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ASCOLTI / THE JOE MEEK STORY


di Joe Meek / Notnow, 2012


 

Un quaderno d'altri tempi

di Marco Bertoli

L’idea di un tecnico del suono che non faceva come gli veniva detto, anzi, smanettava proprio per distorcere le cose… quello per me era un mondo nuovo.

Humphrey Lyttelton, 1991

 

Telstar! Una canzone meravigliosa, piena di vita.

Margaret Thatcher, nell’indicare alla BBC la sua canzone preferita.

 

If it sounds right, it is right.

Joe Meek, 1964

 

I.

Per scrivere di Robert “Joe” Meek converrà cominciare dalla fine, se addirittura non è inevitabile: il 3 febbraio 1967 l’intraprendente produttore discografico non ancora trentottenne rese destinataria di una fucilata mortale la sua padrona di casa, Mrs Violet Shenton, quindi se stesso, decorando con il farraginoso contenuto della sua scatola cranica una parete dello studio-abitazione al 304 di Holloway Road, a Londra, residenza solennizzata poi da un’iscrizione tacitiana: Joe Meek lived, worked and died here. Quel giorno di febbraio, a non troppa distanza da Holloway Road, i Beatles stavano registrando A Day in the Life.

 

II.

Campagnolo di nascita e di famiglia, Meek era stato fin da piccolo an indoor kid, un ragazzo che se ne stava bene chiuso in casa, da solo; che allestiva pantomime con amici e famigliari, precocemente (fatalmente, uno direbbe) affascinato da grammofoni e apparecchi radio. Gli anni Cinquanta lo trovano a Londra, a lavorare prima in alcuni negozi di apparecchiature elettroniche, quindi come tecnico del suono di ruspante formazione per gli studi IBC. Fu qui che nel 1956 Meek curò la registrazione di un disco di Humphrey Lyttelton, cara e gloriosa bandiera del trad jazz britannico. Bad Penny Blues, destinato a un grande successo, vide la luce sotto cattivi auspici, che merita riferire riportando le parole di Lyttelton come raccolte dalla BBC nel 1991:

“Di solito, per il jazz, si usava un microfono solo e si cercava il suono più naturale possibile, senza tanti pasticci. Joe registrò di proposito troppo forte la batteria con le spazzole, e fece un’altra cosa molto particolare: distorse la figura suonata dal pianista con la sinistra. Quelle ottave ascendenti, nel disco, suonano strane, perché non era quello il suono che usciva dal piano. Se non mi fossi trovato in vacanza, se ci fossimo tutti riuniti per ascoltare il playback, credo che mi sarebbe venuto un accidente. Avrei detto, «È terribile! Hai ripreso la batteria troppo forte, non voglio. E non voglio nemmeno il piano, così forte». Invece io non c’ero, il disco uscì così e divenne un successo in Inghilterra; probabilmente, proprio per quelle ragioni” (The Strange Story of Joe Meek, 1991).

Già nel 1958, prima di affermarsi in patria, Meek aveva ottenuto un successo nelle classifiche di vendita americane con una canzone da lui scritta – non l’unica, vedremo, malgrado Meek fosse notoriamente stonato e musicalmente analfabeta –, Put a Ring on Her Finger, che Les Paul e Mary Ford registrarono con un titolo lievemente modificato, Put a Ring on My Finger.

Nel 1960 Meek lanciò la sua carriera di “produttore indipendente”, cosa all’epoca inusitata e pionieristica. Forse non ebbe molta scelta, visto che si era fatto terra bruciata intorno con i suoi modi di fare vagamente caratteriali, quando non francamente violenti (non aiutava il suo equilibrio interno l’omosessualità vissuta nei modi surrettizi che la società del tempo imponeva).

Casa e bottega vennero trasferiti su tre piani di Holloway Road, resi intercomunicanti con un sistema di altoparlanti interni e stipati all’inverosimile di apparecchiature per la registrazione e l’elaborazione del suono, in molti casi realizzate da Meek stesso. Qui, come scrive Irwin Chusid,

“[Meek] si fece pioniere di tecniche di registrazione a basso budget ma sonicamente esplosive: la sua favorita, il sovraccarico del segnale fin oltre il punto di distorsione. Meek escogitò effetti sonori da due soldi usando pentole, pettini, bottiglie, il suono del water. Di quando in quando faceva a meno della grancassa e ordinava a una band di battere i piedi a tempo sull’assito del pavimento” (Chusid, 2000).

(come in Have I the Right degli Honeycombs, 1964, uno dei suoi grandi successi).

