dark, gothic, dream pop, post punk, new wave, le siglette si sono sprecate per definire la musica di un gruppo che gruppo non è mai stato, trattandosi di un autore collettivo che prese a prestito il nome da un passaggio del celeberrimo monologo di Amleto (To be, or not to be, that is the question), quando il principe a tu per tu con il teschio di Yorick poco dopo recita: “When we have shuffled off this mortal coil”.

This Mortal Coil, questo mortale groviglio è stato un progetto dedicato a rimodellare brani più o meno vecchi, nient’altro; canzoni intrise di malinconia, immerse in atmosfere crepuscolari, intessute nell’ombra, scampoli di rimembranze sonore, manufatti di una bellezza commovente, perché nulla ci conduce, ci sospinge vicino al sublime come il temperamento malinconico, ci ricorda Immanuel Kant: “Colui che dalle sue emozioni è portato alla melanconia non è chiamato melanconico in quanto afflitto da cupa depressione per essere stato defraudato delle gioie della vita, ma perché la sua sensibilità, esasperata oltre un certo grado, o per qualche ragione indirizzata in senso sbagliato, raggiunge questa condizione più facilmente di qualsiasi altra. In particolare egli ha un senso del sublime […]. Tutte le sensazioni del sublime hanno per lui un fascino superiore a ogni transeunte seduzione del bello” (Kant, 2002).

This Mortal Coil è un piccolo scrigno, un packaging deluxe, stratosferico, contenente tre album (It'll End In Tears, Filigree & Shadow, Blood) più una manciata di singoli e remix che ritornano vent’anni dopo in compagnia di due timidi inediti: una cover di We Never Danced che arriva dal songbook di Neil Young e Thäis (Bird of Paradise). Bonus che nell’insieme compongono un quarto disco: Dust & Guitars, rendendo diverso, oltre che in virtù della lussuosa veste, questo box – pubblicato a fine 2011 – da un precedente cofanetto uscito nel 1993, che includeva, oltre ai tre album, un quarto cd contenente buona parte dei brani originali andati poi a comporre il repertorio della pseudo band. Una confezione adeguata al fascino inalterato, alla seduzione che ancora esercitano questi suoni vent’anni dopo la decisione di Watts-Russell – che questa creatura sonora generò – di scrivere la parola fine. Un involucro prezioso, arricchito da foto inedite della misteriosa e affascinante Pallas Citroën (di nome Yvette quando Ivo Watts-Russell la conobbe, cfr. http://www.pennyblackmusic.co.uk/MagSitePages/Article.aspx?id=6280), il volto di This Mortal Coil, ma anche di una malinconia di fine millennio, che ricorda i versi di John Keats:

 

Sì, proprio nel tempio stesso del Piacere

La velata Malinconia ha il suo altare sovrano (Keats, 1967).

 

This Mortal Coil è indimenticabile, ne sa qualcosa David Lynch che se ne ricordò nel suo Lost Highway, ad esempio, da noi uscito con il titolo Strade perdute, utilizzando un brano che non compare nella colonna sonora ufficiale, ma fondamentale nell’economia del film: fa da sottofondo a una scena d’incontro e di rifiuto (http://www.youtube.com/watch?v=Laf8bhSeGNY).

Accade nel bel mezzo del deserto, di fronte ai fari accesi di una macchina. Un dialogo succinto:

 

Pete: Perché io, Alice? Perché hai scelto me?

Alice: Tu mi vuoi ancora, vero Pete?... Sempre di più…

 

(musica)

 

Pete: Ti voglio! Ti voglio! Ti voglio, ti voglio Alice

Alice: Tu non mi avrai mai

 

