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Crescent
John Coltrane
di Stefano Pastor

spazioVoglio essere una forza che
agisce veramente per il bene
John Coltrane 
Mi piace sempre Crescent, mi diverte. 
Credo che in quell’album ci sia 
una grande varietà di cose

Elvin Jones

 

“Me ne sto seduto a provare progressioni di accordi e sequenze e, alla fine, ricavo un brano – o più brani – da ciascun piccolo problema musicale” (Coltrane, Giant Steps, note di copertina). Si potrebbe partire da qui. Da quella natura curiosa e indagatrice che spinge John Coltrane a smontare e rimontare infinitesimali brandelli di un linguaggio – quello della musica afro-americana – che dopo di lui non sarà mai più lo stesso. Né la sua meravigliosa avventura musicale – durata una dozzina d’anni da quando fece il suo primo ingresso nel quintetto di Davis, nel 1955, alla morte prematura avvenuta nel luglio 1967 – conobbe alcun momento di stasi, fatto questo molto significativo su cui torneremo a riflettere. In questo breve arco di tempo la musica del saxofonista di Hamlet compie trasformazioni sbalorditive, in un quadro evolutivo capace di sintetizzare magistralmente tutta la storia del jazz (compreso quello a venire). 
Alcuni elementi stilistici per chiarire meglio il concetto. 
In primo luogo una caratteristica costante, quasi ereditaria, lungo tutta la sua carriera: il blues permea tutta la sua musica, da quando suona in gruppi R&B a quando, tardivamente (altro elemento interessante) esplode la sua vena free. Una fortissima componente arcaica quindi non tramonterà mai in Coltrane. 
Secondo:  La tradizione swing e bop coltivata durante gli anni giovanili, sino alla collaborazione con Miles, in modo ostinato. Interessante a tal proposito la vicenda del provino che fece a NY con Davis. Il trombettista, pur riconoscendone il talento, non fu entusiasta della prova e l’occasione sembrò inizialmente sfumare: “Trane continuava a fare domande su quello che doveva o non doveva suonare. Cazzate. Era un musicista professionista, e io avevo sempre preteso che chiunque suonasse con me fosse in grado di trovare il suo posto nella musica che eseguivamo” (Davis in Kahn, 2004).
Ciò che lasciò perplesso Davis era in realtà una delle doti più grandi del tenorista: l’indomito desiderio di migliorarsi, di carpire ogni segreto di ogni musica. Desiderio che si manifestava, assumendo un atteggiamento persino eccessivamente preoccupato, ma che fu il motore di quella sua capacità di smontare e rimontare la materia musicale di cui sopra. Trane tornò a casa deluso ma subito dopo Davis lo chiamò proprio per la sua caparbia capacità di padroneggiare il repertorio standard: “Trane era l’unico che conoscesse tutti i pezzi, non potevo rischiare di avere nel gruppo uno che non sapeva cosa suonare” (Ibidem). 
Terzo elemento: la capacità di creare interpolazioni infinite, armoniche e melodiche. Un’abilità affinata con Thelonious Monk (fondamentale l’incontro con il pianista) e sfociata in composizioni come Giant Steps. Un’abilità altresì determinata dalla sua natura ossessiva, che lo rese il più puntiglioso interprete della difficile musica monkiana: “E si mette a percorrere furiosamente la musica del pianista (...) Suona cose impossibili al saxofono, scritte apposta per il pianoforte” (De Wilde, 1999). Così si esprime senza mezzi termini De Wilde ma basta ascoltare il solo di Trane in Epistrophy per capire che “Lui, suona tutto, per tutto il tempo, a tutta velocità” (Ibidem). Insolitamente, virtuosisticamente. 
Quarto: l’esplorazione profonda del modalismo, già sperimentato e appreso alla corte di Davis, che con Trane diviene qualcosa di trascendente. In particolare vi si nota la potente astrazione dal sistema tonale attraverso la disposizione degli accordi per quarte (non così nei lavori modali di Miles) che conduce a sonorità arcaiche ed esotiche. Qui si innesta il quinto elemento stilistico, quello dell’indagine sulle altre culture e, in particolare, il suo interesse per le musiche africane e indiana. 
Infine l’affrancamento totale da ogni costrizione, quella dimensione free che, se non è stata la prima storicamente (si veda Ornette Coleman ad esempio), è certamente unica da un punto di vista estetico. Il suo è un free-jazz pregno di lirismo mistico e di fuoco virtuosistico rigorosamente improntato a meccanismi intervallari dalla logica ferrea. Ecco perché riteniamo rilevante la tardività della sua manifestazione free. Perché fu evidentemente necessario un percorso di emancipazione e di affinamento che lo portasse a suonare una musica che non imponeva prescrizioni. Musica semplice proprio per questo si potrebbe dire, e invece la più difficile, in quanto non dà appigli a strutture. Solo forza immaginativa pura. Un traguardo meditato da tempo e raggiunto faticosamente se si pensa alla relativa inadeguatezza dell’azione di Trane nel disco The Avant-gard, pubblicato nel 1966 ma registrato nel 1960. Un disco sulla musica di Ornette Coleman, eseguito insieme ad alcuni degli storici collaboratori del padre del free. Si trattò di un esperimento non totalmente riuscito così come ebbe a dire, tra gli altri, Roberto Valentino: “Ascoltando tutt’oggi il disco, Coltrane risulta infatti sostanzialmente estraneo alle complesse concezioni compositive del musicista texano” (Valentino, 2002). Un esperimento quindi che testimonia ed enfatizza la lunga rincorsa di Coltrane per approdare al proprio ultimo stile musicale.