Il primo hit da n. 1 registrato e prodotto in Holloway Road fu Johnny Remember Me cantato da John Leyton & the Outlawse e lo si trova ora disponibile nell’opulenta antologia Joe Meek Story.

Leyton: “Ho registrato Johnny Remember Me nel soggiorno, dietro un piccolo paravento; con me c’era la sezione ritmica. I violini erano sulle scale, il coro praticamente al gabinetto, e gli ottoni addirittura al piano di sotto. In un’altra stanza stava Joe, che maneggiava i suoi macchinari come se fossero degli altri strumenti musicali” (http://www.youtube.com/watch?v=4tcS91fL8jQ).

Dei 250 singoli prodotti da Meek in questa maniera e pubblicati (molti restano di inediti), 45 si classificarono entro i primi 50. Il 1962 fu l’anno di Telstar, un pezzo strumentale eseguito dai Tornados, quartetto che Meek considerava la propria creatura. Telstar sarebbe stata ripresa negli anni da innumerevoli artisti in Europa e in America. Si tratta ancora di una composizione di Meek, ma questa così perfettamente riuscita nella sua singolarità da aprire un nuovo, inquietante fronte di enigma nella sua vita e nella sua carriera.

Telstar intendeva celebrare il primo satellite per telecomunicazioni, messo in orbita quell’anno. Il disco vive di tutte le suggestioni “spaziali” e fantascientifiche del periodo e ben difficilmente lo si potrebbe immaginare prodotto in un qualsiasi altro periodo della musica popolare registrata. Nel suo ingenuo ma ispirato bric-à-brac rumoristico, risultato di una tecnica, prima ancora che analogica, di bricolage, Telstar suona misteriosamente, struggentemente nostalgico. Così ne ha scritto, con poetico insight, Tom Ewing:

“[…] il suo ottimismo avido e incondizionato è allo stesso tempo ispiratore e dolceamaro; ispiratore, perché Joe Meek scrisse [nel 1962] un inno a un futuro migliore di quello che lui o noi abbiamo poi conosciuto, e il mondo lo ascoltò. Dolceamaro, perché le valvole e le camere d’eco, i quadranti, i marchingegni tenuti insieme col nastro adesivo e con lo sputo con cui Meek aveva confezionato il suo futuro avevano già cominciato a creparsi e ad andare alla malora.

Telstar – uno splendido shock modernista alle classifiche del pop – è ancor oggi eccitante, ma suona, simultaneamente, antico e sperduto nel tempo, fiero e triste come un vecchio albo a fumetti” (http://freakytrigger.co.uk/popular/2004/11/the-tornados-telstar/).

Telstar arrivò alla sua uscita primo nelle classifiche americane, assumendo il ruolo storico di avanguardia della British invasion guidata dai Beatles pochissimi anni dopo. Meek non trasse vantaggio da questo successo improvviso: l’anno dopo, un oscuro compositore francese gli intentò una pretestuosissima causa per plagio che gliene congelò le royalties e che si sarebbe conclusa, a favore di Meek, solo dopo la sua morte.

Fu forse questo il colpo decisivo all’equilibrio di Meek, questo e un arresto per adescamento nel 1964. Con il sostanziale concorso di un abuso di amfetamine, il produttore riuscì ad allontanare da sé anche i pochi amici fidati, come il musicista e collaboratore di lunga data Dave Adams: “Eravamo quasi tutti convinti, noi che gli eravamo vicini, che Joe avrebbe prima o poi incontrato una morte violenta” (Chusid 2000).

 

III.

Joe Meek e la “sua” musica si collocano con tanta proprietà entro la loro epoca, diciamo meglio il loro decennio, da trovarvisi addirittura incastonati. La figura di Meek sperimentatore di tecniche d’incisione, nella persona di un ingegnoso naïf, ne ha fatto un idolo ambiguo nei circoli ancora più ambigui dei cultori di incredibly strange music o outsider art, dove non è raro vedere affiancati Sun Ra e Charles Ives, le Shaggs e Harry Partch, Lucia Pamela e Captain Beefheart.

Ma un tratto così evidente da passare inosservato separa Meek da tutti costoro: l’inglese non era musicista, al di là dell’eccezione (ripetiamo: misteriosissima) di Telstar, era “solo” un produttore, un tecnico della ripresa sonora. Sì, certo, produttore capofila di quelli che, come il coevo Phil Spector, avrebbero dato un’impronta personale e fortissima alla musica popolare a cominciare dalla metà degli anni Sessanta: Mickey Most, Berry Gordy e naturalmente George Martin, il “quinto Beatle”.

