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ASCOLTI / WE KNOW NONSENSE


di The 49 Americans / Staubgold, 2013


 

Frattaglie e ideali senza senso

di Gennaro Fucile

Non erano una band come le altre, forse non erano una band. Non tutti erano dei musicisti professionisti, anzi alcuni non erano affatto musicisti. Si facevano chiamare The 49 Americans, ma di americani ce n’era uno solo e neanche viveva negli Stati Uniti. A voler essere precisi non erano neppure quarantanove, nessuno sa esattamente quanti fossero, perché c’era chi passava e andava e c’era chi si fermava, strimpellava qualcosa e poi via. Insomma: “Pensare a The 49 Americans come a una band nel senso consueto della parola è un sistema sicuro per non capirci niente”. Così si legge – l’avvertenza è di David Toop – nel prezioso booklet incluso nella ristampa del loro ultimo album, We Know Nonsense, uscito originariamente su Choo Choo Train nel 1982. Una serie di schegge, ricordi imprecisi, inattendibili sottolineature in ordine sparso, dal titolo The Incompeteable Story of 49 Americans, da cui arrivano anche tutte le citazioni che seguiranno dei protagonisti di questa storia. La riedizione, in diversi formati, la si deve all’etichetta Staubgold, che a sua volta tiene vivo lo spirito eccentrico che trasversalmente anima tutte le musiche di confine, decidendo di festeggiare il quindicesimo anno di attività ripubblicando l’intero catalogo della squinternatissima combriccola: il maxi 45 giri, The 14-Track Single e l’Ep, Too Young To Be Ideal, entrambi in formato liquido, il primo album, E Pluribus Unum (ribattezzato Wonder nella precedente edizione digitale dell’etichetta giapponese Saidera Records) in vinile e il terzo e ultimo Lp, il citato We Know Nonsense sia in vinile sia in cd. Quest’ultimo offre, oltre ai diciassette brani dell’album originale, ben ventitré bonus track: l’intero The 14-Track Single e parte di E Pluribus Unum (dieci brani, indicati come provenienti da Wonder). Voilà, cercando di fare ordine si è riscivolati nel caos originario caro alla no-band dei 49 Americans. La loro storia inizia nella seconda metà degli anni Settanta, quando tale Giblet (ovvero: rigaglie, interiora, in seguito si capirà perché, ndr). incrocia in una imprecisata festa punk o new wave (i suoi ricordi sulla faccenda sono vaghi) tali Nag, Bendle e Igor, dei personaggi piuttosto eccentrici, con quei nomi che sembrano tirati fuori di peso da una pièce beckettiana, notando che quando smettono di strimpellare sono lì a “fare cose strane, tipo mettersi a correre per il palcoscenico fra un’esibizione e un’altra”. Non finisce lì, perché era destino: “In seguito mi capitò di incontrarli che cantavano rumorosamente nella metropolitana, per soldi. Mi unii a loro cantando una o due canzoni mie. Così facemmo amicizia e io scoprii che vivevano tutti lì vicino, avevano la loro casa, le loro band e la loro etichetta: la N.B. Records”.

Chi erano costoro? Giblet in realtà si chiama Andrew Brenner, almeno fino a quando da Key West, Florida, dove è nato, non si sposta a Londra. Sin da adolescente ha voglia di fare musica in qualche modo, e a scuola forma la sua prima band, Buddy Hernie and the Rickets, non appena si rende conto che “Per formare una band bastava conoscere tre accordi, che una fanzine si faceva con le fotocopie e riversare una cassetta su un disco di plastica era già fare una casa discografica”. Brenner entra a far parte del sottobosco delle cosiddette DIY (Do It Yourself, ndr) Recordings, ovvero il fai da te in musica.