Tra il primo scambio di battute e il secondo, si assiste a una scena d’amore avvolta in una luce abbagliante e anzichenò spettrale, quasi un negativo della love scene nel deserto immortalato in Zabriskie Point, sequenza che si avvaleva del commento sonoro di Jerry Garcia. Come nel film di Michelangelo Antonioni, la musica accompagna le immagini, un brano scritto da un altro eroe dell’epoca: Tim Buckley. La canzone poi smarrita/svanita si intitola Song to the Siren, ma Lynch non usò l’originale, soddisfacendo così un desiderio risalente a molti anni prima, quello di utilizzare la versione di This Mortal Coil in un suo film. Vecchia passione frustrata ai tempi di Velluto Blu per motivi di budget, almeno questo narra una leggenda pop, una delle tante. Fatto sta che Lynch rinfocolò la fama di un gruppo scioltosi già da sei anni e mai più ricostituitosi. Il brano è in seguito ricomparso nella pubblicità del profumo Noa di Cacharel (tra il 2000 e il 2001) e nel film di Peter Jackson Amabili resti (The Lovely Bones, 2009). Chi volesse curiosare sulla rete lo troverà spesso attribuito ai Cocteau Twins, segnato com’è dall’inconfondibile voce di Elizabeth Frazer. Uno svarione reso possibile anche dalla natura stessa di This Mortal Coil, sfuggente, inafferrabile, contraddittorio: dietro il moniker shakespeariano, infatti, si sono dati il cambio decine di musicisti. Un’esperienza piuttosto singolare, nata per caso, generata da un rifiuto. Una piccola bega avvenuta nella giovane famiglia 4AD, etichetta indipendente fondata nel 1980 dal citato Watts-Russell, ex commesso di un negozio di dischi, personaggio poliedrico un po’ manager, un po’ musicista e un po’ un uomo pieno d’idee e di passioni, che ingaggiò una covata di talenti emergenti, band promettenti come Cocteau Twins, Dead Can Dance, Clan of Xymox, Bauhaus, Rema Rema, Wolfang Press, Modern English.

La 4AD puntò subito forte sulla distinzione, sull’immediata riconoscibilità delle sue produzioni, a iniziare dalle copertine degli album, caratterizzate da immagini simboliche, sfocate, evocative, dettagli, primi piani di Pallas Citroën. Decisivo fu in tal senso l’apporto del graphic designer Vaughan Oliver, del fotografo Nigel Grierson e della 23 Envelope, agenzia grafica free lance guidata da Chris Bigg e Simon Larbalestier. Questo tratto distintivo della 4AD, la sua immediata riconoscibilità, si inseriva in una lunga tradizione segnata dalla stretta relazione tra il sound e la grafica dell’etichetta discografica a partire dal logo, una storia che nell’ambito della popular music risale almeno alla Blue Note (cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 35) e prosegue con la Apple creata da The Beatles, con la Vertigo, ecc. (cfr. Fucile, 2006). Quanto abbiano contato nel fare i This Mortal Coil questi non musicisti, lo dimostra il fatto che i quattro dischi del box sono dedicati da Watts-Russell proprio a Grierson e Oliver (It'll End In Tears), alla Citroën (Dust & Guitars), alla sua assistente e responsabile dell’ufficio stampa, Deborah Edgely (Filigree & Shadow) e John Fryer (Blood), sorta di ingegnere del suono che con lui scrisse e arrangiò i brani originali del progetto. In pratica, con Watts-Russell, l’unico membro ufficiale di This Mortal Coil.

Tornando alla musica, tra i primi a emergere mettendo a segno alcuni colpi discografici furono i Modern English e proprio da un loro rifiuto nacquero i This Mortal Coil. Il fattaccio è relativo alla proposta rivolta da Watts-Russell alla band di incidere un mix dei brani Sixteen Days (dal disco d’esordio Mesh and Lace) e After The Snow dall’omonimo album. Watts-Russell non si perse d’animo e riunì una serie di musicisti della casa per incidere ugualmente i due brani: Elizabeth Frazer, voce angelica dei Cocteau Twins, e a far da contrappunto quella di Gordon Sharp – preso in prestito dai Cindytalk –, Robin Guthrie sempre dei Cocteau Twins, Martin Young dei Colourbox e Michael Conroy (un dissidente, in un certo senso) dei Modern English.

L’idea This Mortal Coil prende forma in quel frangente. Il maxi quarantacinque giri ospitava sul lato B una ripresa di Sixteen Days preceduta dalla cover di Song to To The Siren (il tutto è reperibile nel citato Dust & Guitars). Il brano affidato alla voce della Frazer, accompagnata dal solo Guthrie, è l’atto di nascita del progetto, che di lì a poco avrebbe chiarito i suoi intenti: reinterpretare brani poco noti del recente (più o meno) passato, di musicisti quasi sempre tenuti ai margini del rock show business, amati profondamente da Watts-Russell, riletti con spirito crepuscolare, ricorrendo a suoni riverberati, atmosfere sognanti, intermezzi strumentali scritti per l’occasione e perlopiù affidati a sezioni d’archi abilmente impreziositi di piccoli tocchi elettronici. Il tutto affidando l’esecuzione delle canzoni vere e proprie a delle voci fuori dal comune, a iniziare da quella della sirena scozzese Elizabeth Frazer.

