LETTURE / STORIA DELLA FOLLIA NELL'ETÀ CLASSICA


di Michel Foucault / Rizzoli, Milano, 2011 / pp. 832, € 12,90


L'esclusione: una questione di spazi

di Livio Santoro


La società è un luogo fatto di spazi, di localizzazioni. Mai statici, gli spazi si susseguono, si sovrappongono, concorrono tra loro nella formazione delle teorie sociali, delle immagini e delle auto-rappresentazioni della realtà. Si prendano alcuni di questi spazi, alcuni spazi fisici. E li si prendano in un tempo lontano, almeno lontano per l’uomo contemporaneo.

Medioevo: gli spazi in questione sono i lebbrosari e i lazzaretti, contenitori in cui la malattia del corpo suppurava della sua marcescenza sociale, creando sacche putride ristrette nei termini sensazionali di una visibile teratologia organica. Erano luoghi individuabili, riparati da mura enormi, innalzate per la falsa necessità di facciata di tenere il contagio ristretto, schermi su cui la malattia si riflette e si ritrae, torna indietro, di nuovo verso di sé. Così rinchiusa, anche la vecchia turbolenza epidemica rallenta, ma mai fino a scomparire dall’orizzonte del passante. La malattia si esaurisce volta per volta in questi spazi, si atrofizza nella sua stessa dimora per poi ripresentarsi su nuovi portatori, perché consuma chi è dentro, ma allo stesso tempo non risparmia chi è fuori e si adatta al precetto dell’inviolabilità dei corpi. I corpi, spazi fisicamente visibili e moralmente intoccabili, sono fatti materia del contagio (si pensi che etimologicamente la lebbra è lepròs, oggetto scabroso sia in quanto fisicamente ruvido ed aspro che in quanto moralmente impudico). La separazione non garantisce l’assenza della contaminazione, ma al contrario garantisce che si costituiscano due mondi che non comunicano se non in un’unica direzione. Sicché le mura che separano i due spazi, il dentro e il fuori, devono essere visibili, devono essere monito dell’invalicabilità dell’intervento umano nella lotta contro le tare del corpo. Il Medioevo canalizza e non prova a sconfiggere, con questa segregazione esclusivamente amministrativa, la sua minaccia epidemica: la lebbra. Non è una sconfitta materiale, quella che si racconta, bensì una costante evidenza espiatoria, da rendersi visibile, poiché definisce le linee dell’esclusione, vero teorema sociale cui sottende la costruzione stessa di questi edifici posti al margine dell’abitato dove le epidemie si rimestano nel loro marcio intreccio di batteri.

Se è necessaria la società degli uomini è necessario che ci sia l’esclusione e a quest’ultima è naturalmente necessario, a sua volta, che ci siano gli esclusi; perché ci siano esclusi, inoltre, è necessario che vi sia la malattia. È questo il motivo per cui lebbrosari e lazzaretti, con le pratiche che dentro si susseguivano, non sono stati innalzati per il definitivo annullamento della malattia. Sono stati innalzati, invece, per rendere la malattia un monito, per farla diventare uno spazio a sé.

In questo modo, quando le malattie epidemiche spariscono (grazie alle prime propaggini di un igienismo moderno, grazie alle nuove demografie, grazie alla ridefinizione dello statuto di sovranità… e grazie anche al caso imperturbabile), e gli spazi che le ospitavano restano, e restano vuoti, per renderli ancora funzionali c’è bisogno di una nuova sostanza teratologica, di una nova categoria di soggetti da escludere dall’agone societario.

Così si fece, dopo il Medioevo, e si trovarono altri soggetti da escludere. Ecco che quegli spazi che prima erano lebbrosari o lazzaretti diventeranno manicomi, in una prima confusa opera di acquisizione (tesa a ristabilire le linee difensive di una società intera), cioè in quel Grande Internamento principiato in Europa alla fine del secolo XVII, con cui Michel Foucault ha dato principio alla sua Storia della follia nell’età classica, inaugurando così l’analisi di uno dei più complicati e controversi oggetti delle scienze sociali: la follia.

La follia, per come la conosciamo, nasce come sostituzione, nasce come oggetto, dapprima indistinto ed indeterminato, messo per occupare una localizzazione lasciata vuota da un altro oggetto (la malattia epidemica) ormai ritrattosi nelle regioni opache e sfumate della memoria e del passato. Col Grande Internamento si inaugura così una nuova stagione di esclusione. Questa nuova stagione si fa forte di un’evidenza nata dall’esperienza e dalla necessità di riempire i vuoti creati dalla ritrazione della malattia organica. Chi mettere dentro? Quali soggetti trascinare nel dettato espiatorio dell’esclusione?

