VISIONI / THE MUSEUM OF ME


di Intel


Incanto e inganno
del museo virtuale

di Antonello Tolve


Ambito della divulgazione del sapere, luogo privilegiato per l'impaginazione di opere, percorsi, mappe e discorsi. Ambiente angusto o noioso, a volte. Altre, semplice meta di pellegrinaggio. Il museo contemporaneo – come del resto la galleria e, di rado, qualche biennale sparsa per il mondo o qualche sparuta fiera metodologicamente ben impostata – è spazio critico (Ferrari, 2004), tavoliere di un dibattito aperto che tra scontenti, delizie e tripudi, vizi privati e pubbliche virtù imbastisce un discorso in transito volto a trivellare le stazioni della realtà, dell'iperrealtà (Baudrillard, 1988) e della virtualità. Di un paesaggio che André Malraux ha definito essere senza mura. Non a caso, il museo, a differenza dell'arte e della sua storia, ha saputo riciclarsi, rinnovarsi o reintegrarsi (Zuliani, 2009). E ha saputo anche reinventarsi, ricalibrare la propria grammatica interna seguendo criteri legati, ad esempio, al marketing emozionale, al virtuale e al social-network. Questo perché “l'istituzione museale, è stata e continua ad essere”, suggerisce Stefania Zuliani in una riflessione dedicata, appunto, al museo del XXI secolo, “un dispositivo da decostruire e costruire senza sosta, un interlocutore potente a cui comunque si deve dare, prima o poi, conto, una vetrina sfolgorante che risponde alle logiche del mercato e del consumo culturale oppure, e spesso assieme, un recinto di libertà, una zona franca (un promettente terrain vague) da abitare e da immaginare” (Zuliani, 2009).

La lunga storia del museo, posta a revisione dagli strumenti delle tecnologie più avanzate propone, ora, un discorso, firmato dal colosso Intel, che, in intesa con uno dei social network più seguiti al mondo (Facebook), ha avviato, nel maggio del 2011, un progetto espositivo esemplare ed intrigante. Geniale, si direbbe. Se per geniale si intende ingegnoso, creativo e indiscutibilmente malizioso.

Accanto al museo navigabile in rete – un museo a portata di click che permette di visitare virtualmente le proprie sale espositive per invogliare lo spettatore ad andarci di persona – e accanto alle manovre promosse (e proposte) da Google con la propria piattaforma denominata Art Project attraverso la quale è possibile navigare in una serie di musei internazionali da casa propria, Intel propone, infatti, The Museum of Me. Un videomuseo costruito attraverso un algoritmo che aggrega (all'interno di uno spazio espositivo virtuale prefabbricato) i dati del navigatore interattivo facendone l'oggetto e il soggetto di una accattivante retrospettiva immaginifica per offrire ad ognuno il proprio museo.

Con The Museum of Me siamo di fronte ad una rivoluzione del discorso sul museo che trasforma l'accesso e il permesso (offerto, questo, dal consumatore che concede l'ingresso alle proprie informazioni) in una costruzione fulminea di sale allestite con i frammenti della propria storia personale. E cioè con un vero e proprio archivio della memoria depositato, nel tempo, all'interno di Facebook.

Al di là del controllo sul singolo massificato (per poter usufruire del servizio Intel chiede l'autorizzazione per Accedere alle tue informazioni di base, Pubblicare elementi sulla tua bacheca, Accedere ai post nella tua sezione Notizie, Accedere alle informazioni del tuo profilo, Accedere alle tue foto e ai tuoi video, Accedere, infine, alle informazioni dei tuoi amici) e del sottile utilizzo di una persuasione occulta (Packard, 1958) che attacca l'inconscio e cala gli ami tra i capricci dei consumatori, ciò che va rilevato è tutto un programma di rielaborazione, rivisitazione e reinvenzione degli statuti museografici e museologici, mediante circuiti interattivi di natura virtuale. Circuiti che non solo riscrivono lo spazio dell'esposizione ma lo sottopongono ad una vita attiva sullo schermo – a nuove identità e relazioni sociali ha avvertito Sherry Turkle (1996) – e ad interfacce a misura d'uomo utili a costruire spazi personali (e interpersonali), valigie emotive, viaggi tra le cose della propria quotidianità. Ma anche, naturalmente, pericolosi giochi narcisistici che spingono il navigatore a dare, molte volte, un consenso distratto per veder erigere estemporaneamente una retrospettiva sulla propria vita, per veder museificare la propria storia o, semplicemente, per sentir accrescere (in modo spicciolo) il proprio ego.

