LETTURE / IL CORAGGIO DELLA VERITÀ


di Michel Foucault / Feltrinelli, Milano, 2011 / pp. 368, € 35,00


La parresia e la verità minuscola dell'etica

di Livio Santoro

 

Ventotto marzo 1984, Michel Foucault tiene la sua ultima lezione al Collége de France. Venticinque giugno dello stesso anno, Michel Foucault interpreta una delle prime morti celebri causate dall’Aids. Per alcuni commentatori, le lezioni del suo ultimo corso, quelle che prendono il nome sensazionale de Il coraggio della verità, possono essere considerate come una sorta di testamento etico-filosofico dello studioso di Poitiers. Sorte simile tocca spesso all’ultima opera di ogni filosofo, come se fosse la morte a decidere un’eredità. È vero, Foucault aveva già tutto chiaro, tanto che impose con le sue ultime disposizioni che tutte le sue opere inedite e abbozzate, affastellate agli angoli della sua stessa scrivania, non fossero mai divulgate, restassero cioè un’idea per i lettori, un’interpretazione forse, o magari una serie di possibilità inespresse. Ma leggere un libro traendone l’importanza da un punto di vista brutalmente escatologico ne riduce probabilmente il valore, imponendo uno scarto essenziale tra le opere del prima e le opere del dopo. La morte, d’altronde, non è che un passaggio, come gli altri, di una qualsiasi biografia; l’ultimo, è vero, ma pur sempre un passaggio. Banalmente, come tutto il resto, anche la morte, con l’odore di zolfo che s’avvicina e l’indiscreto appetito dei vermi, modifica o contribuisce a modificare l’idea che si ha delle cose. O indirizza lo sguardo verso le cose di cui si vuole avere un’idea, questo è chiaro.

Certamente c’è però anche una necessità di ordine archivistico, al di sotto di tutto questo: la necessità dell’individuare e del settorializzare, dunque dell’ordinare i contributi anche di una sola ampia opera, come quella di Foucault. Sicché, tendenzialmente, quando sono altri a parlare di lui, capita di incontrare tre diversi Foucault, seppure questa partizione non è mai stata esplicitata con definitiva chiarezza: il primo e giovane Foucault fenomenologo, lo studioso di Ludwig Binswanger e delle anseatiche trame intrapsichiche dell’uomo sofferente; il secondo e maturo Foucault, quello del grande progetto genealogico e del Discorso; il terzo e saggio Foucault, quello del rivolgimento alla storia antica nel tratteggio della fuga del soggetto dalle costrizioni del Potere.

D’altra parte lo stesso Foucault, in uno dei suoi studi più citati, aveva sottolineato che un modo per mettere in ordine le cose deve pur esserci e che questa tendenza a sistemare i fatti, gli oggetti e gli eventi rispetta sempre una modalità di esecuzione di diretta derivazione storica, contestuale (Foucault, 1998a). Spesso è una modalità di esecuzione un po’ forzata, come quando per esempio s’è cercato di mettere Storia della follia nell’età classica (Foucault, 2011), La nascita della clinica (Foucault, 1998b) e Sorvegliare e punire (Foucault, 1993) nell’ampio calderone dello strutturalismo. Tuttavia, per quanto ci è dato sapere, diversamente non si può fare. Si può solo cercare di sbagliare il meno possibile, oppure di dare coerenza interna alla propria idea, alla propria arbitraria sistemazione delle cose.

Per tornare a noi, dunque, all’ultimo Foucault sopra descritto s’è chiesta un’eredità, e la si è trovata. Gliela si è estratta al modo in cui certi umani impertinenti estorcono stanche promesse ai loro amanti remissivi.

