LETTURE / LA LUNGA OSCURA PAUSA CAFFÈ DELL'ANIMA


di Douglas Adams / Mondadori, Milano, 2011 / pp. 280, € 10,00


Se anche Dio (o Odino) si prende
'na tazzulella 'e cafè

di Roberto Paura

 

“Anticamente, nelle nebbie dei tempi più remoti, nei grandi giorni gloriosi dell’ex Impero Galattico, la vita era selvaggia, aspra e forte, e in gran parte esentasse”: così raccontava Douglas Adams nella sua Guida galattica per gli autostoppisti. Certo, i bei tempi andati ci sembrano sempre migliori, e ancora più fascino hanno i “tempi antichi”, quelli degli dei, sempre impegnati a gozzovigliare e fornicare, si chiamassero Zeus o Ares, Odino o Thor. Nulla a che vedere con i musi lunghi del nostro pantheon monoteista. Ma, soprattutto, la vita all’epoca era esentasse. Nessuna divinità era costretta a compilare la dichiarazione dei redditi. E che cosa succederebbe allora, si chiede Adams, se il dio Thor, intenzionato a raggiungere la Norvegia, suo paese natio, si ritrovasse al banco del check-in a spiegare a un’ottusa hostess che il passaporto proprio non l’ha con sé? Probabilmente, l’iracondo dio dal martello facile scatenerebbe il finimondo. Proprio così inizia La lunga oscura pausa caffè dell’anima, secondo romanzo del ciclo che ha per protagonista Dirk Gently, l’investigatore “olistico”, di cui finora Mondadori aveva pubblicato il solo primo volume, decidendosi ora a ben dieci anni dalla prematura scomparsa dell’autore a pubblicare anche il secondo. Forse Adams, inglese fino al midollo, rabbrividirebbe di fronte alla singolare traduzione italiana del titolo. In effetti, in originale c’è un tea-time, la britannicissima “ora del tè”, al posto della pausa caffè del nostro titolo. Ma, per una volta, non c’è bisogno di lanciare strali contro il libertinaggio degli editori italiani nella resa delle opere straniere: la pausa caffè dà del resto una precisa idea di cosa questo singolarissimo romanzo voglia in realtà dire. Perché, dopo tutto, nella nostra epoca disincantata, de-sacralizzata, laicizzata, sembra davvero che l’anima sia andata a prendersi un bel caffè, lasciandoci soli nel nostro materialismo. Un mondo davvero ostile per quelle divinità che volessero dimostrare di essere ancora vive e vegete, si tratti di Cristo pronto per la sua sempre attesissima Seconda Venuta o di star ormai dimenticate come il vecchio Odino e gli altri dei del pantheon norreno.

Sono questi ultimi i protagonisti del romanzo di Douglas Adams, con i quali l’originale detective inventato dalla fervida penna dell’autore della Guida galattica deve fare i conti in una serie di situazioni surreali che alla fine si scopriranno essere tutte legate, intrecciate tra loro, come vuole la filosofia olistica di Dirk Gently, che si definisce appunto un “investigatore olistico”. Ogni apparentemente insignificante dettaglio della realtà può essere ricondotto a qualcosa, è l’idea alla base del ragionamento di Gently. Perciò, i casi più curiosi che si trova ad affrontare possono essere risolti solo accettando il fatto che esiste una “fondamentale interconnessione tra tutte le cose”, tale per cui il più innocuo e irrilevante dettaglio possa infine illuminare quella verità sfuggita a tutti gli altri. Come e più che nel precedente Dirk Gently, agenzia di investigazione olistica, il filo conduttore dei diversi episodi, apparentemente scollegati, che costituiscono la trama, oscilla tra il mondo del razionale e quello dell’incredibile. Un omaggio, senz’altro, al più celebre dei detective, Sherlock Holmes, e alla sua celeberrima massima secondo la quale “una volta eliminato l’impossibile, quel che resta, per quanto improbabile che sia, dev’essere la verità”. Gently, con l’improbabile, ma anche con l’impossibile, è abituato ad avere a che fare. L’olismo stesso, del resto, è un’ipotesi filosofica a metà strada tra l’improbabile e l’impossibile: per alcuni vera e propria pseudo-scienza, per altri intrigante metodologia di pensiero, l’olismo sposato da Gently è lo stesso teorizzato dal fisico David Bohm, il sostenitore dell’universo “olografico” secondo cui la mente, l’uomo e l’universo sarebbero un unicum, concetto questo eretico nei confronti di un scienza sempre ben attenta a separare spirito e natura, come vuole la modernità, frutto secondo Bruno Latour proprio di una “grande divisione” tra questi due elementi (Latour 1995).