I folli, si rispose impersonalmente ed anonimamente, e lo si fece prima ancora che si sapesse cosa questi fossero. Perché l’assenza di visibilità immediata di questi oggetti, fa sì che la loro determinazione sia inizialmente arbitraria, sicché esclusi non saranno soltanto coloro i quali hanno tare sensibili nell’anima o nel cervello, ma anche coloro i quali disseminano nella società spore di resistenza al mutamento: i vagabondi, gli indemoniati, i sifilitici, gli agitati, gli ipocondriaci, i poveri eccetera. Tutti coloro che in un modo o nell’altro si discostano da un incipiente teorema della riproduzione sociale, allungando la distanza da loro intrattenuta con la norma. Non un solo profilo specifico, dunque, ma una pletora di profili accomunati dalla loro inadeguatezza: i vagabondi e i poveri inadeguati agli sviluppi economici della nuova società in espansione; i sifilitici inadeguati all’ordine morale che regola l’igiene delle anime; gli indemoniati inadeguati alle disposizioni episcopali che sanciscono la concretezza del peccato; e così a seguire. A poco a poco queste inadeguatezze si ritraggono a loro volta, ed emerge definitivamente quell’oggetto che anch’esse hanno contribuito a costruire: la follia.

È proprio così che nasce definitivamente la follia, come ultima fase di un processo di esclusione orfano in un primo tempo della lebbra, in un secondo dell’incoerenza di tutte le altre storture. La follia pervade di forza l’ambito dell’esclusione, si definisce come residuo delle vecchie teorie completamente tese alla necessità sociale di tenere alcuni soggetti come simulacri del negativo al di fuori dell’accampamento (come si diceva già nell’indocile libro dei Numeri), e così facendo va ad occupare uno spazio anch’esso vecchio, ma reso vacante dalle bizzarrie del tempo e delle epoche che si susseguono tra loro.

La follia, in sostanza, nasce per sopperire ad un’assenza. Così si fa oggetto sociale per come l’abbiamo recentemente conosciuto, si definisce condensandosi come parte della realtà, proponendo essa stessa un’essenza negativa: l’assenza di soggettività. Il teorema dell’esclusione, infatti, dopo aver giocato sul pianale della stortura visibile, individuabile nella carne (si prendano proprio le evidenze tissulari della lebbra e le escrescenze linfatiche della sifilide), gioca sulla piattaforma dell’aleatorio, del non immediatamente visibile, in modo da legittimare l’emergenza di una nuova classe di specialisti medici. Questi ultimi devono essere in grado, col loro sguardo, di perlustrare non soltanto le zone più evidenti dei nervi e dei tessuti, ma anche quelle umbratili e nascoste dell’anima o della psiche; come se prendessero da due spazi affiancati – il corpo tattile della lebbra e della sifilide, e l’anima colpevole e volatile della possessione e della povertà – la loro legittimità sociale. Proprio all’interno di questo nuovo spazio in parte corporeo e in parte no (la nostra continua ad essere una storia di spazi) va costruendosi il nuovo specialismo psichiatrico; proprio in questo spazio si individua la nuova assenza. L’invisibile giustifica una continuità con ciò che prima era visibile: ancora l’assenza.

Sicché attorno a quest’assenza è necessario imbastire un enorme discorso disciplinare, fatto di pratiche e di leggi, di prescrizioni e di immagini: non a caso il discorso sulla follia è accostabile, nell’opera di Foucault, ad una miriade di altri discorsi settoriali, come quello amministrativo sulla prigione (1993), quello igienista sulla sessualità (2009a; 2009b), o quello dello sguardo medico(1998a), tutti tesi a condensarsi sul nucleo centrale di una società che a poco a poco prende a definirsi per il suo spessore disciplinare, una società di microfisica, sottoposta alla diade soggettivazione-assoggettamento. Una società, ancora, fatta di spazi e di localizzazioni da rispettare.

Dunque non si vada troppo oltre nel seguire il solco tracciato da Foucault nella sua Storia della follia, si resti per adesso solo su quanto detto, e si ponga il nostro temporaneo punto d’arrivo come fosse l’inizio di una narrazione a più prospettive: quella di Michel Foucault. Abbiamo visto come il filosofo di Poitiers abbia individuato in quel passaggio avvenuto alla fine del XVII secolo la nascita del concetto moderno di follia, una nascita caldeggiata dall’emersione di una nuova classe di specialisti della vita, e dall’aleatoria definizione di un’assenza. La follia, in questa storia più grande, si affianca ad altri oggetti che occupano spazi omologhi, localizzazioni della stessa matrice. È la coerenza dell’intero lavoro di Foucault a dover essere presa in considerazione adesso, un lavoro in cui la follia rappresenta solo il primo tassello. In questo senso, Storia della follia nell’età classica non è solo il libro che a gran voce ha messo in discussione lo statuto di verità della follia, è anche il libro che ha dato il via ad una produzione filosofica in sé coerente e lungimirante, tesa a definire le strategie e le tattiche operanti in più settori (in più spazi) di quella che sarebbe diventata una vera e propria società disciplinare.