Sebbene a prima vista This Mortal Coil si possa stigmatizzare come una cover band di altro profilo, è poco esatto ridurne la dimensione creativa a una semplice atto di devozione, o di mera opportunità commerciale, gli assi su cui in genere si fonda la pseudo poetica di una cover band, ovvero di una formazione che si dedica a riprendere, rifare, reintepretare, forse ricopiare brani di un altro gruppo o di un singolo musicista. This Mortal Coil è sì un omaggio a lavori altrui, ma è anche uno stile che non trova riscontro in nessuno dei musicisti da cui sono prese a prestito le canzoni. Lo stesso Watts-Russell impegnato anche nella composizione dei brani originali insieme al geniale Fryer, gli interludi alle cover, possiede un profilo piuttosto simile a quello che a fine anni Sessanta Brian Eno aveva battezzato non-musicista, una figura che interviene nel processo di creazione artistica solo dopo che il brano viene concepito da altri (e le cover non sono altro), eseguito da professionisti (e i musicisti coinvolti in This Mortal Coil lo sono), e la cui registrazione su nastro poi è manipolata dal non musicista. Gli arrangiamenti, la caratterizzazione del sound, gli interventi elettronici in fase di post produzione a cura del binomio Watts-Russell/Fryer sono qualcosa che si avvicina a questa idea anche se in forma spuria. A quei tempi, metà anni Ottanta, ancora in buona parte analogici, fu l’esperienza più vicina al non musicista, se si escludono i manufatti prodotti dallo stesso Eno. Soltanto con la possibilità di campionare in tutte le dimensioni possibili qualsiasi sorgente musicale, il non-musicista è diventata una figura ordinaria e la sua prassi si è fatta ordinaria amministrazione.

Questa logica all’epoca sovversiva si è poi ribaltata nel suo esatto contrario e forse è qui che si annida uno dei virus che hanno diffuso su tutto il pianeta la malattia del passato. Una morbosità che fece capolino in tempi non sospetti. “Oh, I believe in yesterday” manifestava schietto e melodico Paul McCartney, nel 1965, in quella che è la song più ripresa e rifatta al mondo, secondo il Guinness World Records. L’autorevole fonte registra, infatti, oltre 1.600 versioni, cover della canzone originariamente inclusa nell’album Help!; non era ancora nato, il pop, che già il rimpianto per il passato si iscriveva nel suo dna viziandolo da allora in avanti e dando luogo a un progressivo contorcimento su se stesso.

Un ripiegamento verso uno ieri sempre più gigantesco, fatto inizialmente di omaggi saltuari, poi di cover sempre più numerose, di celebrazioni, di album tributo, di formazioni musicali nate al solo scopo di omaggiare qualcuno, di antologie sempre più sontuose, al limite dell’inutilità, anche sconfinanti ben oltre la superfluità e non è tutto. La venerazione per il passato si è estesa in lungo e in largo operando recuperi, riscoperte. Il vintage è una febbre che colpisce tutti. Sono innumerevoli ormai i ritrovamenti di nastri perduti, di band dimenticate, di brani sepolti da un oblio quasi istantaneo, revival e collezionismi di ogni genere. La digitalizzazione del mondo ha poi fatto il resto, affidando a ognuno di noi il compito di antologizzare i giorni trascorsi, o meglio la musica che li ha accompagnati, di ricostruire la colonna sonora della propria vita e/o quella di una generazione. Ha reso possibile una sistematica caccia istantanea al frammento campionabile/smembrabile/ incollabile/reiterabile da ficcare in ogni dove. “Retromania”, l’ha chiamata Simon Reynolds (2011), documentando con maniacale dovizia di particolari questa singolare forma di tirannia temporale, particolarmente opprimente nel pubblico consumatore di musiche giovanili, nel rock, nel pop e in tutte le innumerevoli diramazioni che ne sono seguite: un potere totalitario che ne ha assorbito tutte le energie vitali, degenerando anche in necrofonie piccole e grandi.