Ecco quindi che nel nostro razionalissimo mondo moderno irrompe l’impossibile. Quando Dirk legge sul giornale dell’improvviso cedimento strutturale – senza alcuna causa – del soffitto di un aeroporto londinese, quasi non ci fa caso. Eppure, la circostanza ha dell’incredibile: “Si sarebbe detto che fosse avvenuta spontaneamente, di sua propria volontà. Qualcuno avanzò delle ipotesi, ma si trattava per lo più di perifrasi in cui si esprimeva lo stesso concetto con parole differenti, secondo gli stessi principi che hanno regalato al mondo il concetto di «fatica del metallo». Anzi si inventò una locuzione simile per indicare l’improvviso passaggio di materiali quali legno, metallo, plastica e cemento a una condizione esplosiva, e cioè una «catastrofica esasperazione strutturale non lineare» o, per dirla con l’espressione che un ministro usò la sera dopo alla televisione e che lo avrebbe perseguitato per tutto il resto della sua carriera, il banco del check-in «si era sostanzialmente stufato di stare dov’era»”. Al lettore, gradualmente, appaiono i punti di contatto tra quest’episodio introduttivo e il caso che Dirk Gently si ritrova suo malgrado a dover risolvere, un tipico “enigma della camera chiusa” apparentemente irrisolvibile, un topos del genere poliziesco. Un macabro delitto che gli inquirenti vogliono sbrigativamente liquidare come suicidio: “Finestre con sbarre di due centimetri di diametro… Porta chiusa dall’interno con chiave ancora nella serratura. Barricata di mobili contro la porta. Portefinestre della veranda chiuse con catenacci. Nessuna traccia di scasso”, spiega a Dirk il collega Gilks. Il detective olistico non è convinto, ma alla fine preferisce sbarazzarsi della concorrenza proponendo una fantasiosa spiegazione di come possa essere avvenuto il suicidio. Una spiegazione “che comprendeva un certo numero di arnesi da cucina o comunque domestici, un lampadario in oscillazione munito di contrappesi e un calcolo dei tempi estremamente preciso incentrato sul fatto che il giradischi era di marca giapponese”. Una spiegazione, insomma, del tutto improbabile, ma sempre migliore di quella, davvero impossibile, suggerita da Dirk: e cioè “che il defunto avesse stretto una specie di patto diabolico con qualche entità soprannaturale venuta a riscuoterne il pagamento”.