Abbiamo visto che la follia, per come la intendiamo, nasce nell’Europa del XVII secolo come esigenza di esclusione condensata attorno ad un’assenza, così nascendo, e imponendosi in qualità di oggetto sociale, essa impone la crescita di un discorso psichiatrico teso al disciplinamento di quelle menti e di quei corpi irrequieti su cui la società suppura del suo marcio. Ma tale evidenza si fa valere anche in altri spazi che, come abbiamo già detto, lo stesso Foucault sarà in grado di indicarci: nello spazio carcerario per quel che riguarda le prigioni; nello spazio domestico borghese attraverso il dispositivo di sessualità; nello spazio ospedaliero perlustrato e settorializzato dallo sguardo medico.

Perché quella della follia è sostanzialmente una storia di disciplinamento di corpi, che sono spazi, all’interno di altri spazi: medesima cosa che avviene negli altri settori indicati. La follia appartiene cioè ad una storia più grande, quella del disciplinamento; potremmo dire che essa vede nascere al suo fianco la società disciplinare, inaugurando narrativamente tutta la successiva opera di Foucault. Quest’opera sarà costantemente tesa a definire la società come un luogo fatto di spazi, come una cartografia in cui si susseguono localizzazioni mobili, soggiogate alla dinamiche di imposizione dell’unica forza maiuscola ammessa da Foucault: il Potere. Ecco cosa dice, in proposito, Gilles Deleuze: “«Il» potere ha come caratteristiche l’immanenza del suo campo senza unificazione trascendente, la continuità della sua linea senza una centralizzazione globale, la totalità dei suoi segmenti senza totalizzazione distinta: spazio seriale” (2002, corsivo nostro).

È nel potere ed attraverso di esso che si sostanziano gli oggetti sociali come localizzazioni, è grazie ad esso che si può definire una spazializzazione della realtà, in cui ogni cosa creata viene messa in un posto vuoto: assenze chiamate a riempire altre assenze. Così le prigioni (1993), così le case borghesi (2009a; 2009b), così gli ospedali (1998a). E così anche i manicomi, nell’esplosione iniziale dell’oggetto follia.

Ma dato che, l’abbiamo visto proprio al principio, gli spazi e gli oggetti non sono sempre stabili nel tempo, bensì mutano andando ad occupare nuove localizzazioni diagrammatiche nella cartografia del potere, anche i manicomi si modificano, seppur restando permeati di quell’imperativo disciplinare che ha segnato come una frattura epistemologica (1998b) il corso recente delle epoche. In questo modo i manicomi stessi possono essere visti anche come spazi in cui avviene la metamorfosi, non solo spazi metamorfizzati dalle disposizioni esterne del potere. Sono luoghi in cui pure gli oggetti sociali si modificano grazie alle pratiche che al loro interno si susseguono. Tant’è vero che Foucault non terrà mai i manicomi lontani dalla sua riflessione. Al contrario li ispezionerà ancora per rendere la cifra del mutamento della follia, anche ridefinendo, in parte, quanto sostenuto nella sua classica Storia della Follia. Il manicomio resta, è spazio in cui si modificano le nervature dei corpi, e in cui questi stessi corpi combattono. Ma questa volta parliamo di due diversi generi di corpi, quello del medico e quello del malato, impegnati in un affrontamento interno al potere psichiatrico stesso. Un affrontamento secolare in cui le linee del potere cercano di ridefinire una statutaria asimmetria. Perché all’interno dei manicomi non stanno soltanto i folli, ma stanno anche quelli che i folli sono chiamati a gestirli, ad amministrarli. È allora anche quest’affrontamento che rende la misura della variabilità storica di un oggetto, poiché è proprio all’interno dello spazio manicomiale che la follia si struttura attorno ad un nucleo in sé coerente. Foucault racconta questa storia nel corso al Collège de France del 1973-74 (2010) in cui parzialmente vengono riviste le conclusioni della Storia della follia.

Sintetizzando quanto sostenuto nel corso, Foucault ammette che dopo quel Grande Internamento avvenuto tra il XVII e il XVIII secolo, di cui aveva già parlato, lungo tutto il XIX secolo il manicomio diventa “un luogo di diagnosi e di classificazione, recinto botanico in cui le specie di malattie sono suddivise in reparti la cui disposizione fa pensare a un orto di grandi dimensioni; ma al contempo spazio chiuso in vista di un affrontamento, luogo di una gara, campo istituzionale in cui a essere in gioco sono vittoria e sottomissione” (ibidem).

