LETTURE / RINNOVATE I PASSAPORTI


di Raffaele Auriemma / Graf, Napoli, 2011 / pagine 128, € 9,90


La passione e l'identità nel calcio
e nella sua epica

di Luca Bifulco

 

Non è insolito constatare, sulla scorta dei suggerimenti di Alain Ehrenberg, come le storie legate allo sport abbiano di frequente la fisionomia dell’epopea (Ehrenberg, 1992). Parliamo dunque di racconti che fanno delle imprese narrate, della loro trasmissione e del loro suggestivo ricordo un collante fondamentale per l’identità e l’appartenenza di una collettività qualsiasi.

In questa scia si inscrive lo sforzo narrativo di Raffaele Auriemma, giornalista capace di foraggiare la passione del tifo napoletano con le sue telecronache in diretta. Ora, con il suo libro Rinnovate i passaporti, egli lascia al supporto cartaceo il compito di costruire una memoria duratura, presumibilmente con la sottesa ambizione di offrire un sostegno alla continuità nel tempo del senso identitario di una comunità di appassionati e tifosi. Vi si narra nel dettaglio, partita dopo partita, di una stagione calcistica – quella del 2010/2011 – piuttosto densa di emozioni, e del soddisfacente campionato della squadra partenopea culminato con un’auspicata e attesa qualificazione alla Champions League.

I toni sono quelli tipici dell’epica: si susseguono senza sosta momenti trionfali, picchi drammatici, epiloghi fastosi o, più di rado, sfortunati. Il racconto di ogni partita è inoltre spesso integrato da alcune delle frasi più evocative con cui Auriemma ha tornito dal vivo le sue telecronache. E non manca la trascrizione degli incipit dagli accenti letterari, e colmi della retorica dell’appartenenza e del racconto eroico, con cui il giornalista suole cominciare i suoi commenti televisivi. Un espediente oratorio capace di nutrire il trasporto emotivo e di incentivare il sentimento di unità dei supporter. La narrazione complessiva, che cerca dunque di coniugare le spesso opposte istanze dell’esposizione orale via etere e della storia scritta, mantiene una chiara vitalità. E, soprattutto, ci suggerisce diverse riflessioni.

In primo luogo, è utile comprendere il meccanismo che rende il racconto – quello di Auriemma come quello di ogni buon cantore del calcio – un pilastro delle forme di identificazione collettiva che lo sport favorisce. In definitiva, è proprio nella narrazione capace di stimolare e propagare una solida effervescenza condivisa che si appoggia quel forte impianto di affermazione identitaria che lo sport compone. Una partita di calcio, che già di per sé ha una sua naturale trama piena di fascino, si eleva così, in virtù della retorica che la avvolge, a vivace forma drammaturgica ritualizzata.

L’incontro diviene teatro di una lotta simbolica, un combattimento dove la posta in gioco è il trionfo alimentato da una sorta di morte figurativa dell’avversario. La virtù, la fortuna, perfino la furbizia diventano ingredienti centrali dello spettacolo, il discrimine tra la gloria e la disfatta, che la narrazione sottolinea portandone alla luce il vigoroso corredo emotivo. È presumibile, e prendiamo a prestito una formulazione di Desmond Morris, che entrino in gioco quelle componenti arcaiche che strutturavano i riti o la caccia dei nostri antenati, e che ora sembrano trasferirsi nella ritualità della partita di calcio: il pericolo, la forza, il coraggio, l’applicazione, la creatività, la strategia, la collaborazione, la corsa, la capacità balistica, la motivazione, la resistenza (Morris, 1982). Insomma, c’è un coefficiente primordiale che ispira la competizione tra i ventidue giocatori in campo.

D’altronde, non si può non pensare a Eduardo Galeano, che pure sembra scovare in quella “guerra danzata” a cui il calcio dà vita una sorta di archetipo originario. Egli scrive con il suo tipico e spesso impareggiabile frasario: “Nel calcio, rituale sublimazione della guerra, undici uomini in pantaloncini corti sono la spada del quartiere, della città o della nazione. Questi guerrieri senza arma né corazza esorcizzano i demoni della folla e ne confermano la fede: a ogni confronto tra due squadre entrano in gioco vecchi odi e amori trasmessi in eredità dai padri ai figli” (Galeano, 1997, p. 18).