Nag e Bendle, a loro volta suonavano in una band della stessa pasta, The Door and the Window, che, ricorda Bendle: “ci consentiva di indulgere al nostro interesse per il suono e per il rumore. Potevamo suonare le nostre cose e sembrava che avessimo anche trovato un mercato per i nostri dischi, ma non eravamo capaci di suonare niente di convenzionale”. Giblet, le porte e le finestre si piacciono subito e si ritrovano spesso a collaborare in varie balzane iniziative, tra le quali si segnala un “Concerto di beneficenza per il dubbio” in Hyde Park. Poi a Giblet viene la grande idea: realizzare un 45 giri firmato 49 Americans. Ricorda sempre Giblet: “L’idea di un 45 giri con quattordici canzoni nasceva dal desiderio di offrire il più possibile: la quantità prima, poi la qualità! Volevamo essere generosi con la nostra musica, e generosi l’uno con l’altro, dimenticando i nostri punti deboli, e generosi con il pubblico. La N.B. Records aveva l’abitudine di stampare il prezzo dei dischi sulla copertina, così i negozi non avrebbero potuto farli pagare più di quello che avevamo inteso noi. Quattordici, secondo i miei calcoli, era il numero massimo di canzoni che potevano stare su un 45 giri di vinile. Mi avevano detto infatti che una faccia poteva tenere un massimo di sette minuti”. E Nag aggiunge: “Mi ricordo che gioia fu registrare il 45 giri più lungo del mondo: quattordici canzoni, ognuna di cinquantotto secondi esatti, e tutte registrate su un registratore a cassette da due soldi con un microfono a condensatore incorporato. Battemmo, grattammo e soffiamo in tutto quello che ci capitò in mano, anche strumenti giocattolo, con un gruppo di amici nostri e qualcun altro che non avevo mai visto prima, qua e là nelle camere e nelle cucine di questo o quello, nel corso di qualche settimana… e poi pubblicammo il tutto su un 45 giri della nostra etichetta… e la gente lo comprò… e uscirono recensioni sulle riviste specializzate!”. Per la cronaca parteciparono alle jam session anche alcune mamme, quella di Giblet, quella di Igor… i 49 Americans erano nati. Erano frutto dell’onda lunga del punk, del ritorno alle origini, alla purezza della musica giovanile, erano eredi di una vena di follia e stravaganza che da sempre come un doppio segue la musica rock. Vengono in mente gli outsider antologizzati da Irwin Chusid nel suo (libro + cd) Songs In The Key Of Z, quelli più famosi come Captain Beefheart, Daniel Johnston  e Joe Meek e quelli assolutamente sconosciuti come Wesley Willis, Shooby Taylor, The Shagg, o Lucia Pamela. I 49 Americans erano anche figli del desiderio mai spento di abbattere le recinzioni e dopo un decennio di grandi sperimentazioni, di osmosi tra i generi, di contaminazioni e di esplorazioni, dopo aver preso dimestichezza con i nuovi strumenti elettronici, con le culture extra-europee, dopo aver sconfinato nei territori delle avanguardie accademiche, a tutti i detriti rock si poneva la domanda delle domande: che fare? I 49 Americans si avviarono dritti nella direzione di una specie di art (rock) brut, la medesima che tra le mura domestiche aveva visto Jean Dubuffet realizzare le sue Expériences Musicales nel 1961, con un armamentario che comprendeva pianoforte, armonica a bocca cinese, violoncello, violino, ghironda, flauto, xilofono a strumenti cymbalon e anche una “tromba di carta”. Amatoriale, rudimentale, l’approccio di Dubuffet alla musica sembra il più remoto e attendibile precedente per questa buffa compagnia. “Gli autori di Art Brut sfuggono al condizionamento artistico e al conformismo sociale. Creatori autodidatti, essi concepiscono di sana pianta un sistema espressivo personale e producono dipinti, disegni, sculture, ricami e scritti al di fuori delle norme. Ignorano le convenzioni sociali, sono refrattari ai codici culturali, trasgrediscono volontariamente o no regole stabilite” (Peiry, 2011).