Ma proprio nel confronto con Martin si va a toccare il punto nodale della questione. Se non qualche pervicace bastian contrario o complottista, non vi è chi seriamente pensi di espropriare i Beatles della paternità delle loro musiche, George Martin meno di chiunque altro. Eppure il suo contributo ai dischi dei Beatles, in primo luogo come arrangiatore, è molto più inequivocabilmente musicale di quello di Meek a qualunque dei suoi tanti e oggi dimenticatissimi “artisti”.

Non si tratta qui, ci pare, di un carisma particolare di Joe Meek né, Dio liberi, di un suo particolare talento (anche quello di talent scout mancava, al Giove di Halloway Road, che consegnò al cestino demo dei Beatles e dei Rolling Stones e che rimandò a casa inascoltato Tom Jones, giunto dal Galles a Londra per un’audizione). La spiegazione è da cercarsi nella natura interstiziale del suo lavoro. Meek, senza minimamente immaginarlo, si era avvicinato più di chiunque prima di lui al discrimine fra musica novelty e quella che di lì a poco si sarebbe chiamata psichedelia e che sarebbe toccato ad altri esplorare. Alla musica novelty e al genere quintessenzialmente british del music-hall risalgono direttamente tantissimi dischi prodotti da Meek, dal melodrammatico Johnny Remember Me, in cui sentiamo una specie di equivalente sonoro dei coloratissimi e cheap film horror-gotici di Roger Corman, a tunes allegrotti come Angela Jones, Along Came Caroline, What Do You Wanna Make Those Eyes At Me For a puri e semplici numeri di varietà come Three Coins in the Sewer, gorgheggiati, più spesso che no, male, dai vari John Leyton, Michael Cox, Emile Ford, azzimati giovanotti già vecchi anzitempo che la succitata antologia documenta perbene; o ancora alle derivate, sedate versioni insulari del rock’n’roll di Eddie Cochrane o di Buddy Holly. Meek si trovò quindi a lavorare, senza mai cercare niente di diverso, anzi, evitandolo con una sorta di predestinazione, su un materiale musicalmente di valore presso che nullo. È proprio in questo modo che poté applicare la sua magia sonora intemporale e, con il senno del poi, preveggente.

 

IV.

Le musiche grosso modo riunite nel sovragenere lounge, sceverabili nei generi exotica, space age music ecc., devono la loro qualità di suggestione, così liquida, visionaria, alla funzione dimessa alla quale si sono sempre offerti (almeno fino al momento della loro riscoperta dai circoli predetti): una funzione di sottofondo, di sonorizzazione, al più di trampolino sonoro, ambientale, per fantasie di ispirazione cinematografica. Al riparo di una considerazione musicale “seria” potevano così avvenire sperimentazioni musicali in realtà serissime e non di rado di valore. Alla space age Meek diede un contributo diretto, più che con Telstar, con il famoso o famigerato concept album I Hear a New World del 1959. Disco, molti anni dopo, celebratissimo, al centro dell’impegnativo studio di Barry Cleveland Creative Music Production: Joe Meek’s Bold Tecniques, e inserito nel 1998 da The Wire in un elenco di “cento dischi che incendiarono il mondo (ma che nessuno ascoltava)”. Disco francamente inascoltabile, musicalmente al di là del proponibile. Proprio per questo, tabula rasa sulla quale Meek poté fare agire, praticamente a nudo, tutte quelle sonorità, quegli effetti meccanico-elettronici, quelle irreali combinazioni di piani sonori che, in misura diversa a seconda della consistenza musicale sottostante, informano anche la sua produzione commerciale.

L’agire del Meek “produttore” (fino a farsi cripto-arrangiatore) ha luogo precisamente sul nulla, o meglio negli interstizi creatisi nella discrasia fra la scontatezza dei materiali e la novità inaudita del loro trattamento, e naturalmente dei procedimenti con i quali questo viene messo in atto. Meek attua una deformazione della realtà – in primo luogo per tramite di una ripresa non realistica del suono – senza accorgersi che quella realtà da lui distorta è così frusta, così musicalmente desemantizzata, da non esistere. Meek immagina e dispone dei tratti sovrasegmentali effettivamente inauditi per un discorso che non c’è, che è sintatticamente, grammaticalmente, lessicalmente inconsistente. Sarebbe stato con i Beatles “psichedelici”, cioè a cominciare da Revolver (1966), che un livello di “realtà” verificabile – musicale, ma anche psicologico – si sarebbe sottoposto alla deformazione della fantasia generando l’espressione propriamente psichedelica che a Meek, per un limite culturale e forse ancora più storico, era preclusa – come probabilmente lo sarebbe stata a George Martin, se le circostanze fossero state diverse.