Il manicomio quindi, quale spazio di questo affrontamento tra medici e malati, diviene palcoscenico di una metamorfosi tesa a ricondurre le malattie ad un’attribuzione di altri spazi, di classi. È così che la follia, a poco a poco, prende a trasformarsi essa stessa in malattia, sancendo temporaneamente la sua esclusiva appartenenza alla definizione medica del patologico. In questo agone tutti lavorano affinché l’evidenza morbosa possa essere messa nel suo spazio, dunque i medici da una parte e i malati dall’altra producono sintomi, situazioni, dimensioni cancerose, quasi come se in questa continua rivendicazione di proprietà gli uni e gli altri volessero porsi come fonti del morbo, e in tal modo sui padroni. Il disciplinamento tocca i primi e i secondi, non solo i folli che stanno diventando malati di mente, dopo essere stati solo anormali. Lo spazio manicomiale, in sostanza, viene pervaso dalla malattia e dalla sua configurazione, fino a che la follia prende ad essere parte della malattia. È lo scenario di una sequenza di tattiche, di strategie inserite nel contesto asimmetrico della psichiatria che va a poco a poco consolidandosi. Ecco: da che non esisteva nello spazio amministrativo della gestione dei corpi, la follia, al principio della formazione della società disciplinare, occupa il vuoto lasciato dalle malattie epidemiche, vuoto che in un primo momento viene colmato anche da sifilide, possessione e povertà, in una promiscuità teratologica dettata dalla confusione della prima ora. Una volta occupato il suo spazio, la follia prende a definirsi secondo le linee classificatorie delle malattie, imponendo ai medici e ai malati la possibilità di affrontarsi tra loro elargendo sintomi e descrizioni, ossia definendo posizionamenti di corpi, di spazi.

Sicché, una volta annessa a tale dimensione, quella che in un bizzarro tragitto sul continuum tracciato tra l’organico e l’inorganico diventa malattia mentale, deve confrontarsi nuovamente con la sua immagine gonfia ed ipertrofica. Da che ha incluso tutto sotto l’abbraccio dell’organico, vede nell’ultima sua voluta una nuova separazione interna: divide nuovamente le due sue entità, l’ombra morale della follia, e la stortura organica della malattia. Così si presentano nuove ondate di depsichiatrizzazione, dopo quella prima che ha visto coinvolti medici e pazienti nel gioco dell’isteria (ibidem). Subentrano nuove strategie, nuovi accorgimenti in grado di ristabilire le asimmetrie insite nell’affrontamento su cui si regge la malattia. Tra queste nuove strategie ne possiamo ora individuare specificatamente due: l’introduzione massiccia delle farmacoterapie e il linguaggio letterario. La prima è una strategia che viene da parte medica, la seconda una strategia che si muove a partire dai pazienti. Foucault parla di questa doppia innovazione in quella breve riflessione, La follia, l’assenza di opera (pubblicata anche in appendice al volume con cui Rizzoli ripropone la Storia della follia nell’età classica), che idealmente segue la linea precedentemente tracciata proprio dalla Storia della follia e dal Corso al Collége de France del 1973-74.

Che ne è dei manicomi e dei folli in quest’ultimo passaggio? Che ne è dei folli dopo l’introduzione e la maturazione di queste due nuove strategie (il linguaggio letterario e le farmacoterapie)? Due sono le evidenze che emergono nell’analisi foucaultiana: da una parte si trasforma lo spazio manicomiale, che grazie alle massicce ondate delle farmacoterapie trasforma le vecchie sale di agitati in grossi acquari tiepidi in cui i corpi dei malati sono più docili, e seguono indifferenti il dettame ancora attuale del disciplinamento; dall’altra parte, tuttavia, la letteratura apre lo spazio interno della follia, facendo sì che quest’ultima si separi ancora una volta, forse definitivamente, dalla malattia mentale, sancendo un travagliato divorzio antropologico. La letteratura estende la follia al di là dello spazio assegnatole, e l’asperge sulla realtà, portandola in altri spazi, in altre localizzazioni, come fosse un’indistinta dispersione pulviscolare. Così facendo, diventa opera.

È esattamente qui che la follia compie l’ultimo passo del suo tragitto aleatorio, disteso e prolungato nel volgere dei secoli. È questa la conclusione della narrazione foucaultiana sulla follia, almeno per come qui abbiamo deciso di metterla, per come ne abbiamo ricostruito i tasselli. Forse arbitrariamente, ma d’altronde, se è la stessa follia ad essere oggetto aleatorio ed arbitrario, nulla c’impedisce di esserlo anche noi.


LETTURE

× Deleuze Gilles, Foucault, Cronopio, Napoli, 2002.

× Foucault Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993.

× Foucault Michel, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino, 1998a.

× Foucault Michel, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1998b.

× Foucault Michel, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2009a.

× Foucault Michel, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano, 2009b.

× Foucault Michel, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano, 2010.