LETTURE / UNA FENOMENOLOGIA DELL'ASSENZA. STUDIO SU BORGES


di Livio Santoro / Arcoiris, Salerno, 2011 / pagine 144, € 12,00


Sfida al labirinto

di Giovanni de Leva

 

Tra Le città invisibili che Marco Polo descrive a Kublai Khan, ce n’è una che non tocca terra ma è sospesa tra le nubi per mezzo di altissimi trampoli, perciò “chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato” (Calvino, 2005). I cittadini, ritiratisi lassù con tutto l’occorrente per vivere, di rado si mostrano sulla terra. “Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza” (ibidem). Gli abitanti di Bauci sarebbero dediti insomma ad Una fenomenologia dell’assenza, per riprendere il titolo dello Studio su Borges con cui Livio Santoro inaugura la collana “La battaglia dei libri” delle Edizioni Arcoiris; continuando l’analogia, si potrebbe leggere anzi il lavoro di Santoro come un ideale invito agli abitanti di Bauci, perché ridiscendano sulla terra e pongano la contemplazione della propria assenza a fondamento d’una nuova città.

Come dichiarato dal titolo, si tratta d’una rilettura dell’opera di Jorge Luis Borges in chiave filosofica, legittimata peraltro dall’assunto dello scrittore secondo cui la metafisica, come la religione, costituisce un ramo della letteratura fantastica. Santoro rintraccia dunque nella narrativa borgesiana un pensiero coerente, alla cui origine individua il “commiato dall’ontologia” consumato dalle correnti filosofiche del Novecento, l’abbandono cioè “della questione dell’Essere […] per impraticabilità”; ne deriva un soggetto che ha perduto la tradizionale possibilità d’ancorarsi agli universali e si scopre perciò privo di fondamento ― similmente all’abitante di Bauci che, lasciata l’apparente solidità della terra, si ritrova sospeso per aria. Un borgesiano dalla lunga esperienza qual è Blas Matamoro, nell’introduzione che impreziosisce lo studio, riconosce tuttavia che “al centro di questo libro c’è un problema etico: può costituirsi eticamente un soggetto privo di fondamento? […] Di conseguenza – chi lo avrebbe mai detto – è una scommessa filosofica quella che Santoro trova in Borges”. La fenomenologia dell’assenza che l’autore applica e al tempo stesso rileva nell’opera dell’argentino, infatti, non si risolve affatto in un ricorso al pensiero debole o ad una postmoderna estetica dell’effimero, delineando al contrario la possibilità d’un soggetto che proprio sulla rinuncia dell’ontologia sia in grado di fondare un nuovo modello etico – detto altrimenti, d’un abitante di Bauci che sulla base dalla contemplazione della propria assenza sappia escogitare una diversa forma di presenza.

Lo studio, strutturato in dieci capitoli, ruota attorno al tema del rapporto tra soggetto tempo e spazio, incisivamente raffigurato come un elastico che lega tre pietre, le quali, “quanto più vengono scagliate lontano, con tanta più forza tornano indietro”. La questione è allora sciogliere il nodo ovvero ripensare il correlato ontologico che stringe le tre dimensioni, ciò che appunto, con alterni risultati, hanno tentato alcune correnti filosofiche del Novecento (per esempio la fenomenologia e l’esistenzialismo, che Santoro incrocia efficacemente con lo storicismo critico, trovando poi un punto di raccordo nel pensiero di Karl Jaspers). Un intento questo che sembrerebbe condiviso da Borges, nella cui narrativa emerge infatti un legame tra soggetto spazio e tempo del tutto peculiare.

Con un tocco d’enfasi, potremmo sostenere che il Borges di Santoro prende le mosse da un atto prometeico, rubando cioè l’idea dall’empireo platonico per affidarlo all’uomo, o più precisamente ad ogni singolo individuo: “È proprio nel misconoscimento dell’èidos nella sua versione di universale in favore di un suo riconoscimento in una versione soggettiva che è racchiuso […] uno dei progetti più sottili dell’opera borgesiana”. Ne risulta ciò che Friedrich Nietzsche, negata l’esistenza dei fatti in favore delle interpretazioni, definiva “prospettivismo”; il rischio d’un conseguente ritorno all’antropocentrismo o ad una nuova ontologia positiva, basata stavolta sul soggetto, viene scampato però per il tramite degli oggetti. La narrativa di Borges è in effetti ‘popolata’ di oggetti che veicolano visioni prospettiche della realtà, altrettanto legittime di quelle umane: basti pensare al solo caso dello specchio. In questo modo, Borges giunge a diffondere “il tramite autoriale della realtà, estendendolo al di là dell’uomo e considerandolo come un insieme di elementi eterogenei […] concorrenti nella definizione di una serie indefinita di linee prospettiche”.