Al centro di questa vertiginosa indagine a trecentosessanta gradi si pone un disco, Crescent (1964), che ha avuto il solo torto di essere immediatamente precedente, e quindi oscurato, da quel capolavoro celeberrimo che è A Love Supreme (stesso anno) ma che con quest’ultimo condivide concezioni musicali, clima espressivo, formazione, produttore, etichetta, ingegnere del suono. Non a caso è considerato il preferito, tra i dischi di Coltrane, da una nutrita serie di musicisti, da Elvin Jones, a Frank Lowe, da Dave Liebman a Jimmy Garrison, secondo la testimonianza della moglie Roberta, solo per citarne alcuni. La title-track resta un esempio splendido di ciò che è stato il complesso mondo di Coltrane; una sintesi magnifica – lirica e drammatica, dai contorni mirabilmente misurati – della sua poetica. È il momento di tornare brevemente all’immagine iniziale di Coltrane che spiega come le composizioni di Giant Steps prendano l’avvio da una serie di elaborazioni armoniche che il saxofonista ostinatamente ricerca. Piuttosto ovvio pensare a questo processo in relazione alle rapide modulazioni per terze maggiori di molti brani di quell’album, ma l’idea che Coltrane partisse da assorte, personali ricerche armoniche per le proprie composizioni non deve limitarsi a quel periodo. Persino nella sua manifestazione free troviamo elementi che sono chiaramente frutto di elaborazioni di strutture melodico-armoniche rigorose. Così ci piace immaginare Trane che se ne sta seduto a esplorare, solitario, un mondo armonico, anzi un microcosmo: il modo locrio di una scala qualunque, poniamo la scala maggiore di MI bemolle maggiore. Pensando all’accordo di settimo grado (RE, FA, LAb) comincia forse a immaginare una nota estranea allo stesso che possa conferire un elemento di interessante sospensione (ricordate le poliarmonie di Naima?); suona SOL, scende per gradi congiunti a RE, toccando quindi FA e sale a LAb. Forse ripete più volte questo incipit per farlo risuonare nella sua mente. Le note dell’accordo di settimo grado di MIb più la nota estranea SOL. Forse è lì che immagina il suo quartetto suonare Crescent e pensa al basso che sì, deve suonare SOL come il sax. Bisogna chiudere la triade diminuita così conchiusa tra due note che ne aprano il sound. Forse è a quel punto che scrive il primo accordo: SOL7sus(b9) il quale altro non è che l’accordo di settimo grado di MIb con il SOL al basso. La meditativa enunciazione tematica, senza tempo (sospensione armonica e ritmica quindi, nonché melodica per l’esposizione cadenzante) sembra esplorare ogni segreta essenza di questo semplice accordo, di questo microcosmo appunto. Poche note piene di meraviglia per un’esplorazione così circoscritta cui solo gli occhi di un bambino possono dare profondità. Poi la stessa cosa, una quinta sopra, in risposta al primo accordo. Introduzione magistrale. Il tema, intriso di un doloroso sapore blues si ripete due volte risolvendo infine a DO minore, breve ponte che conduce al magnifico solo costruito su pochi semplici accordi prolungati che ne fanno un brano modale. Del solo va detto subito che si tratta di una delle più belle e coerenti costruzioni coltraniane. Sin dall’inizio si impone la determinazione a entrare immediatamente nel vivo con quella breve frase pentatonica, subito sostituita da inquieti fraseggi in terzine con il settimo grado alterato a creare tensione: è solo l’inizio in DO minore, un nuovo microcosmo esplorato magicamente. E poi la progressione di tonalità minori in cui tutti gli elementi elencati poc’anzi si dispiegano splendidamente, anticipando persino il suo stile più tardo con frasi cromatiche che utilizzano ampiamente note estranee agli accordi, in un crescendo di intensità ritmica swingante e di senso drammatico. Inutile dire che tutto il quartetto suona in modo incredibile, come sempre. Si arriva così al momento in cui il piano si fa da parte e Trane mette in mostra un ossessivo disegno in terzine su elementi di due note, creando un mirabile gioco di spostamento di accenti che alterna a frasi torrenziali e decisamente cromatiche per introdurre un nuovo elemento ossessivo, questa volta in quartine, alternando una nota fissa a una linea spezzata in movimento. Ed è qui che avviene un’altro miracolo: le linee non sono affatto audaci armonicamente ma è il suono del suo tenore a creare una tensione sconvolgente. Si sfibra, si fa rauco, manca addirittura le note, le lascia a tratti intuire. Ed è un suono unico, impossibile da immaginare. Altri elementi poliritmici e sheets of sound fino alla ripresa del tema, sommessamente serena come se tutto quello sconvolgimento non avesse intaccato la sua fede.