Joe Meek, uomo sperso nel suo ambiente e nella sua epoca, omosessuale closeted, probabilmente bipolare e borderline, non trovò mai un livello di realtà a cui agganciarsi, in cui riconoscersi. Donde i sogni fantascientifici di I Hear a New World (che, è bene precisarlo, nulla hanno di musicale); donde le sue ossessive pratiche negromantiche, le sedute spiritiche in cui si era convinto di canalizzare Buddy Holly – morto anche lui, guarda un po’, un 3 febbraio. Lungo tutta la sua breve e inconsulta parabola, Meek restò legato a un’exotica senza luoghi esotici al di fuori delle sue confuse aspirazioni da outsider e di provinciale rancoroso; sganciata ormai da una tradizione di musica popolare invecchiata e tuttavia impossibilitata a fondarsi, per esempio, sull’umanesimo nativo e profondo della tradizione musicale afro-americana, come avrebbe in un modo o in un altro fatto il rock a venire, cominciando proprio dai Beatles. Escluso, o esclusosi, dalla società, Meek cercò la compagnia dei morti, le cui voci andava ricercando, armato di magnetofono, nei cimiteri.

È soprattutto per questo che tutto quello che riguarda Joe Meek sembra arrivarci, a una distanza di ormai mezzo secolo, come distorto o rifratto. Meek, ciò che di lui rimane nel suo lavoro e quasi a dispetto di esso, sembra sia riuscito a trovarsi sempre nel posto giusto al momento sbagliato. Probabilmente è questa, e non altra, la sua ragione di sopravvivenza e dell’interesse, piccolo o grande, che ancora oggi può suscitare: del 2005 è un lavoro teatrale dell’inglese Nick Moran ispirato alla sua vita e intitolato, inevitabilmente, Telstar, seguito poi da un film dallo stesso titolo, diretto da Moran, l’uno e l’altro accolti con molto favore.

 

V.

Joe Meek Comes Out

Uno degli ultimi dischi a portare la firma di Joe Meek (e l’ultimo disco dei Tornados, in formazione ormai completamente diversa da quella che nel 1962 aveva inciso Telstar) racchiude nel suo mezzo, nascosta in piena vista, l’unica, e per l’epoca eversiva, apertura sincera di Meek verso il mondo.

La canzone Do You Come Here Often? è il lato B dell’ultimo singolo dei Tornados. In una lieve e un po’ trasandata atmosfera da cocktail music, l’organo suona una versione appena contraffatta del vecchio successo di Bing Crosby I’m an Old Cowhand (l’aveva suonata anche Sonny Rollins in Way Out West, 1957). Passata la metà della facciata, al minuto 2:23, la musica sfuma rapidamente in secondo piano e ne emergono un parlottìo e un tintinnare di bicchieri, a significare l’ambience di un locale notturno. Assistiamo per il minuto seguente al dialogo-schermaglia di due uomini gay al bancone (“Do you come here often?”…), dialogo assolutamente inequivoco, anche piuttosto divertente, gergale, con intenzione appena calcata da parte dei due dicitori (Dave Watts e Rob Gale).

In fondo, l’ennesimo enigma di questo strano, continuamente affascinante personaggio.


 

ASCOLTI

 Joe Meek, I Hear a New World, RPM Records, 2001.
Joe Meek, Vampires, Cowboys, Spacemen and Spooks, Castle Music, 2007.

 

LETTURE

Adinolfi Francesco, Mondo Exotica, Einaudi, Torino, 2000.
Chusid Irwin, Songs in the Key of Z, A Cappella Books, Chicago, 2000.
Cleveland Barry, Creative Music Production: Joe Meek’s Bold Techniques, ArtistPro, Punta Gorda, 2001.
Hollings Ken, Benvenuti su Marte, Isbn, Milano, 2010.
Moran Nick e Hicks James, Telstar, Oberon Modern Plays, London, 2005.
Repsch Joe, The Legendary Joe Meek, Cherry Red, London, 2000.

 

VISIONI

Moran Nick, Telstar, HMV, 2009.
The Strange Story of Joe Meek, documentario, Arena, 1991 (http://www.youtube.com/watch?v=4tcS91fL8jQ).