VISIONI / LA PAROLA AI GIURATI


di Sidney Lumet / 20th Century Fox Home Entertainment, 2014


 

Al di là di ogni ragionevole dubbio

di Andrea Sanseverino

 

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“Poi, mi sono ricordato di una frase del colonnello Arbuthnot, il quale diceva che il miglior sistema di processo è quello che si fa con una giuria. Ora, una giuria è composta da dodici persone. Ebbene, nella vettura ci sono appunto dodici persone […] e a Ratchett erano stati inferti dodici colpi di pugnale” (Christie, 2009). Un passo, letterario, indietro e, cinematograficamente, in avanti, dal momento che le righe di Assassinio sull’Orient Express non riguardano il film in questione, ma un lavoro successivo di Sidney Lumet – del 1974 –, ma le ricordiamo perché pongono l’attenzione sul termine giuria che rappresenta il complesso di relazioni, in parte legate al rito, inerenti cioè alla celebrazione del processo, in parte emotive, che costituiscono il fulcro de La parola ai giurati del 1957, anno in cui vinse l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. La pellicola, ora disponibile in versione in blu-ray, costituisce la prima esperienza dietro la macchina da presa di Lumet, regista che affonda le proprie radici nel teatro, al quale ha continuato a guardare con un certo interesse, ispirandosi per le proprie pellicole a testi, tra gli altri, di Anton Čechov, Tennessee Williams, Arthur Miller, Peter Shaffer, Ira Levin. Strappato al teatro su consiglio del grande Yul Brinner, il regista di Filadelfia approda al piccolo schermo durante quella che fu definita la golden age della tv americana, quando il cinema si rifugiò nei kolossal per fronteggiare la crisi, affidandoli però ad autori esperti, lasciando che i nuovi talenti emigrassero verso il piccolo schermo per farsi le ossa (cfr. De Santi, 1998). Proprio dalla tv trae origine La parola ai giurati, che in realtà non è altro che un dramma giudiziario scritto da Reginald Rose e già diretto da Franklin Shaffner per la serie Studio One CBS nel 1954. Lumet si avvale della collaborazione di Boris Kaufman, artefice di un claustrofobico bianco e nero, per la realizzazione di un film prevalentemente ambientato in una stanza spartana del Palazzo di Giustizia di New York, in cui sono messi sotto chiave i giurati per decidere le sorti dell’imputato. A differenza delle dodici pugnalate inferte a mister Ratchett lungo il viaggio da Istanbul a Calais, ne La parola ai giurati il colpo mortale è uno solo, sferrato, secondo l’accusa, da un ragazzo che ha affondato quattro pollici della lama di un coltello nel corpo del padre violento. Per l’omicidio di primo grado le regole del processo sono assai severe: qualora sussista un solo dubbio sulla colpevolezza del giovane imputato, la giuria dovrà emettere un verdetto di non colpevolezza, altrimenti, senza possibilità di appello, la sedia elettrica diverrebbe il certo destino dell’accusato; inoltre, qualunque sia la decisione di ciascun giurato, “il verdetto deve essere unanime”.

Ma chi sono i dodici uomini arrabbiati citati dal titolo originale della pellicola (Twelve Angry Men), messi a dura prova dalla giornata più calda dell’anno? C’è il presidente della giuria, colui che si dà un gran da fare perché tutto si svolga presto e bene: chi lo interpreta è Martin Balsam, a cui, qualche anno più tardi, Lumet affiderà un ruolo per certi versi analogo proprio in Assassinio sull’Orient Express, dove interpreta il signor Bianchi (Bouc nell’omonimo romanzo), colui che disporrà le cose in modo che Hercule Poirot possa svolgere le proprie scrupolose indagini dopo che Bianchi, dirigente della compagnia ferroviaria su cui il detective sta viaggiando, lo prega di risolvere il caso.

C’è il colletto bianco che ha difficoltà a manifestare il proprio punto di vista perché intimidito dall’aggressività dei più determinati. C’è l’agente di cambio, vestito in maniera impeccabile, che mal digerisce di essere interrotto o rettificato nelle proprie asserzioni, ossia l’uomo a cui, a torto o a ragione, difficilmente potresti far cambiare opinione. C’è il pacato uomo che proviene dai quartieri malfamati, della cui violenza è ancora nauseato, e per il quale tutta la vicenda ha il sapore di un amaro ritorno al passato: percepisce come rivolti a se stesso i discriminatori giudizi sulle origini dell’imputato, incassando la solidarietà del giurato immigrato dall’Europa, un orologiaio anch’egli vittima di qualche commento sprezzante sulla sua provenienza, ma allo stesso tempo pronto ad elogiare la democrazia che lo ha accolto, dal momento che i dodici sono “stati […] invitati per posta a venire in Tribunale a decidere sulla colpevolezza o l'innocenza di un uomo […] mai visto prima. Non [hanno] nulla da guadagnare o da perdere col […] verdetto. È proprio per questo [che essi sono] forti”.

C’è il pubblicitario che si sente fortunato perché è capitato loro un interessante caso d’omicidio, anziché i noiosi reati di rapina o di furto, e che resta favorevolmente impressionato, data la sua professione, da come il procuratore generale ha esposto i fatti, chiarendoli punto per punto. C’è quello che ha venduto marmellate per ventisettemila dollari nell’anno precedente e che ha una fretta del diavolo, dato che c’è la partita Yankees-Cleveland allo stadio ad attenderlo.