“Durante l’anno 1957 sperimentai, per grazia di Dio, un risveglio spirituale che doveva condurmi a una vita più ricca, più piena, più produttiva. A quel tempo, per gratitudine, chiesi umilmente che mi venissero concessi i mezzi e il privilegio di rendere felici gli altri attraverso la musica. Sento che ciò mi è stato accordato per Sua grazia. OGNI LODE A DIO” (Coltrane, A Love Supreme, note di copertina). Finora ci eravamo limitati a elencare una serie di elementi tecnici che hanno fatto dell’arte di Coltrane qualcosa di inarrivabile. Non è certo poca cosa ma non è tutto. Ciò che aleggia nella musica di Coltrane, che la rende così emozionante e persino sconvolgente è quello spessore spirituale che ne pervade ogni frammento. Avvicinarsi alla musica di Coltrane è sempre un’esperienza anche extra-musicale. La sua musica si fa arte nel senso più alto, parla di misteri indicibili e terribili, è pura poesia. A questo fondamentale aspetto possiamo solo accostarci umilmente, sperando che tale forza ci possa sfiorare poiché in essa, dopo tutto, risiede l’arte di John Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica per me è espressione degli ideali più alti” (Coltrane, in Kofsky, 1970).
La vicenda artistica di Coltrane non conobbe stasi. L’inquieta natura che lo animava lo condusse verso una ricerca infinita, sia in campo musicale e sia in campo spirituale. È proprio questo elemento che ci consegna oggi un altro fondamentale messaggio, quello cioè secondo cui l’arte deve avere radici nel passato ma guardare obbligatoriamente al futuro, essere quindi innovativa.  Innovativa e densa di contenuti elevati, del senso della morte che aleggia drammaticamente nella sua musica. Racconta McCoy Tyner riferendosi all’illuminazione che permise a Coltrane di uscire dalla schiavitù della droga: “Ricordo che mi spiegò di aver sognato Charlie Parker. E Bird gli aveva detto che era sulla via giusta” (Kahn, cit.). Bird, il cui spirito apparse durante una seduta spiritica cui parteciparono musicisti vicini a Lennie Tristano. Seduta in cui lo Spirito di Cristo espresse il messaggio “Pray”, quello di Bird “Play”*.
La comunità americana del jazz sembra saper credere ancora nell’aldilà.

Charley Parker, forgive me –
Forgive me for not answering your eyes –
For not having made an indication
Of that which you can devise –
Charley Parker, pray for me –
Pray for me and everybody
In the Nirvanas of your brain
Where you hide, indulgent and huge,
No longer Charley Parker
But the secret unsayable name
That carries with it merit
Not to be measured from here
To up, down, east or west –
- Charley Parker, lay the bane,
off me, and every body

Kerouak, 1979

“Charley Parker, perdonami - 
Perdonami se non rispondo ai tuoi occhi -
Se non ho reso bene 
Ciò che sai escogitare -
Charley Parker, prega per me -
Prega per me e per tutti
Nei Nirvana della tua mente
Dove ti celi, indulgente e immenso,
Non più Charley Parker
Ma il segreto nome ineffabile
Che porta con sé valori
Non misurabili qui
In alto, basso, est o ovest -
- Charley Parker, libera dalla sventura,
me e ogni corpo”.

* Come ci ha riferito confidenzialmente un musicista molto vicino a Lennie Tristano.



× ASCOLTI

× Coltrane J., Giant Steps, Atlantic, 1960, ristampa cd Atlantic/Wea, 1998.
× Coltrane J., The Avant-gard, Atlantic 1966, ristampa cd Atlantic/Wea, 1990.
× Coltrane J., Crescent, Impulse, 1964, ristampa cd Impulse 2002.
× Coltrane J., A Love Supreme, Impulse, 1965, ristampa cd Impulse 2002.


× LETTURE

× De Wilde L., Thelonious Monk Himself, Roma, Minimum Fax, 1999.
× Valentino R., John Coltrane – collana “Legends Jazz”, Editori Riuniti, Roma, 2002.
× Kahn A., A Love Supreme – Storia del Capolavoro di John Coltrane, Il Saggiatore, Milano, 2004.
× Kerouak J., Mexico City Blues, Newton Compton Editori s.r.l., Roma 1979.
× Kofsky F., Black Nationalism And The Revolution In Music, Pathfinder Press, 1970.
× Kofsky F., intervista a John Coltrane, novembre 1966.