Le cose potrebbero rientrare nella congettura di Jorge Louis Borges: “Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro”. Assumiamolo per valido anche in ambito musicale. Naturalmente fioccarono i commenti che stroncavano senza appello i 49 Americans. Si scrisse che si era “annegati nella percussione di bollitori e tegami”, che si trattava di “una cordiale sciattezza” e che si era di fronte al “dilettantismo assurto a virtù materiale anziché spirituale”, ma, come ricorda Nag, loro li ritenevano dei complimenti. Vengono in mente le parole di Dubuffet: “Ognuno ha i propri gusti. A me piace il poco (corsivo dell’autore, ndr). Mi piace anche ciò che è embrionario, mal rifinito, imperfetto, composito. Preferisco i diamanti grezzi, con le loro scorie. E i rospi” (Dubuffet, 1967). In ogni caso, loro, i 49 Americans a Dubuffet e Borges neanche ci pensavano. Seguendo un improbabile percorso partendo dalle loro bizzarrie e dal loro spirito punk finirono dalle parti della nuova musica improvvisata inglese, erede dei grandi free improvisers, come Derek Bailey, Evan Parker, John Stevens, Paul Rutherford, Barry Guy, Trevor Watts e le varie formazioni cui diedero vita, Iskra 1903, Spontaneous Music Ensemble, Company ecc., che dalla seconda metà degli anni Sessanta avevano allestito. Autentici pionieri. Al loro fianco, nel periodo compreso fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, nel Regno Unito, entrò in azione una seconda generazione di improvvisatori che operavano in strutture cooperative e collettivi. Tra questi il London Musician Collective giocò un ruolo importante sulla scena della musica improvvisata e anche nella storia dei 49 Americans.

Buona parte della nuova ondata di giovani improvvisatori ridiscusse la relazione che da esploratori sonori dovessero assumere nei confronti dei diversi idiomi musicali precodificati, anche rispetto ai generi più leggeri, e si interrogarono su come porsi nei confronti del pubblico, in buona sostanza della forma delle loro performance. Rifacendosi in parte a quanto già sperimentato dagli storici improvvisatori olandesi ruotanti intorno alla pionieristica cooperativa Instant Composers Pool di Han Bennink, Misha Mengelberg e in una prima fase Willem Breuker, questi musicisti presero a utilizzare strumenti inventati o riscoperti, a popolare i loro concerti di giocattoli, palloncini, fischietti e a impiegare sempre più strumenti elettrici con il passaporto rock. In seguito ampliarono la strumentazione arricchendola con le prime tastiere digitali, piccoli e primordiali campionatori e batterie elettroniche. I musicisti che spiccano in questa covata si chiamano Max Eastley, Paul Burwell e i membri di un gruppo denominato Alterations: Steve Beresford, David Toop, Peter Cusack e Terry Day. In particolare Toop e Beresford avevano già effettuato delle incursioni tra new wave e dub nel 1980, collaborando con i Flying Lizards e Prince Far-I. Toop aveva anche condiviso con Eastley uno dei dieci titoli della collana Obscure inventata da Brian Eno e che portava un titolo eloquente: New And Rediscovered Musical Instruments (l’anno era il 1975). Tutto il giro si autoproduceva gli album grazie a piccole etichette autogestite come la Quartz (fondata da Toop) e la Bead. Tra il 1979 e il 1982, Toop e Beresford registrano del materiale in seguito prodotto da David Cunnigham dei Flying Lizard (la brigata è sempre la stessa) a nome General Strike. Ne salterà fuori nel 1984 una cassetta, Danger In Paradise – grazie a un’altra etichetta di musiche borderline, la Touch –, nella quale giocano pestando insieme dub, pop e punk. Tra gli ospiti fa capolino il grande ineffabile uomo senza qualità della scena creativa inglese, Lol Coxhill. Toop, Beresford e Coxhill agivano anche sotto mentite spoglie (Steve Topp, Stuart Barefoot e Loxhaw Rondeaux) in una bizzarra formazione dedita a suonare insostenibili standard, hit e tradizionali in singolari medley, tra cui Moon River, The James Bond Theme, Louie Louie e la Eine Kleine Nachtmusik mozartiana. E qui le due storie si congiungono. Nel 1980, Nag e Bendle scoprono il London Musician Collective (LMC) e invitano Giblet a fare altrettanto. Lui ricorda: “Mi riferirono anche di certi musicisti che avevano conosciuto e che erano stati incoraggianti, come Steve Beresford e David Toop. Dicevano addirittura di apprezzare The 49 Americans! Nag e Bendle mi dissero che avrei dovuto andare a incontrarli”. Nel frattempo esce il primo album della congrega. Annota Giblet: “Da una canzone all’altra la formazione cambiava e a ciascuno era stato fornito un complesso diagramma in cui era indicato l’ultimo ad aver suonato un certo strumento e quello che l’avrebbe suonato dopo di lui. Un caos. Le canzoni durarono poco meno di tre minuti, la preparazione fra l’una e l’altra circa cinque”.