Simile è la soluzione prospettata al problema del tempo, la cui presunta universalità viene convogliata nelle versioni soggettive dei singoli individui. Al proposito, va segnalato come Santoro chiarisca la specificità con cui i personaggi borgesiani esperiscono il tempo grazie ad un accostamento inaspettato quanto funzionale, quello cioè con gli psicotici di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger. Come il malinconico binswangeriano risulta incapace di muoversi liberamente sull’asse temporale biografico restando invece vincolato ad un particolare momento, così per esempio Emma Zunz rimane imprigionata nel progetto di vendetta del padre. A differenza dell’esperienza dello psicotico, però, quella del personaggio borgesiano non è utile a mostrare per contrasto una temporalità ‘autentica’, e cioè universale e scomponibile in parti, quanto invece a denunciarne l’intima inadeguatezza.

Il personaggio borgesiano, insomma, non è chiuso in alcuna forma di solipsismo o di autismo ma, al contrario, diffonde la propria singolare prospettiva nel mondo circostante. Esattamente ciò che succede nel caso di Tlön, che Santoro richiama a dimostrazione di come una creazione immaginaria non solo influisca sulla realtà, ma possa giungere addirittura a scalzarla. Il tramite attraverso cui le prospettive dei singoli si fanno intersoggettive e al tempo stesso vengono convalidate è la lingua, convenzionale, arbitraria e situata per Borges, eppure “foriera di una sorta di legittimazione ontologica (dunque […] di un compromesso ontologico)”. Il risultato è allora l’assunzione “sullo stesso piano di legittimità delle diverse interpretazioni del reale”, il superamento cioè della “mutua esclusività delle possibilità, ovvero […] uno dei punti più caratterizzanti della scienza positiva”. In una parola, l’Aleph, così definito da Santoro: “l’immagine eidetica che racchiude in sé una regolazione non gerarchica degli enti e, prima ancora, delle rispettive immagini eidetiche di questi ultimi”.

Giungiamo così all’ultima pietra da sciogliere, ossia allo spazio, che Borges sembrerebbe interpretare in maniera opposta al pensiero novecentesco ma conseguente rispetto alla propria concezione del tempo. Non è infatti quest’ultimo a costituire un’ulteriore dimensione dello spazio, ma, a quanto dimostra il ricorrente tema del labirinto, è lo spazio ad essere ‘temporalizzato’: “Borges […] trasferisce la costituzione frammentaria del labirinto anche sulla piattaforma della temporalità, dispiegando così il concetto […] dell’interminabile ed eterno della ricerca, che è tale in quanto oltrepassa […] il tema del tempo e dello spazio”. La ricerca, “archetipo degli archetipi”, sussume dunque le tre dimensioni di soggetto spazio e tempo – una conclusione ancor più condivisibile da un punto di vista letterario, solo a considerare l’universalità del tema cavalleresco della quête. Finalmente disciolte, anziché disperdersi in direzioni diverse, si direbbe dunque che le tre pietre si riuniscano per fondersi l’una nell’altra.

È in ogni caso la ricerca a costituire il punto d’arrivo della lettura borgesiana di Santoro, che nelle ultime ed illuminanti pagine ricapitola il senso del percorso aprendo ad ulteriori possibilità di riflessione. A guadagnare risalto nell’opera di Borges non è tanto un raffinato scetticismo, quanto invece, inaspettatamente, la sua parodia: l’argentino giungerebbe in altre parole a “rivoltare lo scetticismo contro se stesso, al punto di infantilizzarlo e parodiarlo […]. In tal modo, non è mai assunta una sola delle versioni della realtà o dell’Essere […] di per se stessa, ma sono assunte tutte nella loro costitutiva infondatezza, nella loro assenza ontologica […], nella loro impossibilità di ridursi ad una pianta regolare”. Una diffusione di legittimità che si estende – ed è ciò che più conta – all’ambito della morale, dato che “alla ridefinizione della questione ontologica deve accompagnarsi giocoforza una ridefinizione generale della questione etica”. L’assenza di fondamenti, cui Borges fa seguire la validità delle prospettive dei singoli, anche in questo caso, infatti, chiama in causa l’individuo, o meglio la sua ricerca: “L’impalcatura teorica dell’opera di Borges sembra assumere i tratti di un tenace quanto virtuoso prospettivismo, in cui le versioni soggettive dei caratteri […] operano attraverso quello che con Foucault si potrebbe definire un determinato stile etico: questo stile, per lo stesso Borges, e per i suoi personaggi, è la ricerca”.