Quando nel 1984 uscì il primo album di This Mortal Coil questa emorragia del passato era ancora piuttosto contenuta. It'll End In Tears vide il coinvolgimento dei musicisti presenti sul maxi singolo e di Simon Raimonde (Cocteau Twins), Steven Young (Colourbox), Mark Cox (Wolfang Press), Lisa Gerrard e Brendan Perry (Dead Can Dance), Robbie Grey (Modern English), Manuela Rickers (X Mal Deutschland) e Howard Devoto (Magazine). A questi si aggiunsero Martin Mc Garrick e Gini Ball, la piccola sezione d’archi di TMC, già prestatori d’opera in gruppi come Siouxsie & the Banshees. Rispetto ai successivi, l’album di esordio risulta più eterogeneo, in buona parte già segnato da arrangiamenti struggenti e sognanti, ma con alcune significative eccezioni. È il caso dei due brani di carattere esoterico proposti dalla Gerrard, Wave Become Wings in solo e Dreams Made Flesh insieme a Perry, oppure la successiva Not To Me firmata da Colin Newman (Wire), cantata da Grey, rock che quella sacralità interrompe bruscamente. La stessa Song To The Siren, resta un diamante che splende di luce propria. A fare già il sound This Mortal Coil sono altre cover: Kangaroo cantata da Sharp e Holocaust (entrambe firmate da Alex Chilton) eseguita da Devoto ed Another Day (di Roy Harper) sempre affidata alla Frazer.

Tra interpretazione e autorialità, il progetto This Mortal Coil era ormai varato. Le due prime donne di Cocteau Twins e Dead Can Dance, se ne separarono subito dopo per seguire il loro personali percorsi (la Gerrard otterrà anche un buon successo di cassetta specie dopo la colonna sonora de Il gladiatore), ma l’idea era forte e si rinnovò, complice l’irresistibile magnetismo esercitato progressivamente dal grande Ieri. Infatti, quella sorta di dichiarazione programmatica fatta da The Beatles nel bel mezzo della piena giovanile planetaria, era rimasta per ben poco tempo un episodio isolato. Nei primi anni Settanta c’era già stato chi, come David Bowie, aveva compilato un album di sole cover, Pin Ups (1973), brani dei bei tempi andati (ma erano passati solo pochi anni!). L’uomo che poi cadde sulla Terra rifece nell’occasione pezzi dei primi Pink Floyd (la See Emily Play di Syd Barrett), degli Yarbirds, dei Them, degli Who, attribuendogli uno status di classici anzitempo. Dittatura del passato intuita dagli enigmatici The Residents che nel loro The Third Reich’n Roll (titolo eloquente) del 1976 irrisero l’allora solo ipotizzabile retromania poiché ancora a uno stato fetale, ma evidentemente virulenta sin dal suo primo manifestarsi. Nel frullatore dei geniali musicisti tuttora anonimi finirono un paio di dozzine di pezzi, pescati dai gloriosi Sixties, tra cui hit della bubblegum music come Yummy Yummy Yummy (degli Ohio Express), inni psichedelici quali In-A-Gadda –Da-Vida (il brano monstre degli Iron Butterfly), hit e poi cult song come Light My Fire (The Doors), medley insoliti (Beatles & Rolling Stones) e poi ancora James Brown, The Cream, il twist di Chubby Checker e altre amenità assortite. Nel segno della creatività, comunque il passato si faceva largo in un’epoca che aveva in contemporanea stigmatizzato con la God Save The Queen dei Sex Pistols l’assenza di ogni futuro (“No future for you, no future for me. No future, no future for you”, più chiaro di così…)