Giblet si decide a fare conoscenza con questi musicisti, sperimentatori e iconoclasti. “Andai a presentarmi a Steve e Davis al Brighton Art Festival nella primavera del 1980, loro suonavano sul lungomare come The Promenaders. Nella band c’erano improvvisatori free del LMC, molti dei quali avrebbero poi suonato on The 49 Americans: Lol Coxhill al sax soprano (cantava anche), Steve Beresford all’euphonium, Peter Cusack alla chitarra, Paul Burwell alla batteria, Terry Day al violoncello e Max Eastley e David Toop al violino africano monocorda. I Promenaders suonavano canzoni in una grande varietà di stili. La mia preferita era Won’t You Play A Simple Melody?, con un interludio tibetano. Beresford ricorda la faccenda più o meno così: “A Brighton, dove suonammo sulla spiaggia con The Promenaders, ci venne incontro un giovanotto con una T-shirt su cui era stampata per intero la ricetta del pollo alla supreme. L’ultima parola della ricetta era «giblets» (ecco le frattaglie, ndr) e con quel nome il giovanotto si faceva chiamare dai suoi amici, «Giblet». Anzi, mi sa che non è andata affatto così, ma questo è quello che ricordo”. Insomma un po’ di relativismo alla Rashomon non guasta in questa faccenda. Fatto sta che le affinità elettive ci sono, eccome. Toop, Beresford, Eastley e Burwell partecipano al loro secondo Lp, Too Young To Be Ideal, dopodiché i 49 Americans concepiscono il loro progetto più ambizioso e definitivo: We Know Nonsense, pensato per avere anche un suono di qualità superiore e delle parti strumentali eseguite con maggior perizia da musicisti professionisti.

Nella solita folla di personaggi che passeggia tra e dentro le registrazioni, si mettono in evidenza oltre ai membri storici e quelli dell’LMC anche Viv Goldman, Viv Albertine delle Slits e Lol Coxhill. Più e meglio che in passato nel frullatore finiscono rockabilly, disco, lounge jazz, doo wop, funky, samba, bossanova, kwela, calypso e new wave. I diciassette brani meritano tutti un cenno.

Il disco apre con un formidabile ballabile, Doo-Bee-Doo-Bee, afro-bossanova, con la voce malinconica quanto basta di Etta Saunders cui fa da contraltare il flicorno di Beresford. Alle percussioni si scopre l’ineffabile Coxhill. Neanche il tempo di lasciarsi andare che arriva It Is And It Is, un rock’n’roll genuino, un tanto di Bill Haley e un tantino di Bo Diddley e di seguito ecco una stanca ballad, Edible, con Coxhill al sax tenore, un piano giocattolo suonato da Steve Beresford e sempre l’ammaliante voce della Saunders a condurre le danze. Si svolta di nuovo con Verbal Culture ovvero come avrebbero suonato i Velvet Underground negli anni Cinquanta con tanto di organetto e particina corale alla Cabaret Voltaire. Il quinto brano avrebbe potuto essere il grande successo dei 49 Americans: Liberty. il vero motivetto che non si scorda mai, con Toop al flauto, piano, Beresford all’euphonium, un paio di incursioni di Coxhill al soprano e Giblet che si rivela crooner di razza. Tocca a lui aprire con una cantilena la title track per poi lasciare la scena a Etta Saunders, che sembra fare il verso a Nico. Tutto da ballare al chiaro di luna è l’interludio Tendency To Lie, affidato alla voce di Eddie Saunders. Il disco sembra essere così precipitato indietro nel tempo di buoni vent’anni, ma è questione di un attimo e poi arriva Glimpse Go By, genuino disco-funk con tanto di percussioni no-wave, un frappè di Talking Heads e Gang Of Four e con il basso ossessivo di Beresford. Nella traccia successiva, It’s Time, si cela tutta la poetica dei 49 Americans, che accompagnati da due penny whistle (flauti irlandesi a fischietto con sei fori, ndr) cantano: “Is Time To Look For Fun / Happy Music / Doesn’t Have To Be Dumb”.