Stanco di perdere tempo è anche il tizio che, mentre gli altri discutono, “ha tre autorimesse che vanno in malora”, un tipo dalle fattezze che ricordano quei personaggi in voga nell’epopea dei western, inclini al facile linciaggio, piuttosto che ricorrere ai tempi lunghi disposti dalle leggi e dallo svolgersi di regolari processi. C’è quello che nella vita è abituato solo a lavorare sodo e a non fare quasi mai supposizioni, lasciandole al suo principale, ma che non sopporta che si manchi di rispetto al giurato più anziano, un vecchietto simpatico dalla spiccata empatia e con la vista di un falco, doti necessarie, come si vedrà, per dubitare delle dichiarazioni dei due testimoni-chiave su cui poggia la solida accusa iniziale. C’è quello che ha partecipato più di una volta a una giuria, ma questo pare che non abbia placato la sua sete di giustizia/vendetta ed è sicuramente il più convinto nel punire il ragazzo a costo dell’applicazione della pena capitale: Lee J. Cobb, il cattivo in Fronte del porto come nell’italiano Il giorno della civetta, che appare come un invecchiato e abbrutito Stanley Kowalski de Un tram che si chiama desiderio, e che non sopporta nessuno, soprattutto i giovani, a cominciare dall’unico figlio andato via di casa dopo un feroce litigio.

E c’è Scott, il giurato numero otto, partendo dal presidente e procedendo in senso orario, il solo a nutrire una serie di ragionevoli dubbi e per questo il solo che, nella votazione preliminare, si distingue dagli altri. Come il resto dei componenti della giuria, Scott ha ascoltato i fatti, ma non gli è bastato e si è risolto persino a compiere un atto illegale la sera precedente pur di sapere ciò a cui una verità processuale non approda e dimostrare così agli altri che una coincidenza, per quanto improbabile, è comunque possibile. Lo scetticismo di Scott, un Henry Fonda che è anche produttore del film, è la forza motrice della storia, quel tarlo nelle coscienze dei con-giurati, già pronti, chi con qualche flebile perplessità, chi con energica determinazione, a porre in essere una versione aggiornata dell’applicazione del codice di Hammurabi. Del resto, molto appropriato è l’accostamento che gli studiosi catalani Jordi Balló e Xavier Pérez proposero tra il giurato e la figura di Antigone, basando le loro asserzioni su un sentimento di “pietas […] intesa a partire da una certa femminilizzazione del personaggio: umiliato dalle reazioni archetipicamente mascoline del resto dei membri della giuria, il protagonista del film soffre costantemente la vessazione fascistoide dei suoi compagni” (Balló, Pérez, 1999). Eppure egli va avanti, tra i suoi scrupoli che fanno da supporto ai suoi ragionamenti, chiedendo un’altra votazione, stavolta segreta, alla quale egli non partecipa, promettendo di uniformarsi a un verdetto di colpevolezza qualora non sia riuscito a far cambiare opinione ad almeno un altro giurato. Gli undici pezzi di carta vengono scoperti dal presidente nella speranza, per Scott, che la catena dei tanti guilty, ossia colpevole, inesorabili come dei pollici versus alla Nerone, venga interrotta da un not guilty, che il doppiaggio italiano traduce, inspiegabilmente, con il termine innocente.

Al di là del fatto giudiziario, scardinare le certezze incrollabili degli altri va di pari passo con il tentativo di minare i loro pregiudizi radicati. Pregiudizi riflessi anche nello stesso lavoro di Lumet: i giurati sono tutti uomini e tutti bianchi. Quanto al colore della pelle, va ricordato che quando il film uscì nelle sale, ossia nel 1957, il presidente Dwight D. Eisenhower, al suo secondo mandato, fu costretto ad inviare, a Little Rock, capitale statale dell’Arkansas, un migliaio di paracadutisti, pur di garantire l’ingresso a scuola di nove studenti di pelle nera, minacciati dalla popolazione locale di pelle bianca (cfr http://www.ilpost.it/2011/10/21/little-rock-nine/).

Occorreranno dieci lunghissimi anni, affinché la Corte Suprema sancisca la fine di ogni forma di segregazione razziale. Quanto alle questioni di genere, è opportuno citare le parole dello stesso Lumet, scritte nella prefazione di un suo saggio, Fare un film, (Lumet, 2010) quasi a giustificarsi per la mancata presenza di donne nella sua opera: “Quando ho iniziato a fare film, gli unici lavori accessibili alle donne erano quelli di segretaria di edizione oppure impiegata nel settore del montaggio [e, in particolare, riguardo a La parola ai giurati] a quell’epoca le donne potevano essere esonerate dai doveri di giurato semplicemente perché erano donne. […] Molte delle persone che oggi lavorano nel cinema sono cresciute in un mondo molto più attento all’uguaglianza di quanto non fosse il mio”(Lumet, 1996).

 


 

LETTURE

  Balló Jordi, Pérez Xavier, I miti del cinema. Semi immortali, Ipermedium, Napoli, 1999.
Christie Agatha, Assassinio sull’Oriente Express, Mondadori, Milano, 2009.
De Santi Gualtiero, Sidney Lumet, La Nuova Italia, Firenze, 1987.
Lumet Sidney, Fare un film, minimum fax, Roma, 2010.

 


 

VISIONI

  Damiani Damiano, Il giorno della civetta, Warner Home Video, 2013.
  Lumet Sidney, Assassinio sull’Orient Express, Universal Pictures, 2012.
  Kazan Elia, Fronte del porto, Universal Pictures, 2011.
  Kazan Elia, Un tram che si chiama desiderio, Warner Home Video, 2012.