Insomma, modalità esistenziali ed espressive primigenie si fondono e danno vita a forme rituali, che tramite la propagazione e la condivisione dell’energia emotiva creano l’humus per l’affermazione della solidarietà di parte (in merito all’indispensabilità sociale del meccanismo del rituale, cfr. Collins, 2004). Quella, per intenderci, che si nutre anche della rivalità, dell’opposizione nei confronti di un avversario. E in tutto ciò la narrazione funziona da puntello fondamentale, costruzione portentosa dei significati e delle tonalità emozionali con cui si dà senso alla realtà, con cui si ordisce la trama della propria identità, con cui si allestisce la propria mappa cognitiva del mondo. Ecco, allora, che la retorica del racconto sportivo, come quello elaborato da Auriemma, acquisisce un ruolo ineludibile. Essa struttura l’idea di un destino condiviso che accomuna squadra e tifosi, una vera propria communitas coesa, spiritualmente unita, all’apparenza naturale – in fondo, la fede per la propria compagine viene percepita come qualcosa di misterioso, inattaccabile, immutabile nel tempo. D’altronde, ogni partita di calcio ha già per sua natura – parafrasando Vladimir Dimitrijević – il potere di instaurare una magica comunione tra atleti e pubblico, che sono partecipi dello stesso evento incantato (Dimitrijević, 2000). Una bella narrazione non può che aggiungervi pathos, e magari mistero o impenetrabile trasporto. A maggior ragione, allora, se la propria partigianeria può dar sfogo all’entusiasmo e alla balsamica identificazione con una collettività capace di arricchire il senso del proprio sé.

E, al fondo, sarà vero che lo stile di gioco della propria squadra, il carattere dei suoi giocatori diventano il nucleo essenziale che rappresenta lo spirito della comunità a cui si appartiene (Bromberger, 1999). Ecco, dunque, che la giovane esuberanza, l’ardimento giocoso, lo spavaldo estetismo, la volontà ferrea dei vari Lavezzi, Hamsik o Cavani diventano i capisaldi dell’autorappresentazione dell’intera collettività dei tifosi. Ed è questo il modo in cui tali campioni vengono raffigurati, consentendo, a chi si nutre di quei racconti, di riconoscersi e sentire la partecipazione ad uno spazio simbolico e ad un’indole che si pensa condivisa. È questa, in definitiva, la cultura degli eroi che anima lo sport, sebbene possa trattarsi di un eroismo alla portata di uomini comuni più che di divinità del tutto inaccessibili (Ehrenberg, 1992).

È utile riflettere sul motivo di una simile efficacia di tale tipologia narrativa. Ancora una volta bisogna trovare un aggancio con un che di originario: la struttura e l’impianto tematico del racconto mitico. Trame, dunque, che con la ricorsività di temi piuttosto universali – dalle forme dei conflitti al complesso incastro di desideri, ostacoli sociali, pulsioni, ecc. – sembra vogliano costruire un ordine simbolico tale da garantire un significato trascendente all’esistenza umana, con tutta la sua inafferrabile quotidianità e le sue arcane contraddizioni (Vernant, 2000). E allora il cantore si fa portavoce del sapere di una collettività, della propria auto-comprensione, e diviene strumento di un legame sociale supportato dalla condivisione di senso ed effervescenza emozionale.

Il ritorno costante di queste radici mitiche infonde, in buona sostanza, il lavoro di Auriemma. E, sebbene ogni partita sia storia a sé, non sfuggirà, per l’appunto, come sia proprio una sorta di eterno ritorno di temi originari a conferire solidità di significati e di partecipazione emotivamente piena. Certo, la letteratura smarrisce un po’ l’impatto della trasmissione orale, che rende il racconto vivo, lo arricchisce delle potenzialità emozionali della voce incarnata, con i suoi ritmi e i suoi toni, e ne caratterizza la polisemia attenta alla varietà dei pubblici. Non dimentichiamo, però, che il punto di partenza è qui rappresentato dalle pulsanti telecronache, dal loro continuo susseguirsi, dal legame di significati e accenti affettivi che le unisce.

È altresì vero che proprio il real time della comunicazione televisiva non rappresenta forse il contesto migliore per alimentare il mito e la memoria. Siamo nell’epoca dei media elettronici, dove il flusso di informazioni, immagini, sollecitazioni che si scalzano a vicenda è talmente rapido da rendere difficoltoso il persistere di contenuti, il loro solido radicarsi. Ma proprio per questo simili tentativi di dare un sostrato mitico alla nostra esistenza colgono spesso il naturale favore di individui ormai avidi di appigli identitari.


 

LETTURE

× Bromberger Christian, La partita di calcio. Etnologia di una passione, Editori Riuniti, Roma, 1999.

× Collins Randall, Interaction Ritual Chains, Princeton University Press, Princeton and Oxford, 2004.

× Dimitrijević Vladimir, La vita è un pallone rotondo, Adelphi, Milano, 2000.

× Ehrenberg Alain, Il vicino della porta accanto o l’epopea dell’uomo comune, in Lanfranchi Pierre, Il calcio e il suo pubblico (a cura di), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992.

× Galeano Edoardo, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer, Milano, 1997.

× Morris Desmond, La tribù del calcio, Mondadori, Milano, 1982.

× Vernant Jean-Paul, L’universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, Einaudi, Torino, 2000.