L’impeccabile soprano di Coxhill apre la successiva Mon Nuisance che si avvale di un testo misto franco-anglofono. Vi regna un’atmosfera tropicale, così come parecchio exotica è la bossa di Taste, affidata a Peter Cusack (chitarra acustica e voce) accompagnato da Toop (chitarrina, flauto alto, percussioni) ed Eastley (percussioni). Si torna alle origini (rockabilly e rhythm and blues) con Imagination. C’è sempre la Saunders a fare da chanteuse, mentre nella successiva Do entrano in azione cinque voci a cappella. Irresistibili poi la marcetta e la cantilena di I Be Later, sottolineata dall’euphonium (sempre Beresford) e il sax tenore (Coxhill). Si torna su alte temperature con Move Around All Day, tra funky e new wave come in quei giorni mescolavano i Contorsion, I Defunkt, i Rip, Rig & Panic e inevitabilmente i Talking Heads. Sorprendenti Terry Day al sax alto e Coxhill addirittura al baritono. Altra filastrocca dal finto tono svogliato è Free Trade, un J’accuse contro lo shopping compulsivo. Chiude il pigro calypso Mummy Was A Record Player, riportandoci all’origine della storia, a quando Giblet ascolta i primi dischi e si convince che potrà fare musica anche lui un giorno, perché: “Io, da bambino, mi ero infilato dietro il divano, dove i miei genitori tenevano i dischi, e avevo ascoltato colonne sonore, cantanti folk, musica africana, Harry Belafonte, Miriam Makeba, Ella Fitzgerald e Bob Dylan. Quest’ultimo era l’esempio che sempre i miei mi facevano per convincermi a non smettere di scrivere canzoni: nemmeno Dylan cantava bene. Mia mamma ascoltava molti dischi”.

Il brano chiude facendo il verso alle campane che suonano a festa e la concludono, perché qui termina la storia dei 49 Americans. Chiusa l’esperienza, Giblet si ritrovò a comporre i testi delle canzoni scritte da Beresford nei dischi omaggio che questi realizzò negli Ottanta per l’etichetta Chabada e in altri album della label sorella, Nato. Album dedicati a Doris Day, Charles Trenet, che andavano di pari passo con quelli dei Melody Four (il trio Beresford, Coxhill e Tony Coe), un cocktail di musiche d’antan e spirito gigionesco. Nei dischi omaggio, Beresford affiancava ai classici dei brani che suonavano “alla maniera di” e per i quali si avvaleva dei testi di Brenner/Giblet. Si ritrovano ancora insieme fino a metà degli anni Novanta, poi Giblet diventa immateriale, materializzandosi giusto per scrivere le note citate e queste considerazioni:

 

“The 49 Americans fu un esperimento di diversità”.

 

“The 49 Americans fu un esperimento di democrazia”.

 

“The 49 Americans fu un esperimento di idealismo”.

 

“The 49 Americans fu un esperimento di libertà”.

 

“The 49 Americans fu un esperimento di ricerca della felicità”.

 

Questo è tutto.

 


 

ASCOLTI

  AA.VV., Songs in the Key of Z: The Curious Universe of Outsider Music, Gammon Records, 2002.
Dubuffet Jean, Expériences Musicales de Jean Dubuffet (II), Rumpsti Pumsti Music, 2012.
The Flying Lizards, The Flying Lizards/Fourth Wall, RPM, 2010.
The 49 Americans, E Pluribus Unum, Staubgold, 2013.
The General Strike, Danger In Paradise, Staubgold, 2012.
The Promenaders, The Promenaders, Y Records, 1982.
David Toop, Max Eastley, New And Rediscovered Musical Instruments, Virgin, 1997.

 

LETTURE

  Borges Jorge Louis, Kafka e i suoi precursori, in Altre inquisizioni, in Tutte le opere, vol. 1, Mondadori, Milano, 2001.
Dubuffet Jean, Avant-project d’une conference populaire sur la peinture, in Prospectus, et tous écrits suivants, Gallimard, 1967.
Peiry Lucienne, Uno sguardo sull’Art Brut, in AA.VV. Nannetti, Collection de l’Art Brut, Losanna, 2011.