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IL DISINCANTO DEL MONDO
E UNA LETTERINA
DA OXFORD A FATHER CHRISTMAS

di Roberto Paura
bn02 cappellobnLa vigilia di Natale del 1920 un compassato professore di Oxford si sedette alla sua scrivania e iniziò a tracciare su un pezzo di carta delle parole traballanti in inchiostro rosso. La lettera che stava scrivendo si concludeva con un incomprensibile: “Yr loving Fr. Chr.”. La mattina successiva, il piccolo John, di tre anni, trovò la lettera insieme ai regali di Natale e concluse senza tema di smentite che fosse stata scritta nientemeno che da Babbo Natale in persona, il vecchio pluricentenario che si nascondeva dietro le iniziali di “Fr. Chr.”, Father Christmas. Nei vent’anni successivi, quel professore di Oxford proseguì la tradizione delle lettere di Babbo Natale, destinandole ai suoi figli successivi: Michael, Christopher e Priscilla. Un divertissement di un uomo un po’ tocco? Niente affatto. Chi le scriveva si chiamava J.R.R. Tolkien e dieci anni dopo si sarebbe ritrovato a scrivere, sul retro di un compito di filologia anglosassone da correggere, nuove oscure parole che suonavano così: “In una caverna sotto terra viveva uno Hobbit”. 
Il legame tra Lo hobbit (e il successivo capolavoro di Tolkien, Il Signore degli Anelli) con le simpatiche e graziose lettere poi pubblicate in un volume arricchito dalle belle illustrazioni dello stesso autore, Le lettere di Babbo Natale (2000a), è ben più forte di quanto i critici fino a oggi abbiano saputo cogliere. Ciò che ai critici è sfuggito, inoltre, è soprattutto il fatto che Father Christmas, il nostro Babbo Natale (e non l’americano Santa Claus), sia l’unico personaggio degli scritti di Tolkien che ricorre anche nell’opera del suo amico e collega Clive Staples Lewis, Le Cronache di Narnia. J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis stavano dando vita in quegli anni a un genere di letteratura fino ad allora inesistente, che muoveva i suoi incerti passi dalla tradizione delle fiabe, le fairy-stories (“storie fatate”) a cui Tolkien avrebbe dedicato un penetrante saggio (Sulle fiabe, 2000b), per giungere al filone che oggi chiamiamo “fantasy”. E Babbo Natale cosa c’entrava in tutto questo? Che ruolo poteva avere nella complessa cosmogonia di Tolkien, tesa ad inventare un immane corpus leggendario per il suo paese, l’Inghilterra, che ne era privo? Che significato poteva assumere nell’opera allegorica di Lewis, orientata ad utilizzare storie per bambini allo scopo di veicolare il messaggio evangelico? Per essi, si trattava di ruoli e scopi radicalmente diversi; in realtà, inconsciamente, Babbo Natale avrebbe giocato nella loro opera il ruolo fondamentale di collegamento tra il mondo fantastico dell’infanzia e il mondo fantastico che essi stavano andando a creare. Babbo Natale, incarnazione di quel “reincantamento del mondo” di cui molti anni dopo avrebbe parlato il sociologo Michel Maffesoli, ma teorizzato per primi da Tolkien e Lewis, portava con sé – pur aggiornato al nuovo immaginario di massa del XX secolo – la promessa di una vittoria della fantasia sul realismo moderno, dell’immaginazione sulle miserie della vita quotidiana, della gioia cristiana sullo scientismo illuminista.
Chi più di tutti ha colto fino in fondo il senso più nascosto della produzione letteraria di Tolkien e Lewis è stato il critico Thomas Howard, docente e studioso di letteratura americana, nonché teologo cattolico fortemente influenzato dall’opera morale di Lewis (che, detto per inciso, fu ateo prima di diventare un fervente anglicano). Nel suo Narnia e oltre, edito in Italia nella prestigiosa collana “Tolkien e dintorni” dell’editrice Marietti (2008), Howard è riuscito a sintetizzare squisitamente le ragioni di fondo dell’opera di questi due autori:

“Un modo per esprimere quello che Lewis riteneva essere il suo compito letterario sarebbe quello di dire che egli desiderava condurre i suoi lettori nei pressi di una finestra che gettasse uno sguardo fuori dalla stanza buia e soffocante della modernità, per spalancarne le imposte e indicare a noi tutti l’enorme vista che si stende oltre la stanzetta nella quale siamo rinchiusi” (Howard, pp. 5-6)