Frédéric Gros (il curatore del volume Il coraggio della verità), nella sua nota a chiusura del testo sostiene che, al di là dell’analisi storica specifica, in Foucault “il filosofo diviene colui che, attraverso il coraggio del suo dire-il-vero, fa vibrare, con la sua vita e la sua parola, il lampo di un’alterità”. Ecco l’eredità che ci è dato trarre dalle ultime parole di Foucault: il filosofo è colui che avendo il coraggio di porre al mondo (che poi può anche essere semplicemente il singolo interlocutore) la materia abbacinante dell’alterità, rifugge l’omologazione nell’unico, nel dogma. Così facendo si pone dalla parte della verità, della sua stessa verità, perché è in grado, non solo con le sue parole ma con la sua stessa vita, di farsi testimone aleturgico della vita. Aleturgia è in questo senso un termine chiave, che permette a Foucault di riconsiderare sotto un’altra luce il problema della Verità: non più quella Verità discorsiva descritta per esempio ne L’ordine del discorso (2001), bensì la verità proveniente dal soggetto, quella dell’etica; non più maiuscola, perché singolare e dichiaratamente mondana. L’aleturgia indica ciò che non è dissimulato, che non è nascosto, non solo perché individua la verità in sé (aletheia, in greco, è appunto verità), ma perché la individua in diretta connessione con la vita.

“La vera vita è […] la vita non dissimulata, che non nasconde nessuna parte di sé: chi la vive, infatti, non commette nessuna azione ignobile, disonesta, riprovevole; nessuna azione tale da suscitare la riprovazione altrui e da fare arrossire chi l’ha commessa. La vita non dissimulata è la vita di chi non arrossisce perché in essa non c’è nulla di cui arrossire”.

A testimonianza di questa verità Foucault, continuando la sua analisi della filosofia classica cominciata sistematicamente a partire dal secondo volume della sua Storia della sessualità (2008), ci porta ne Il coraggio della verità il ritratto di alcuni profili storici messi a testimonianza della verità: filosofi del passato che hanno collegato in maniera verrebbe da dire monastica il proprio pensiero alla propria prassi quotidiana, facendo filosofia con l’atto, oltre che con la predicazione.

Socrate innanzitutto, e in conclusione Epitteto. Ad accomunarli la vocazione alla parresia, a quel parlar-franco che mette in condizioni il buon amico e il buon consigliere di rischiare la propria stessa vita, avendo il coraggio di quanto si dice, perciò dicendo ciò che intimamente si pensa, al di là di tutte le costrizioni dell’educazione e della vita da subordinati, per il bene della comunità prima, dell’interlocutore singolo poi, e della verità stessa in sottofondo; dunque della vita. Verità, in questo senso, come massima misura della cura di sé.

Tra Socrate ed Epitteto, questi due testimoni di una filosofia così estrema (perché incarnata nelle pratiche), sta una figura maggiormente radicale, quella del filosofo che più di tutti ha connesso il suo singolare stile etico-estetico al suo pensiero speculativo (un pensiero in fin dei conti semplice, immediato e per questo, paradossalmente, poco approfondito dalla critica), alla sua verità: Diogene di Sinope, il Cinico, colui che ha vissuto come i cani, sfrontato e diretto come i cani. Come i cani, senza vergogna e al di là (non contro) della pubblica morale. Un uomo, ancor prima che un filosofo, connesso nel suo stile etico con la sua stessa verità. Come avrebbe poi detto Marco Aurelio, erede tardivo di una tradizione vicina a quella del cinismo, parlando non di Diogene ma dell’uomo in generale: “Non discutere più di come debba essere l’uomo per bene, ma siilo” (Marco Aurelio, 2006).

Ecco Diogene il Cinico, descritto dall’altro Diogene, l’archivista Laerzio; ecco la sua parossistica e irriducibile coerenza: “Si stupiva dei critici che andavano alla ricerca dei mali di Odisseo e ignoravano i propri, nonché dei musici, perché armonizzavano le corde della lira senza curarsi di ottenere l’armonia della loro anima. Si meravigliava dei matematici che guardavano al sole e alla luna e non vedevano la realtà sotto gli occhi, degli oratori che s’indaffaravano a predicare il giusto senza mai attuarlo, e dei retori che parlavano male degli avari, ma in realtà amavano il danaro all’esagerazione. Condannava anche coloro che, pur lodando i giusti perché erano al di sopra delle ricchezze, invidiavano tuttavia gli uomini molto ricchi. Lo muovevano a sdegno anche i sacrifici agli déi per la salute perché durante lo stesso sacrificio si banchettava a danno della salute” (Diogene Laerzio, 2005).