In effetti, Dirk propende per quest’ultima, impossibile spiegazione, piuttosto che per l’altra, ugualmente impossibile ma apparentemente razionale, accettata dagli inquirenti per chiudere il caso. L’incidente al banco del check-in e l’omicidio nella camera chiusa sono accomunati dalla stessa assoluta improbabilità, la stessa che alimenta il Motore ad Improbabilità Infinita con il quale l’astronave Cuore d’Oro nella Guida galattica riesce a schizzare nell’iperspazio: un concetto, quello del connubio improbabilità/impossibilità, che piace molto ad Adams. E qui arriviamo al nocciolo della questione, a quella famosa massima di Arthur C. Clarke secondo cui “qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia” (Clarke 1958). Nel mondo ipertecnologico e disincantato in cui viviamo, la magia si è trasformata in tecnologia, e per gli dei e le divinità delle leggende e dei miti antichi sembra non esserci più spazio. Thor, finita di scontare una penosa penitenza comminatagli dal padre Odino nel Galles, è pronto a far ritorno ad Asgard, la dimora degli dei, in Norvegia, ma è costretto a dover prendere un maledetto aereo. Verrebbe da chiedersi perché Thor non faccia uso dei suoi noti superpoteri, per adattare una frase divenuta famosa nella fantascienza, quella proferita dal capitano Kirk in Star Trek: l’Ultima frontiera al Dio impostore che chiede di poter viaggiare a bordo dell’Enterprise: “Cosa se ne fa Dio di una nave spaziale?”. Ebbene, se il mondo non crede più in Thor egli stesso ha difficoltà a usare i suoi superpoteri, perché nessuno ci crede più. A meno che non gli si faccia perdere le staffe, come sembra riuscirci davvero bene l’addetta al check-in di fronte alle fiere dichiarazioni del dio norreno, il quale sostiene di non possedere prenotazione, carta di credito, conto corrente, libretto degli assegni e, quel che è peggio, passaporto o carta d’identità.

A qualcuno l’idea ricorderà prepotentemente il romanzo-cult di Neil Gaiman, American Gods (2003), vincitore del Premio Hugo come miglior romanzo di fantascienza. E in effetti non è difficile rendersi conto che Gaiman ha attinto a piene mani dal plot di Adams. In American Gods, il vecchio dio Odino, che si nasconde dietro fattezze umane (si fa chiamare Wednesday, “Mercoledì”), tenta di riunire le vecchie divinità ormai dimenticate, molte delle quali emigrate come tanti negli Stati Uniti, dove tuttavia devono fare i conti con nuovi e potenti rivali: “Gli dèi delle carte di credito e delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e dell’ospedale e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon”. Curiosamente, proprio Odino è il co-protagonista di entrambi i romanzi. In quello di Adams, si fa chiamare Odwin ed è un vecchio ospite di una clinica psichiatrica. Gli infermieri che se ne prendono cura pensano si tratti di una vecchia star del cinema, o di un gerarca nazista, e non sospettano affatto che dietro le rassicuranti fattezze del signor Odwin si celi invece una potente divinità.

La clinica Woodshead dove si trova Odino è uno dei tanti non-luoghi in cui si svolgono le vicende del romanzo di Adams. Un altro è l’aeroporto dove avviene il primo inspiegabile incidente. È il non-luogo per eccellenza, secondo Marc Augè, che per primo ha teorizzato questi peculiari spazi della modernità: com’egli ha scritto, “i non-luoghi rappresentano l’epoca; ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra superficie, volume e distanza – le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali” (Augè, 2005). Sono, i non-luoghi, i templi della nostra modernità, che sostituiscono gli spazi sacri delle società pre-moderne, luoghi, quelli sì, per eccellenza: luoghi in cui l’umano e il sacro s’incontrano. Non è un caso se quindi Adams fa rifugiare Odino in una clinica psichiatrica, simbolo di una modernità dove lo “scemo del villaggio” viene nascosto per non incrinare la tenuta della società, e non è un caso se la porta dimensionale che unisce il nostro mondo a quello del Walhalla si apre all’interno di una stazione ferroviaria, quella di St. Pancreas. Del resto anni dopo, un’altra scrittrice inglese, J.K. Rowling, avrebbe di nuovo usato una stazione ferroviaria londinese – quella di King’s Cross – come porta dimensionale tra il mondo dei maghi e quello dei Babbani.

