VISIONI / CENTO PASSI PER LA LIBERTÀ


di Marco Rossano / Web Art Communications, Marco Rossano / Sociologia visuale dell'Università di Barcellona, 2011


I passi verso la libertà? Basta non farli in cerchio

di Domenico Maddaloni

 

Le scene di festosa e massiccia partecipazione alla campagna elettorale che ha di recente condotto Luigi De Magistris alla carica di sindaco di Napoli, e che ci vengono presentate nel video documentario di Marco Rossano Cento passi per la libertà, sembrano voler ricordare – lo ha detto proprio il sindaco dal palco eretto in piazza Municipio per festeggiare la vittoria – che al tempo di Internet la politica “si può fare anche senza mezzi”, se si dispone delle idee e dell’immagine in grado di risvegliare l’emozione politica di quelle minoranze attive che secondo Moscovici (1981) si rivelano fondamentali per il successo di un movimento di protesta o di proposta. Ed effettivamente De Magistris è riuscito a presentare, anche e soprattutto per mezzo della Rete e di meccanismi spontanei ed orizzontali di diffusione dell’informazione che in questa si possono attivare, un nucleo di idee ed un’immagine di sé che proponevano con chiarezza un’alternativa per un’opinione pubblica rassegnata all’alternanza tra un centrosinistra ormai screditato a livello locale e un centrodestra che lo è almeno altrettanto a livello nazionale. Ciò sembra avere rappresentato un potente fattore di attrazione e di aggregazione politica per quegli strati sociali, i “ceti medi riflessivi” (Ginsborg, 1998), che la crisi economica e la politica governativa spingono sempre più verso la precarietà del lavoro e della vita. Strati sociali nel cui ambito i giovani si presentano – ma questa non è affatto una novità – come un’avanguardia, la parte che più di altre è pronta a cogliere l’innovazione che sembra restituire senso al futuro, per rilanciarla sulla scena sociale e politica cittadina e nazionale.

In termini soggettivi, il movimento di massa che ha accompagnato la campagna elettorale e la vittoria di De Magistris sindaco è apparso, lo dicono o lo adombrano le testimonianze del video documentario di Rossano, come la rivelazione di una potenzialità che andava colta. La società napoletana del 2011 è, nella narrazione come del resto nella realtà, uno sfacelo dominato dall’alleanza neanche tanto occulta tra politici, camorristi, imprenditori – Gomorra (Saviano, 2006) lo ha mostrato a tutto il mondo: una realtà malata in cui i cumuli di immondizia lungo le strade si presentano come metafora perfetta di un veleno che pervade ed inquina la vita quotidiana di tutti; una sfera pubblica in cui più niente funziona e tutto procede nell’inerzia, nell’incuria, in un abbandono che diviene il teatro ideale per scontri, regolamenti di conti, compromessi tra comitati d’affari all’insegna del profitto privato e del crescente degrado pubblico. Insomma, la scena ideale per la comparsa di un possibile leader, il cui carisma consenta di far sorgere un movimento sociale in grado di traghettare, con la forza dell’entusiasmo (il video di Rossano lo registra puntualmente, mostrandoci lo stesso De Magistris che sprona i suoi elettori al grido “basta con la depressione”), della tensione ideale, della serietà dei suoi comportamenti, e con la sua capacità di proselitismo, la società in direzione di lidi più dignitosi e sicuri, se non verso un “altrove” che rechi le stimmate dell’utopia. A partire dalla lezione di Max Weber un grande numero di scienziati sociali, dei quali i più noti al pubblico italiano sono forse ancora oggi Alain Touraine (1988) e Francesco Alberoni (1977), si è rivolto allo sviluppo di una sociologia dei movimenti collettivi che ha indubbiamente aumentato la nostra conoscenza di questi fenomeni.