L’immagine della “stanza buia e soffocante della modernità” esprime in maniera calzante quella sensazione di oppressione provata da Tolkien e Lewis. Essi erano, inguaribilmente, uomini che non appartenevano né alla loro epoca, né alla nostra realtà. Lewis si definiva “un uomo del vecchio Ovest”, Tolkien si immaginava come “un Hobbit in tutto, tranne che nell’altezza”; e quando i due decisero di comune accordo di scrivere ognuno una storia di quelle che entrambi apprezzavano, ma di cui non trovavano più esempi nella letteratura moderna, scelsero la forma del viaggio: un viaggio nel tempo, Tolkien; un viaggio nello spazio, Lewis. Due diverse vie di fuga da una realtà che essi non condividevano più. Ecco che Babbo Natale comincia ad acquistare un qualche senso nella psicologia dei due scrittori. Quando Tolkien disegna una bellissima illustrazione in cui, sopra i pinnacoli della serissima Oxford illuminata dalla luna piena, volteggia la slitta di Babbo Natale, dà piena forma a quell’irruzione del fantastico nel reale che avrebbe dovuto aspettare ancora alcuni anni prima di trovare piena espressione ne Lo Hobbit e in quel che seguì. La metafora della stanza soffocante la si ritrova, non a caso, usata dallo stesso Tolkien nel suo citato saggio Sulle fiabe, parlando del concetto di ‘evasione’ e del biasimo della critica nel ricorso a questo strumento da parte dello scrittore di storie fantastiche:

“Perché un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di uscirne e tornare a casa? Oppure, se non lo può fare, se pensa e parla di argomenti diversi che non siano carcerieri e mura di prigione? Il mondo esterno non è diventato meno reale per il fatto che il prigioniero non lo può vedere” (Tolkien, 2000b, p. 82)

Il mondo esterno di cui parlano Tolkien e Lewis (attraverso Howard) è, se il lettore non lo ha ancora capito, quello immaginario, che nella loro ottica assume un’assoluta realtà e veridicità. È la “sub-creazione” dove tutto è possibile, a patto di convincere chi ne fruisce che tutto, in quel mondo immaginario, sia coerente e dunque reale. Proprio su queste basi Tolkien criticò la decisione di C.S. Lewis di introdurre ne Le Cronache di Narnia il personaggio di Babbo Natale. Non perché non ne apprezzasse il ruolo, ma perché Babbo Natale non poteva coesistere in un mondo già abitato da personaggi così diversi tra loro come fauni, bacchi, streghe e unicorni. “Mettere insieme Aslan, i fauni, la Strega Bianca, Babbo Natale, le ninfe, i Signori Castoro e così via – ognuno dei quali possiede distinte origini mitologiche o fantastiche – all’interno di un singolo paese immaginario è un terribile errore.” (cit. in Pavlac Glyer, 2007). Per Tolkien, infatti, Babbo Natale non doveva essere preso tanto alle leggera, possedendo un ben preciso retroterra culturale. 
In realtà, l’uso che Lewis fece di Babbo Natale era molto più vicino al pensiero di Tolkien di quanto egli stesso osasse ammettere. Quando i fratelli Pevensie arrivano a Narnia la prima volta, su quel mondo pesa l’incantesimo della Strega Bianca che ha gettato Narnia nel gelo di un inverno lungo mille anni, “senza mai Natale”. È la metafora dell’aridità moderna prodotta dal “disincanto del mondo”, per cui non a caso l’indebolimento del potere della Strega inizia proprio con l’arrivo di Babbo Natale, dipinto esattamente con i tratti a cui siamo abituati: “Era un uomo molto grande e molto grasso, con un vestito rosso (rosso come le bacche dell’agrifoglio), un cappuccio foderato di pelliccia bianca e una gran barba che gli ricadeva sul petto come una cascata di candida schiuma” (Lewis, 2001). Tuttavia, C.S. Lewis si affretta a chiarire che egli non ha l’aria buffa che spesso gli si attribuisce, ma che “solo a guardarlo ci si sentiva invadere da una strana sensazione di gioia tranquilla, da una gran pace, intima e solenne” (Ivi, p. 208). È la stessa sensazione che i fratelli Pevensie provano alla presenza di Aslan, che ne Le Cronache di Narnia è accostato allegoricamente a Cristo. In questo senso, Babbo Natale – anche da Lewis chiamato “Father Christmas” e non Santa Claus – non è altri che un messaggero di Aslan, ossia un portatore della ‘buona novella’. Egli giunge per annunciare l’imminente arrivo di Aslan e per dare ai bambini i regali che si aspettano. Pur se tutta la scena sembra uscita da una classica storia natalizia, in realtà la funzione di Babbo Natale come distributore di doni ha un senso preciso. Nell’economia della fiaba, delle fairy-stories, Babbo Natale in Narnia assume la funzione di aiutante magico, donando ai fratelli i mezzi necessari per vincere le armate del male. Nell’allegoria cristiana che impregna l’opera di Lewis, alcuni commentatori identificano Babbo Natale con Giovanni Battista, che per primo riconobbe e annunciò la maestà di Cristo. Nella psicologia di Lewis (e analogamente di Tolkien), Babbo Natale rappresenta l’irruzione della fantasia, lo strumento di evasione dalla “stanza buia e soffocante” del mondo reale.

