Remake. Se la fantascienza guarda al passato di Roberto Paura

 

Con Planet of Apes il difetto del remake non è quello di film come Solaris e La Guerra dei Mondi incentrati troppo sulla – inconsistente – psicologia dei personaggi e troppo poco sul senso della storia, ma quello che abbiamo riscontrato in The Time Machine o in un altro brutto remake, anzi uno proprio disastroso, quello di Rollerball (2005) che riscrive l’omonima pellicola del 1975, allora un piccolo cult di nicchia. Il tema centrale di questo film è quello della spettacolarizzazione della violenza e del conformismo esasperato verso cui viaggia la società contemporanea, che nel prossimo futuro si esalterà davanti alle televisioni di tutto il mondo per seguire l’ultimo sport rimasto in auge, un efferato gioco dove si mescolano rugby e motocross. Nell’originale film diretto da Norman Jewison i messaggi della storia riguardavano soprattutto i mali dei grandi poteri economici e il loro desiderio di schiacciare la società narcotizzandola con sport estremi e miti mediatici. Il remake realizzato da John McTiernan e che vede nei ruoli dei protagonisti due attori di livello come Chris Klein e Jean Reno dimentica tutto questo. Nel caos assoluto di una trama pressappochista che si rifà a tutti i più brutti modelli cinematografici degli ultimi anni, è la violenza a fare da soggetto, la spettacolarità del rollerball a interessare davvero sceneggiatori e produttori col tragico risultato che ciò che doveva essere stigmatizzato viene invece idolatrato e il conformismo mediatico trionfa in un film che segue la moda di MTV, per usare una valida espressione di alcuni critici. Ecco, con Rollerball siamo allo stesso difetto (accentuato, beninteso) di Planet of Apes: il soggetto originale – la civiltà di scimmie, il gioco del rollerball – assume un tale ruolo centrale da non servire più come veicolo di significati ma solo come veicolo di puro intrattenimento.

Alla luce delle brutte esperienze passate non si può che accogliere con un brivido lungo la schiena l’ormai certa notizia che nel 2007 uscirà nelle sale il remake di Fahrenheit 451 scritto e diretto da Frank Darabont (molto apprezzato per Il miglio verde). Il regista, che si è sempre detto un ammiratore entusiastico del romanzo originale di Ray Bradbury, punta a distruggere il mito della trasposizione fatta nel 1966 da François Truffaut (nel giudizio di chi scrive, un capolavoro che fa gridare al miracolo) che Darabont bolla come «uno schizzo di vernice rimasto a seccare sulla spatola». Il timore è che tutto si riduca alla banalità convenzionale e allo stereotipo americano, come già accaduto abbondantemente in passato. Non è necessario tirare le fila di questo discorso per giungere a delle conclusioni a cui il lettore sarà già arrivato: il problema del remake è da una parte nell’eccessiva spettacolarizzazione fine a se stessa e nel desiderio di stupire con nuovi e sbalorditivi effetti speciali, mentre dall’altra sta nel voler legare eccessivamente il soggetto della storia alla contemporaneità riducendolo a un pretesto per raccontare con mezzi originali qualcosa di banale.

Il rischio sta in questo: che quando gli effetti speciali di oggi non stupiranno più domani perché superati, e quando – si spera – ben poche persone saranno interessate a un nuovo film che sfrutti l’ansia post-11/9, l’effimera novità di questi film cadrà e il senso ultimo della storia non supererà la prova del tempo. Perché i grandi film di fantascienza, così come i grandi romanzi del genere, pur ispirati dalla realtà contemporanea diffondono un messaggio sempre attuale che si rivolge all’umanità come soggetto universale, e non a un pubblico specifico appassionato di storie d’amore o disaster movie. Il cinema dovrebbe anch’esso prendere spunto da quegli insegnamenti e guardare al futuro anziché voltarsi al passato senza imparare dai propri sbagli.  

 

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