Qui tuttavia non si intende proporre un’analisi degli aspetti formali dell’affermarsi di forme di azione collettiva di fronte ad un’autorità politica ritenuta incapace di ottemperare alle sue responsabilità nei confronti del “popolo”, in generale, e di alcuni strati sociali che fungono da fulcro della protesta e da fonte di un nuovo ceto di dirigenti politici, in particolare. Altri studiosi hanno adempiuto a questo compito in maniera egregia - ad esempio Charles Tilly (2002). La domanda che qui stimola il nostro interesse si riferisce ad un dato del quale i giovani che hanno partecipato con entusiasmo alla campagna per De Magistris sindaco non sono, probabilmente, affatto consapevoli. Queste manifestazioni di impegno e di mobilitazione della primavera 2011, e con esse la sensazione diffusa di stare contribuendo ad un grande e positivo cambiamento per le sorti della decaduta ex capitale del Mezzogiorno, le abbiamo già viste. Diciotto anni fa, nel 1993, all’epoca in cui Antonio Bassolino era il nuovo che avanzava contro la corrotta partitocrazia del pentapartito napoletano travolta da Tangentopoli e dalle inchieste sulla collusione tra politica e camorra. E ancora diciotto anni prima, nel 1975, quando alla destra, che “era per l’ordine”, ai seguaci di Lauro e di Almirante, si sentiva dire che “i Turchi stanno per entrare in Municipio”: ed effettivamente ci entrarono, con Maurizio Valenzi, e anche allora, scavando, facilmente “trovarono merda”, come ebbe a dire un esponente della prima giunta di sinistra della città.

Di diciotto anni in diciotto anni, i cicli della politica napoletana si sono ripetuti già per due volte. La mobilitazione attiva e consapevole; gli inizi di un’azione amministrativa che si sforza di marcare una discontinuità rispetto al passato; le resistenze della burocrazia pubblica e dei gruppi politici e imprenditoriali legati alla “vecchia gestione”; le ingerenze di Roma; il graduale adagiarsi in un’ordinaria amministrazione all’ombra della quale si restaurano liaisons e si riprendono comportamenti che ci si proponeva di far scomparire; la delusione che si impadronisce di chi ci aveva creduto e che giura che non voterà più; i compromessi che si fanno sempre più numerosi; la fine ingloriosa di una classe politica che affonda nell’indifferenza, quando non nel disprezzo di nemici ed ex sostenitori. Non mancano, ovviamente, le diversità tra i due cicli – per esempio tra la retorica del “governare dall’opposizione” che maschera il consociativismo e la subalternità al pentapartito dei dirigenti comunisti, e la sempre più attiva inclusione nei comitati d’affari del personale di un partito democratico che fino all’ultimo ha tenuto il controllo dei gangli vitali dell’economia, della società e persino della cultura napoletana (Scotto di Luzio, 2008). Ma nelle linee essenziali la parabola è la stessa: ben lontana, crediamo, da quel ciclo felicità pubblica/felicità privata che Hirschman (2003) immagina legato ai successi, e non ai fallimenti, dell’impegno militante.

Piuttosto essa ricorda le onde lunghe della vicenda sociopolitica nazionale che vengono descritte da Carlo Tullio Altan (2000), per il quale questa vicenda – che si esprimerebbe in forme ancora più crude nelle regioni del Mezzogiorno – sarebbe dominata dalla diffusione di una sindrome, l’arretratezza socioculturale, emersa all’epoca dell’inclusione del nostro Paese in una posizione subalterna e dipendente nel sistema economico e politico globale che si delineava agli inizi dell’età Moderna. Una sindrome consistente in una “non etica” che separa rigidamente la sfera privata, oggetto privilegiato dell’azione in senso sia affettivo che strumentale – da cui la pratica e la retorica della famiglia, anche come impresa – e la sfera pubblica, campo di battaglia tra fazioni tenute insieme dall’interesse, e che è collegata alla precedente soltanto da rapporti di amicizia strumentale – da cui l’usanza antica del comparaggio e quelle invece perduranti del clientelismo e del trasformismo. In un simile contesto, prosegue Altan, l’azione collettiva è possibile soltanto se il ceto che detiene l’autorità politica non è in grado di attuare la strategia di repressione e cooptazione con la quale può spegnere la protesta. E se esiste uno strato di “Giovani Turchi” che esprima, con violenza ed ideologie di esclusione, la propria aspirazione a condividere il potere, o che – all’opposto – si riveli capace di mobilitare le masse con parole d’ordine di rinnovamento locale o nazionale. Il primo caso, dice Altan, è rappresentato, nella vicenda politica del nostro Paese, dal continuo risorgere del fascismo – di un atteggiamento ribelle e anarchico, ma pronto a diventare autoritario e violento nei confronti di chi si oppone ed è più debole – nei movimenti estremisti di qualsiasi colore. Invece il secondo caso, se non si limita al sogno impotente di un altrove predicato da gruppi di intellettuali, può in alcune circostanze critiche – il 1861, il 1945 – tradursi in una nuova classe dirigente e in un “nuovo inizio” della vita politica italiana: un nuovo inizio che finirebbe tuttavia sempre vanificato dal diffondersi dei portatori dell’arretratezza socioculturale tra i ranghi dell’élite.