“The Museum of Me”, si legge nella sua accurata presentazione, “is an application that displays information from your Facebook account as viewable «exhibits» in a virtual museum of your very own”.

Per avviare il proprio museo personale – per visualizzare la propria vita (visualize yourself è la scritta che compare a chiusura del video) e per rendere ubiqua la propria storia – è sufficiente, così, aprire la piattaforma museumofme.intel.com e avviare un loading delle immagini, dei video e delle informazioni (interessi, collocazione geografica, amici, post ecc.) del proprio profilo Facebook per vedere, nel giro di pochissimi secondi, un video dedicato interamente a se stessi e alle proprie costruzioni sociali. Dotato di sale espositive – munite, queste, finanche di didascalie esplicative – tra le quali Friends, anzi, My Best Friends e Photos (due sezioni che raccolgono, da una parte una sfilata di amici significativi, dall'altra le immagini caricate e sedimentate nel tempo, sul proprio profilo), Location (una stanza dedicata alla geografia, agli spazi e ai punti cardinali – costruiti mediante tre precisi riquadri che indicano latitudine, longitudine e locazione esatta con nome della città di appartenenza – in cui si trova la persona che decide di creare il proprio museo), Words (una black room che presenta, su un grande schermo, le parole più indicative apparse o scritte sulla propria pagina di Facebook). E poi, ancora, una sala costellata di schermi che proiettano video, foto e immagini d'ogni tipo estrapolate dalle varie informazioni messe a disposizione. O, ancora, un salone che celebra il navigatore (con un eccesso imbarazzante) proponendo un work in cui una serie di bracci robotici raccolgono e riuniscono le immagini di tutti gli amici presenti nel social network per depositarle all'interno di un macro-puzzle che, mediante una manovra raffinata di morphing, fa emergere la propria immagine del profilo. Un'immagine che si trasforma, poi, in un punto dal quale partono tutta una serie di ponti sociali congiunti ad altri punti fino a plasmare, via via, una rete fittissima d'interconnessioni (forti o deboli) che prende le forme del globo terrestre.

Accompagnato da una leggerissima ed evocativa composizione musicale di Takagi Masakatzu, lo spettatore attraversa così una serie di sconcertanti stanze personali per vivere il miracolo del proprio esasperante – e a volte esasperato – egocentrismo. Stanze senza più pareti che si pongono come territori da esplorare, da costruire e ricostruire, fare e disfare mediante una determinante lettura critica che sappia leggere i giochi e i pericoli, le costruzioni linguistiche e i segreti circuiti persuasivi posti alla base di ogni programma, di ogni progetto, di ogni accattivante e affascinante formula d'interazione. Eppure, per quanto questo viaggio sia sbalorditivo, per quanto il museo venga ricostruito (con riserve critiche e risoluzioni discutibili) mediante le tecnologie elettroniche più attuali, e per quanto Intel proponga, a tutti gli effetti, una perniciosa exhibition emozionale, ciò che va rilevato in questo scenario integrato, accessibile a tutti e apparentemente democratico (legato, cioè, ad una democrazia del controllo, della massificazione e della devalorizzazione della singolarità), è una pericolosa disattenzione della massa. Di una massa dalla quale ritrarsi per ritrovare la propria singolarità universale (Ferrari, 2011) la cui finalità dovrebbe essere la creazione di un nuovo dibattito e di un nuovo confronto pubblico sulla società interattiva, su una nuova narrazione (mancata?) fatta di connessioni, di reti imprevedibili, di percorsi causa-effetto, di grafi. Che siano essi regolari o, semplicemente, casuali.

 


LETTURE

× Baudrillard J., La sparizione dell'arte, Politi, Milano 1988.

× Ferrari F., Il re è nudo. Aristocrazia e anarchia dell'arte, luca sossella editore, Bologna 2011.

× Ferrari F., Lo spazio critico. Note per una decostruzione dell'istituzione museale, luca sossella editore, Roma 2004.

× Packard V., The Hidden Persuaders, 1957, I persuasori occulti, trad. it., Einaudi, Torino 1958.

× Turkle S., Life on the screen: Identity in the age of the Internet, Simon & Schuster, New York 1996.

× Zuliani S., Vitrine de Référence. Alcune premesse e qualche ipotesi sul museo del XXI secolo, in S. Chiodi, a cura di, Le funzioni del museo. Arte, museo, pubblico nella contemporaneità, Le Lettere, Firenze 2009.

× Zuliani S., Effetto museo. Arte, critica, educazione, Bruno Mondadori, Milano 2009.