Tocchiamo qui uno dei maggiori pregi dello studio, e cioè l’inedito punto d’incontro tra Borges e Michel Foucault, grazie al quale Santoro mette in risalto l’uno alla luce dell’altro. Non che sia nuovo l’accostamento del filosofo al narratore, essendo stato incoraggiato per primo dallo stesso Foucault, né si tratta di autori che abbiano bisogno d’una rivalutazione, citati come sono a torto e a traverso. Il Foucault che Santoro ha come riferimento, però, non è affatto quello più frequentato o quello che, in una lettura di Borges, salta per primo alla mente. Non si tratta infatti del filosofo del discorso, dello storico del disciplinamento o dell’analista della biopolitica, quanto invece dell’ultimo e forse più trascurato Foucault, del teorico della “cura del sé” (Foucault, 2011). Dopo aver indagato l’evoluzione e il funzionamento delle tecniche di potere, Foucault si volge infatti allo studio dei modelli di soggettivizzazione, non certo per opporre semplicisticamente al potere l’individuo, che anzi ne è penetrato e di cui è partecipe, quanto piuttosto alla ricerca di vie attraverso cui possa tentare di liberarsi. Di qui l’attenzione alla cura del sé, ovvero alla cultura presocratica dell’estetica dell’esistenza, cui va riportato lo “stile etico” del Borges di Santoro. Tenendo ben presente però che il termine “estetica” non ha nulla a che fare con un qualche dandismo, riferendosi invece all’arte nel significato antico, più vicino all’artigianato che non all’accezione moderna; così come nello “stile” non andrà letta una ricerca del bello quanto l’espressione delle peculiarità d’un individuo. Secondo l’estetica dell’esistenza, infatti, era il singolo a dover dare forma alla propria vita, imprimendovi un ordine immanente e non imposto dall’esterno, e che si tenesse solo in virtù della sua coerenza interna; ne sarebbe risultata una morale indirizzata unicamente dal criterio personale, un’etica intesa appunto come stile.

Il Borges etico che risulta dall’incontro con il Foucault della “cura del sé” ha dunque un aspetto assai diverso da quello cui siamo abituati. Come ricorda lo stesso Santoro, infatti, “una delle interpretazioni più comuni dell’opera di Borges” si risolve nel delinearne la “natura assurda, congetturale, ma allo stesso tempo dichiarata”. Il che sarebbe condivisibile, a patto però che, come succede in questo studio, si faccia un indispensabile passo in avanti. Fermarsi al Borges onirico o cerebrale significa infatti relegarlo ad una raffinata letteratura d’evasione, o, peggio ancora, come Juan Rodolfo Wilcock in un articolo de L’Europeo del 1970, a doversi chiedere: Borges è reazionario? Mettere invece a confronto l’opera di Borges con il pensiero filosofico, interrogarsi in altre parole sull’origine e soprattutto sugli esiti della sconfessione borgesiana di qualunque solidità o fondamento ontologico, permette al contrario d’individuare una “sostanza affermativa della negazione”. Non diversamente, si direbbe, da quanto è possibile fare col pensiero di Nietzsche, qualora ci si rivolga a ciò che nel suo pensiero segue la pars destruens. Non è un caso allora che Santoro riconosca tanto nel pensiero di Borges quanto in quello di Foucault l’eredità del prospettivismo nietzschiano. Il Nietzsche sostenitore delle interpretazioni e il Foucault dello stile etico avrebbero infatti condiviso la soluzione che Borges, significativamente, suggerisce nei termini d’una riscrittura evangelica: “nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra”. In un celebre intervento pubblicato sul Menabò del 1962, ragionando sulla diffusione d’una “letteratura del labirinto gnoseologico-culturale”, Italo Calvino vi distingueva due opposte possibilità: “Da una parte c’è l’attitudine […] necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo” (Calvino, 2011a). Da quest’ultima e più ricorrente interpretazione Santoro contribuisce dunque a liberare l’opera di Borges, attribuendole invece il primo intento, riportandola cioè “dalla letteratura della resa al labirinto” alla “letteratura della sfida al labirinto” (ibidem). Si tratta d’una distinzione assai sottile, in quanto il modello del labirinto “può funzionare come sfida a comprendere il mondo o come dissuasione dal comprenderlo; la letteratura può lavorare tanto nel senso critico quanto nella conferma delle cose come stanno e come si sanno” (Calvino, 2011b). Tanto più complesso è decidere d’un “labirinto delle immagini culturali di una cosmogonia più labirintica ancora”, come Calvino definisce l’opera di Borges: al di là degli auspici qua e là emersi nella critica, c’era bisogno infatti di chiarire la posizione filosofica dell’autore prima di tentare di stabilirne la prospettiva morale. Colmata questa lacuna attraverso Una fenomenologia dell’assenza, la parola va restituita al lettore, perché “è l’atteggiamento della lettura che diventa decisivo; è al lettore che spetta di far sì che la letteratura esplichi la sua forza critica, e ciò può avvenire indipendentemente dalla intenzione dell’autore” (ibidem) – coerentemente però a quella di Borges, secondo cui “leggere […] è un’attività successiva a quella di scrivere: […] più civile, più intellettuale” (Borges, 2001).


 

LETTURE

× Borges Jorge Luis, Storia universale dell’infamia, in Jorge Luis Borges. Tutte le opere, vol. I, Mondadori, Milano, 2001.

× Calvino Italo, Le città invisibili, 1972, in Italo Calvino. Romanzi e racconti, vol. II, Mondadori, Milano, 2005.

× Calvino Italo, La sfida al labirinto, in Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2011a.

× Calvino Italo, Cibernetica e fantasmi, in Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2011b.

× Foucault Michel, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano, 2011.