William Gibson 
e il libro dei profeti virtuali: Mirrorshades

 

di Carmine Treanni



In principio era il bit. Un codice formato solo dai numeri zero e uno, senza nessun apparente significato agli occhi del profano. Poi venne Internet e tutti profetizzarono l’avvento della rivoluzione digitale. Oggi, i computer sono la norma: ci lavoriamo, ci giochiamo, li odiamo o li amiamo. Volente o nolente sono parte della nostra vita.

In letteratura c’è chi immaginò l’impatto delle tecnologie informatiche sulla società postmoderna molto in anticipo sulla realtà. Il suo nome è William Gibson ed è unanimemente considerato il fondatore del cyberpunk, il movimento letterario che - a partire dal macro genere della fantascienza - ha contaminato la cultura e la società americana alla fine del ‘900.

L’opera, che in qualche modo segnò lo spartiacque tra la fantascienza pre e post cyberpunk, è stata Neuromante (Neuromancer, 1984) proprio di Gibson, pubblicato in Italia prima dalla Editrice Nord e poi dalla Mondadori, che ha pubblicato anche tutte le successive opere dello scrittore americano.

Al suo apparire, il romanzo spaccò in due pubblico e critica: da una parte c’erano quelli che lo osannavano come uno dei testi più innovativi della letteratura di genere, dall’altra parte quelli che non lo ritenevano un capolavoro assoluto e non lo amavano per nulla. Resta il fatto che vinse tutti i massimi premi della fantascienza letteraria, dallo Hugo al Nebula, fino a quello in memoria di Philip K. Dick.

Il mondo che lo scrittore americano ha raccontato in Neuromante, con venti anni d’anticipo, è molto più vicino al nostro di quanto non si pensi: una società dominata dalle multinazionali e percorsa da miriadi di reti informatiche, al cui centro ci sono computer sempre più raffinati.

Il titolo del romanzo è formato dalle parole “negromante”, che significa mago, e “neuro”, che significa “attinente al sistema nervoso”. Allude, dunque, agli hacker, a chi naviga nella rete e sa come ottenere le informazioni che contano, ma anche al fatto che la ricerca di dati – nella fantasia dello scrittore americano - coinvolge il sistema nervoso.

Il protagonista è, infatti, uno dei migliori cow boy d'interfaccia, un uomo che con la mente riesce ad entrare e muoversi nell'incredibile mondo delle matrici dei computer, nel cosiddetto cyberspazio. Il suo “lavoro” consiste nel frugare le banche-dati delle ricchissime corporazioni che dominano la Terra, per rubare le informazioni richieste dai suoi mandanti. Case – questo il nome dell’eroe gibsoniano – commette però un errore fatale: tiene per sé una parte del bottino, suscitando l’ira di chi lo aveva ingaggiato. Il suo sistema nervoso viene così danneggiato in maniera apparentemente devastante e tale, comunque, da impedirgli l’ingresso nel misterioso e bellissimo mondo del cyberspace, fino a quando una nuova occasione lo rimette in gioco.

Lo stile di Gibson è intenso ed estremamente visuale, e non può essere altrimenti. In poche frasi, a volte anche molto brevi, lo scrittore americano riesce a catapultare l’immaginazione del lettore nelle visioni virtuali prodotte dalla sua narrativa e dalle storie partorite dalla sua fervida fantasia.

Oggi, la cronaca spicciola, spesso, ci racconta di hacker che si intrufolano negli archivi delle banche o di enti governativi, ma ipotizzare ciò nel 1984 significava davvero precorrere i tempi.

L’hacker è proprio l’eroe-simbolo di questo nuovo tipo di narrativa, ma il concetto più interessante che Gibson introduce nell’Immaginario collettivo e dilata all’ennesima potenza è quello di Matrice, in altre parole lo spazio reale e virtuale - allo stesso tempo - che si crea quando si è collegati con altri computer.

  

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