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Tenendo a mente ciò, va notato che in una delle Lettere di Babbo Natale – le quali sono tutte di molto anteriori alla creazione di Narnia, essendo l’ultima del 1939 – il vecchio Babbo rivela ai bambini di avere millenovecentoventicinque anni, il che è abbastanza interessante dato che la lettera in questione è del 1925. Tolkien realizza così un’esplicita comparazione tra Babbo Natale e Gesù Cristo: non che egli voglia suggerirne un’identificazione, che suonerebbe blasfema per un devoto cattolico come lui; ma piuttosto la figura di Babbo Natale è utilizzata allegoricamente per veicolare un preciso messaggio cristiano come Lewis farà poi meglio ne Le Cronache di Narnia: il Babbo Natale portatore di doni è l’immagine migliore che può essere usata per avvicinare i bambini alla lieta novella, che consiste appunto nel Dono più grande fatto da Cristo agli Uomini: la Salvezza. E la funzione che Babbo Natale assume in Lewis è identica a quella che assume un altro personaggio nell’opera di Tolkien, la dama elfica Galadriel. In questo caso è chiaramente Tolkien a ispirarsi a Lewis, dato che Il Signore degli Anelli è posteriore al primo dei racconti di Narnia (che è del 1950). Ma Galadriel nel romanzo tolkieniano si comporta nella stessa identica maniera di Babbo Natale con i fratelli Pevensie, destinando questa volta ai membri della Compagnia dell’Anello i doni di cui essi avranno bisogno nelle vicende successive. Ancora più sorprendentemente, Galadriel dona a Frodo una fiala di luce della stella Earendil così come Babbo Natale donerà a Lucy una fiala di “liquore estratto dai fiori di fuoco che crescono sulle Montagne di Luce”. È il regalo più prezioso, non a caso: la luce della Rivelazione, quella proveniente dall’origine del Creato. Tolkien rigettava l’allegoria, ma in realtà come scrittore autenticamente cristiano non poteva non scrivere con Il Signore degli Anelli un’opera che fosse vicina a quella che per lui rappresentava la “Verità” suprema, quella del Vangelo. Nella logica della sub-creazione, il mondo secondario – chiariva Tolkien – poteva acquistare verità solo possedendo al suo interno la Verità autentica, partecipando della stessa rivelazione evangelica del mondo primario. 
L’identità tra il Babbo Natale lewisiano e quello tolkienano è ancora maggiore nel momento in cui si comprende la logica intrinseca al pensiero dei due autori. Babbo Natale è evasione, fuga dalla realtà. Perciò, è perfettamente coerente ne Le Cronache di Narnia, perché aiuta gli abitanti di quel regno a sfuggire – almeno per un giorno – alla miseria in cui li ha gettati lo spietato dominio della Strega Bianca. Ed è perfettamente coerente nell’opera di Tolkien: in questo senso, Le lettere di Babbo Natale sono il banco di prova della successiva produzione letteraria di Tolkien, tant’è vero che ritroviamo in esse molti personaggi che già allora popolavano la fantasia del professore di Oxford. Babbo Natale è aiutato dagli Gnomi-Rossi (poi Elfi-Rossi), buoni e saggi piccoli esseri ormai quasi scomparsi dal mondo, così come Tolkien li immaginava nelle prime storie del Libro dei Racconti Perduti, dove gli Gnomi (che in realtà non sono le creature che definiamo oggi con quel nome, ma derivano la loro etimologia dal greco γνῶσις, “conoscenza”, e quindi esseri dotati di grande saggezza) sono i primi abitanti fatati dell’Inghilterra. Eredi dei primi gnomi tolkieniani saranno poi gli Elfi della sua successiva mitologia e del Signore degli Anelli. Analogamente troviamo Babbo Natale alle prese con le invasioni di goblin (tradotti in italiano erroneamente con “folletti”): Tolkien all’epoca parlava di goblin per indicare quelli che poi ne Il Signore degli Anelli avrebbe definito “orcs”, “orchi”. Una comparazione tra i personaggi fatati de Le lettere di Babbo Natale e le creature della prima mitologia tolkieniana come esposta nel Book of Lost Tales (in Italia tradotto in due volumi, Racconti ritrovati e Racconti perduti) non è mai stata fatta. Eppure, essa mostrerebbe come le creature trattate da Tolkien nelle sue opere successive derivino proprio dallo stesso bagaglio dell’immaginario collettivo da cui è stato tratto Babbo Natale.