Per questa sua disposizione, Diogene di Sinope è un personaggio centrale ne Il coraggio della verità, pur non essendo il personaggio “conclusivo” del volume. È centrale perché in grado come nessun altro di testimoniare della determinazione che una vita filosofica (traducendo il suo impianto speculativo in un insieme di pratiche singolari) ha nel definirsi in un’etica: non una traduzione teorica, dunque.

Ossia: che il filosofo sia filosofo ancor prima del pensiero, negli atti, nella condotta, nella sua disposizione etica. Non a caso Diogene il Cinico (d’altronde allo stesso modo di Socrate, come detto altro grande protagonista de Il coraggio della verità) non ha scritto nulla di suo pugno, non ha lasciato opere su carta ma ha semplicemente condotto un’etica, rispettandola in maniera cieca, determinata e sfrontata; raccontando a tutti della sua stessa verità. A questa etica e a questo racconto ha affidato il suo insegnamento. Lo ha fatto sfidando gli uomini del comando, dichiarando i loro errori, e non avendo bisogno che di questo: la propria verità.

Dunque si ritorni adesso alla dichiarazione iniziale, la separazione dei tre Foucault e la necessità della sistemazione coerente di tutti i contributi di ogni periodo del filosofo. Qui proviamo a fare il contrario e, volgendo lo sguardo alla produzione precedente di Foucault, supponiamo una sostanziale continuità interna della sua opera. Una continuità che collega il filosofo, il Cinico in questo caso, a un altro personaggio dalle simili sembianze. In altri termini Foucault, in un modo certamente meno diretto, aveva già individuato nel suo passato di studioso un altro protagonista della storia che, come il filosofo parresiasta, parla in diretta connessione con la sua stessa verità. È il protagonista iniziale di quel secondo Foucault di cui sopra abbiamo già parlato (per certi versi è anche protagonista del primo Foucault).

Il folle. Un escluso, che come il cinico vive ai margini. Un marginale, che come il filosofo mette l’interlocutore davanti all’alterità. Un parresiasta, che vive con la sua stessa etica il peso di quanto crede (e che all’inverso, contemporaneamente, vive quanto crede).

La filosofia, in quest’ottica, appare allora come una disposizione esistenziale, come un tratto caratteristico di uno stile etico-estetico e, nel suo rivolgimento alla verità singolare (similmente fa la follia), si smarca da qualsiasi appartenenza a un ordine discorsivo e disciplinare. Nella sua versione singolare, cioè, la filosofia si svincola dalle sue formulazioni veritative maiuscole, rivolgendosi all’interno della soggettività (o di ciò che abbiamo imparato a chiamare con questo nome).

È una parentela, questa tra il filosofo e il folle, che si fa forte del coraggio della verità, a rischio anche della vita, come estrema cura di sé, come lotta per la propria soggettività (Fimiani, 1997; Santoro, 2011) e imposizione dell’alterità – con Deleuze (2002) potremmo dire della metamorfosi, della variazione e della differenza –, come estremo rivolgimento della soggettività verso la verità, quella minuscola, quella di ogni singolo uomo.

 


 

LETTURE

× Deleuze Gilles, Foucault, Cronopio, Napoli, 2002.

× Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Vol I, Laterza, Roma-Bari, 2005.

× Fimiani Mariapaola, Foucault e Kant. Critica clinica etica, La Città del Sole, Napoli, 1997.

× Foucault Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993.

× Foucault Michel, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1998a.

× Foucault Michel, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino, 1998b.

× Foucault Michel, L’ordine del discorso, in Il discorso la storia la verità, Einaudi, Torino, 2001.

× Foucault Michel, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano, 2008.

× Foucault Michel, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 2011.

× Marco Aurelio, Pensieri, Mondadori, Milano, 2006.

× Santoro Livio, La sofferenza individuale come soglia di soggettivazione. Il riassestamento dell’asimmetria psichiatrica, in Quaderni di Sabbia, n. 1, ottobre 2011.