Ferdinand Cheval, maratoneta dell’immaginario

 

di Giorgio Bedoni

 

Oreste Ferdinando Nannetti inviava cartoline, Ferdinand Cheval consegnava posta. A Nannetti si deve un libro di pietra, a Cheval un palazzo di pietra. Ferdinand e Ferdinando, un maestro e un inconsapevole allievo, ma Nannetti non è l’unico. Altri devono molto a Cheval.

Quando all’età di diciannove anni Yves Klein firma il cielo di Nizza come opera propria, visionaria e sconfinata, non sa di appartenere ad una lunga schiera di sognatori ad occhi aperti che già dalla seconda metà dell’ottocento avevano animato da autentici outsiders le frontiere mobili dell’arte europea.

Ben prima di Klein, infatti, un sogno venato d’esotismo aveva permesso a Ferdinand Cheval di edificare quello che chiamerà Palais Ideal, l’opera architettonica che farà dell’anonimo postino un’icona di molti esponenti delle avanguardie artistiche del Novecento.

Cheval, dunque, il maratoneta dell’immaginario che nella Drome provenzale coltiva l’ombra che non dà tregua, talvolta quel sogno diurno dei poeti e dei visionari.

Cheval sognava da tempo ad occhi aperti; postino rurale a Hauterives, fantasticava costruzioni mai viste, un palazzo così straordinario che avrebbe superato ogni forma d’immaginazione. Un sogno ricorrente in cui, eroe solitario, innalzava torri e pinnacoli, scolpiva guglie e sculture e poi grotte, labirinti e giardini. Un sogno venato d’esotismo perché guardava a Oriente, a quelle costruzioni mai viste e solo immaginate: per dodici anni il percorso quotidiano del postino aveva animato quel sogno, tanto che il mondo attorno risuonava a stento, così simile a un rumore di fondo.

Leggenda, forse, però prossima a quel desiderio che mantiene in vita i sogni. Così quel mattino, sulla strada per Tersanne, mentre percorre i suoi trentadue chilometri di saliscendi accidentato nel dipartimento della Drome, Cheval cade, inciampando in una grossa pietra: “scoprii”, scriverà il postino in una pagina autobiografica, “di aver fatto uscire con il piede dalla terra una pietra di forma strana e attraente e che il luogo ne era pieno. L’avvolsi allora nel fazzoletto e con molta cura me la portai a casa, ripromettendomi di cercarne altre nei momenti liberi dal lavoro…”

Era il 19 aprile del 1879. Da quel giorno Cheval non ebbe più tregua né pace: ritornerà l’indomani in quel luogo dove la pietra l’aveva disarcionato, novello Don Chisciotte che nel momento della sconfitta e della caduta ritrova se stesso e il suo sogno. Inizia, dunque, a dar forma al suo progetto, raccogliendo altre pietre, “le più belle”, scoprendo così che il sogno presiede il destino e lo contiene.

Racconterà di compiere, ogni giorno, diversi chilometri con un carico di pietre sulle spalle: agonista diurno e visionario, quando di notte, con una candela in resta procede alla edificazione del suo Palais.

Le iscrizioni sul Palais ci impongono la pignola contabilità del postino, quei numeri che scandiscono la sua ossessione creativa: trentatré anni dunque, da quel giorno di aprile, novemila giorni e sessantacinquemila ore, sino al 1912, quando Cheval dichiara terminata l’opera, ventisei metri per dodici di altezza.

Da sublime autodidatta che nulla sapeva di architettura, Cheval ha saputo interrogare la pietra, vedendo come solo possono certe figure mitiche descritte dalle tradizioni popolari. Figure infantili, come le bimbe del monte Tmolo.

 

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