Stanislaw Lem

Fiabe per robot

Marcos y Marcos

Pag. 198

€ 14,00

 

 

 





 

Fiabe per robot

di Stanislaw Lem



 

Lem è un funambolo. Le storie che propone sono zeppe di inventori squinternati, di incredibili pianeti abitati da popoli ancora più inverosimili che si industriano con mirabolanti tecnologie, giustificate da conoscenze scientifiche meravigliose e balzane. Buffa cosmologia che erompe dalla vulcanica fantasia di uno scrittore da noi noto soprattutto per il romanzo Solaris, divenuto in seguito film per la regia di Andreij Tarkovskji. Una fama che ha oscurato e anche segnato (complice il film) la produzione letteraria di Lem, che possiede un’effervescenza naturale sconosciuta a Tarkovskji.

Lodevole, quindi, il lavoro editoriale della Marcos Y Marcos, che giunge con le Fiabe per robot al quarto titolo tradotto dopo Il congresso di futurologia, Cyberiade e le Memorie di un viaggiatore spaziale. Anche in questa raccolta di fiabe, datata 1968, Lem salta radicalmente la fase speculativa della fantascienza, congiungendo la stagione segnata dal sense of wonder con la postmodernità costellata di piccoli e grandi gadget hi-tech, funzionanti grazie a leggi e logiche del tutto ignote e su cui raramente ci interroghiamo. Esemplare l’elettroamico, essere minuscolo e saccente inserito nell’orecchio di Automatteo nel racconto L’amico di Automatteo. Una macchina più macchina della macchina (Automatteo è un robot) che esaspera il disgraziato. Il protagonista è un naufrago, uno sventurato come Robinson Crosue, anzi di più, poiché il suo Venerdì è l’esasperante marchingegno che, calcolata l’improbabilità di ricevere soccorso immediato sull’isolotto dove è capitato Automatteo, gli consiglia fraternamente di farla finita suicidandosi. Un sapientone, tipetto odioso di quelli che un altro grande, da poco scomparso, Robert Sheckley spesso proponeva nelle sue storie. Quello di Lem è un mondo ibrido abitato in coppia da uomini e macchine, dove la fantascienza ritorna alla sua versione più folk e meno colta, quando ancora non era del tutto distinguibile come genere letterario autonomo all’interno del racconto fantastico.

Lem affida ai suoi robot i compiti che La Fontaine assegnò agli animali: mostrarci le piccole e le grandi miserie della vita, i paradossi, le astuzie insite nell’arte di sopravvivere. Per far questo si affida ad una straordinaria capacità di frullare conoscenze scientifiche e invenzioni linguistiche poiché, come scrive: “La scienza spiega il mondo, ma solo l’arte può riconciliarci con esso.” Compito non semplice, occorre essere fabbricanti d’universi come quelli nati dalla fantasia di Farmer, o, più semplicemente, inventori.

Figure del mondo della scienza che rimandano alla figura dello scrittore e viceversa. In questo senso, Lem è un inventore. Narra di inventori e delle loro invenzioni e le prime battute del racconto I tre elettroguerrieri ne riportano la schietta confessione: “C’era una volta un grande inventore che escogitava senza sosta macchinari singolari e fabbricava gli apparecchi più inverosimili.” Questo è Lem.


 

Recensione di Gennaro Fucile