Quando Kate giunge a Heathrow, incontrando per caso (ma, nel mondo olistico di Adams, nulla è un caso) il dio Thor sotto mentite spoglie, riflette proprio sulle peculiari proprietà degli aeroporti: “La bruttezza degli aeroporti”, spiega Adams “dipende dal fatto che sono pieni di gente stanca e di pessimo umore che ha appena scoperto che i propri bagagli sono sbarcati a Murmansk (l’aeroporto di Murmansk è l’unico che fa eccezione a questa regola altrimenti infallibile), e gli architetti per lo più si sono sforzati di riflettere questo stato d’animo”. Avviene qui una frattura della modernità: è quel che succede, appunto, quando il viaggiatore scopre che i suoi bagagli sono altrove, e che la tecnologia dopotutto è fallace. L’incanto tecnologico viene meno, come davanti a un prestigiatore che perde gli assi taroccati dalla manica in cui li teneva nascosti. Ed è in queste fratture della modernità che è possibile incontrare di nuovo quelle divinità che abbiamo relegato ai margini. Odino, Thor e gli altri dei del Walhalla fanno capolino, pronti a recuperare il loro potere perduto. Non è un caso se negli aeroporti troviamo sempre una cappella dove pregare, e a volte anche spazi pluri-confessionali: un trend che si sta imponendo anche nelle principali stazioni ferroviarie. Quando Kate, la co-protagonista del romanzo, giunge nella clinica di Woodshead, l’inquietante direttore le fa fare un giro tra i pazienti ricoverati. Sono tutti veri e propri casi umani, dotati di strani poteri, che il razionalissimo direttore liquida come “curiosi”, rigettando l’ipotesi paranormale. È meglio credere nell’improbabile piuttosto che nell’impossibile, è di nuovo la tesi che emerge e che sembra divertire molto Douglas Adams. Nel caso di un paziente che sostiene di essere in contatto mentale con Dustin Hoffman, e che ripete le sue stesse parole nel momento stesso in cui l’attore le proferisce in un’altra parte del mondo, il direttore preferisce credere che sia una mera coincidenza il fatto che, messo davanti a una tv in cui Hoffman, in diretta, sta parlando, il paziente anticipi di qualche secondo le parole dell’attore, piuttosto che credere alla presenza di un vero fenomeno paranormale. Allo stesso tempo, le infermiere della clinica preferiscono ignorare gli strani atteggiamenti del signor Odwin, piuttosto che credere di avere a che fare con un paziente davvero fuori dall’ordinario.

La scena-chiave è tuttavia a metà del romanzo, quando Dirk Gently entra in un negozio e decide di acquistare una scassata versione elettronica dell’I Ching. Per un investigatore olistico, il fascino del famoso oracolo cinese è irresistibile. I suggerimenti criptici che sembra dare possono essere fatti rientrare nel complesso concatenarsi di verità che regge il nostro mondo, secondo la filosofia di Dirk. L’I Ching riassume in sé quella “grande divisione” che ha fondato la modernità. Come spiega Erik Davis, “l’I Ching funziona come una sorta di personal computer: un libro binario di simboli organici che può sfidare un Sistema ostile al tao. Poiché, sebbene legato ai canovacci analogici dell’anima, l’I Ching è, alla radice, un sistema digitale, i cui sottostanti motivi numerici sono familiari ad ogni hacker” (Davis, 2001). Questo incontro/scontro tra spiritualismo e modernizzazione, riassunto nell’immagine di Dirk Gently che cerca di farsi guidare dalle nebulose indicazioni dell’oracolo cinese trasposto in una calcolatrice, riassume un po’ tutto il senso del romanzo. Adams sembra ricordarci, in quella scena, che la risposta alla domanda sulla vita, l’universo e tutto quanto resta sempre “42”, come affermava convinto il supercomputer Pensiero Profondo nella Guida galattica, e che, davvero, l’anima si è presa una bella, lunga pausa caffè.

 


 

LETTURE

× Adams Douglas, Guida galattica per gli autostoppisti, Mondadori, Milano, 1999.

× Adams Douglas, Dirk Gently. Agenzia di investigazione olistica, Rizzoli, Milano, 1989.

× Augè Marc, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 2005.

× Clarke Arthur C., Profiles of the Future. An Inquiry into the Limits of the Possible, Harper&Row, New York, 1958.

× Latour Bruno, Non siamo mai stati moderni, Eleuthera, Milano, 1995.

× Davis Erik, Techgnosis. Miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, Ipermedium, Napoli, 2001.

 

VISIONI

× Shatner William, Star Trek V - L’Ultima Frontiera, Universal Pictures, 2011.