Se dessimo credito alla lettura di Altan, i cicli attraversati dalla politica napoletana non rappresenterebbero allora che un esempio eclatante dell’eterno ritorno di una sindrome culturale che ci identifica e ci rende diversi, come nazione, dagli altri popoli dell’Europa. Ma allora anche il ceto dirigente che si sta aggregando intorno a De Magistris sarebbe condannato, prima o poi, a ripetere il percorso e il destino delle altre élite politiche cittadine. Tuttavia l’opinione dell’antropologo friulano, per il quale l’arretratezza socioculturale sembra assumere la valenza di una condanna inappellabile, può essere difficilmente accolta in questa forma estrema. Dopo tutto, proprio come la mafia (Falcone, 2004), che del resto ne costituirebbe un’espressione, l’arretratezza socioculturale, ammesso e concesso che esista, è un fenomeno storico che ha avuto un’origine e che avrà una fine con il venir meno delle cause strutturali che l’hanno prodotta e che rendono diffusi gli atteggiamenti ed i comportamenti ad essa conformi.

Per far sì che ciò avvenga occorrono un impegno prolungato e un non facile concorso di circostanze favorevoli: ma queste rimangono largamente al di fuori del controllo della giunta De Magistris. Peraltro, oltre all’incapacità di risolvere i problemi cronici della città, uno dei fattori che può avere pesato nella parabola discendente dei due cicli precedenti può essere stato il divario crescente tra le parole e i fatti. Dopo tutto l’esperienza riformatrice di Valenzi si riferiva pur sempre all’orizzonte utopico del comunismo, sepolto dalle sue contraddizioni nel corso degli anni Ottanta. Quanto a quella di Bassolino e Iervolino sarebbe anche troppo facile adesso infierire sulle feste, gli spettacoli e i convegni su Napoli “capitale del Mediterraneo” che si moltiplicavano proprio mentre avanzava la deindustrializzazione, decadevano i progetti di rilancio economico e urbanistico e la gestione quotidiana si degradava sempre più. Laddove uno stile di comportamento amministrativo in grado di attrarre la stima e l’interesse della società civile – e di preservare e orientare positivamente le energie di cui il documentario di Rossano ci fornisce una testimonianza – non può essere sostituito dal proliferare di iniziative di comunicazione, di effetti annuncio e di politiche simboliche. La vicenda, richiamata con amarezza da Adolfo Scotto di Luzio (2008), dell’assessore all’ambiente della giunta Iervolino che dichiara guerra al fumo nei parchi pubblici mentre imperversa l’emergenza rifiuti, non può non insegnare qualcosa a chi si propone di cambiare qualcosa.

Scriveva Giustino Fortunato che il dramma degli intellettuali del Sud era il “sognar lontano per non veder vicino”. Sarà questo anche il dramma dei “ceti medi riflessivi” di oggi e dei giovani che hanno sostenuto con passione l’ultimo rinnovamento politico cittadino?


 

LETTURE

× Alberoni Francesco, Movimento e istituzione, Il Mulino, Bologna, 1977.

× Altan Carlo Tullio, La nostra Italia. Clientelismo ribellismo e trasformismo dall’Unità al 2000, Egea, Milano, 2000.

× Falcone Giovanni, Cose di cosa nostra, a cura di M. Padovani, Rizzoli, Milano, 2004.

× Ginsborg Paul, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino, 1998.

× Hirschman Albert O., Felicità privata, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2003.

× Moscovici Serge, Psicologia delle minoranze attive, Bollati Boringhieri, Torino, 1981.

× Saviano Roberto, Gomorra, Mondadori, Milano, 2006.

× Scotto di Luzio Adolfo, Napoli dei molti tradimenti, Il Mulino, Bologna, 2008.

× Tilly Charles, From Mobilization to Revolution, Addison-Wesley, Boston, 1978.

× Tilly Charles, Le rivoluzioni europee 1492-1992, Laterza, Bari, 2002.

× Touraine Alain, La produzione della società, Il Mulino, Bologna, 1975.

× Touraine Alain, Il ritorno dell’attore sociale, Editori Riuniti, Roma, 1988.