Le origini di “Father Christmas” sono state del resto rintracciate da molti nell’Odino dell’Edda, il corpus leggendario norreno che Tolkien scoprì in giovane età rimanendone estasiato. Come le renne di Babbo Natale, ad esempio, il cavallo di Odino (dotato di otto zampe) è capace di coprire straordinarie distanze. E non va dimenticato che i tratti di Odino, un vecchio grinzoso e barbuto, ricordano quelli di Babbo Natale. In realtà, ricordano soprattutto qualcun altro: Gandalf. Tolkien riconosceva la diretta ispirazione del personaggio di Gandalf da alcune immagini della tradizione popolare dell’Europa settentrionale derivate dalla figura di Odino. E Gandalf del resto è un “portatore di doni” nell’opera di Tolkien: come il Babbo Natale delle Lettere, nelle prime pagine del Signore degli Anelli Gandalf si diverte a far esplodere spettacolari fuochi d’artificio. Nella Contea, Gandalf viene ricordato soprattutto per i suoi memorabili doni un po’ magici che regala ai bambini hobbit ogni qualvolta fa visita al Piccolo Popolo; in realtà, il suo ruolo nel grande affresco della Terra-di-Mezzo è molto più importante, essendo egli un Maia, uno degli emissari delle potenze angeliche. Ancora una volta, quindi, sembra esserci un inconscio legame tra la figura di Babbo Natale e quella di Gesù Cristo nell’immaginario di Tolkien.
A conclusione, può essere interessante notare che nei romanzi della saga di Harry Potter della scrittrice J.K. Rowling non c’è alcun riferimento a Babbo Natale. Dovrebbe esserci? Certo che sì, dato che in ognuno dei sette libri, con implacabile routine, i protagonisti festeggiano un Natale esattamente uguale al nostro, vagamente cristiano nelle forme ma svuotato di ogni autentico significato. Babbo Natale non compare innanzitutto per una scelta onesta da parte della Rowling: in un mondo estremamente realistico, che a differenza di Narnia non è alternativo al nostro, ma perfettamente coesistente, ma in cui a differenza del nostro la magia è considerata ordinaria amministrazione, Babbo Natale non ha alcun senso. Non ha senso perché la sua magia apparirebbe inesorabilmente diluita in un mondo dove tutti possono imitare le sue incredibili gesta; sarebbe inoltre pericoloso perché il giovanissimo lettore di Harry Potter che crede ancora in Babbo Natale sarebbe portato a irrobustire la sua fede considerando Babbo Natale assolutamente credibile in quanto prodotto di un mondo magico spacciato per vero e reale. E poi Babbo Natale, in qualche modo, c’è già: è il vecchio Silente, l’aiutante magico di Harry, ultimo esponente di quell’albero genealogico che affonda le sue radici in Odino e annovera tra i suoi discendenti Merlino e Gandalf.
Soprattutto, Babbo Natale non ha alcuno spazio nell’opera di J.K. Rowling perché la scrittrice inglese, pur scrivendo fantasy, non condivide nulla della psicologia di J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis. Tolkien e Lewis volevano davvero fuggire dal mondo in cui vivevano, cercavano realmente un escapismo, uno strumento di evasione, una strada che li portasse nel mondo fatato dove albergavano le loro vere coscienze. Erano uomini post-romantici, a disagio nell’epoca delle macchine e del disincanto del mondo. A differenza di J.K. Rowling, che non ha mai perso di vista la realtà di cui è perfetta espressione (senza nessuna critica nei suoi confronti), Tolkien e Lewis volevano credere ancora in qualcosa. Lewis era stato ateo nei suoi anni giovanili a Oxford: fu Tolkien a convincerlo alla conversione. Entrambi cercavano qualcosa che non riuscivano a trovare. Non potevano più credere in Babbo Natale, ma sentivano di dover credere in qualcosa. Tendevano a quell’Assoluto che distrusse i poeti romantici; decisero perciò di credere in Dio, perché potessero finalmente trovare nel mondo soprannaturale del Creato un porto sicuro per il loro bisogno di fede in qualcosa oltre la realtà.



Letture

× Howard T., Narnia and Beyond. A Guide to the Fiction of C.S. Lewis, 2006;
trad. it. Narnia e oltre. I romanzi di C.S. Lewis, Marietti, Milano, 2008.
× Lewis C.S., The Chronicles of Narnia, 1950-1956; trad. it. Le Cronache di Narnia, Mondadori, Milano, 2001.
× Pavlac Glyer D., The Company They Keep. C.S. Lewis and J.R.R. Tolkien as Writers in Community,
Kent State University Press, 2008.
× Tolkien J.R.R., The Father Christmas Letters, 1976; trad. it. Le lettere di Babbo Natale, Bompiani, Milano, 2000a.
× Tolkien J.R.R., On Fairy-Stories, 1947; trad. it. Sulle fiabe in Albero e foglia, Bompiani, Milano, 2000b.