Gli stessi Residents in seguito si fecero prendere la mano progettando venti dischi dedicati ai grandi compositori americani del Ventesimo secolo, realizzandone poi soltanto quattro, dedicati a James Brown, George Gershwin, Hank Williams e John Philip Sousa. A dirla tutta, agli enigmatici musicisti, che celano la loro identità con maschere riproducenti bulbi oculari, l’idea frullava nella testa da un po’, avendo esordito con un Meet The Residents, con titolo e copertina che facevano il verso all’esordio di The Beatles. Alla vena iconoclasta, però, si affiancò subito il suo doppio: l’affetto. Iniziò ad alternarsi presto, come nel caso dell’omaggio, che suonava ancora fresco, rivolto sempre ai Fab Four, nel 1987, da una nidiata di giovani leve: My Father Knews Sgt. Pepper, ovvero l’intero disco rifatto. Qui ogni musicista/gruppo si prendeva cura di un singolo brano, risultando nel complesso quasi tutti un po’ calligrafici, ma sinceri. Il valzer con iconoclastia era iniziato, i Laibach trasformarono l’anno dopo Let It Be in una sinfonia industriale dall’incedere marziale, nel 1990, Mike Westbrook tradusse nella lingua del jazz Abbey Road. Era solo l’inizio, così l’affetto cedette il posto alla nostalgia e poi alla mania del retro. In questo passaggio si colloca la seconda uscita di This Mortal Coil, Filigree & Shadow (1986), doppio album con nuove cover dalla commuovente Come Here My Love di Van Morrison, pescata dall’album Veedon Fleece), a Streght of Strings dell’ex Byrds Gene Clark, da Tim Buckley (in doppia porzione: Morning Glory e I Must Have Been Blind) a Judy Collins (My Father), David Byrne (la Drugs dei Talking Heads), ecc., legate insieme da magistrali intermezzi strumentali, cupe composizioni originali che amalgamano il tutto. È il vertice della poetica This Mortal Coil, progetto rigenerato dall’apporto dei nuovi musicisti coinvolti (compresi alcuni non legati direttamente alla 4AD) tra cui Dominic Appleton (Breathless), David e Alan Curtis, Richard Thomas (Dif Juz), le voci di Richenel, Deirdre e Louise Rutowsky, Caroline Seaman, Alison Limerick, e alcuni membri già presenti nel primo lavoro, come Simon Raymonde e Steven Young. Tra Filigree & Shadow e il successivo Blood, intercorre un lustro e in quei cinque anni una valanga di suoni del tempo che fu iniziò a investire un presente sempre più modesto e la nostalgia non era già più quella di un tempo, per dirla con Simone Signoret. Il terzo e ultimo capitolo di This Mortal Coil suona appena più debole dei precedenti, il fiume revivalista è ormai in piena, la riscrittura del passato copre il presente alla maniera dei cartografi borgesiani, c’è quanto basta per decidere di chiudere la storia. L’album è un doppio come il precedente, e si avvale sempre di un cast variegato, con musicisti ancora una volta in parte diversi dall’album precedente. Questa volta sono in studio le ugole di Tanya Donnelly (Throwing Muses), Kim Deal (Pixies), Caroline Crawley (Shelleyan Orphan), si riconfermano le voci preziose della Appleton e delle Rutowsky, aumentano le composizioni originali di Watts-Russell, spiccano le cover di I Come And Stand At Every Door, un traditional su testi del poeta Nâzim Hikmet e noto in particolare nella versione dei Byrds (l’album è Fifth Dimension), la delicata Late Night di Syd Barrett e I’m The Cosmos, firmata da Chris Bell, compagno di Alex Chilton nei Big Star, dal cui repertorio This Mortal Coil, alias Watts-Russell, aveva prelevato due brani per la scaletta di It'll End In Tears. Il cerchio si è chiuso così, il brano è il penultimo del disco. Segue una composizione originale di Watts-Russell, (Nothing but) Blood, canto e sospiro di velluto, l’ultima malia prima di calare il sipario definitivamente, ricordandoci che il rock ha una natura malinconica. Prima dell’epifania This Mortal Coil le cose non erano mai apparse così chiare, ma che importa: It’s only Melancholia (But I Like It).

 


 

LETTURE

× Fucile Gennaro, Se il logo è il disco. Storia di una leggenda, ilManifesto/Alias, 28 gennaio 2006.

× Kant Immanuel, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Bur, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2002.

× Keats John, Ode sulla malinconia, in Poesie, Utet, Torino, 1967.

× Reynolds Simon, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Isbn Edizioni, Milano, 2011.

 

ASCOLTI

× AA.VV., My Father Knews Sgt. Pepper, New Musical Express, 1988.

× Bowie David, Pin Ups, Emi/Virgin, 1999.

×  Mike Westbrook Band, Off Abbey Road, Enja, 1990.

× The Laibach, Let It Be, Elektra, 1997.

× The Residents, The Third Reich’n Roll, Mute, 2005.