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VISIONI / RANXEROX


di Stefano Tamburini, Tanino Liberatore e Alain Chabat / Comicon Edizioni, Napoli, 2012 / pp.207, € 22,00


 

La trasparenza del coatto

di Adolfo Fattori


 

Quando alla fine degli anni Settanta del secolo scorso Ranxerox, il “coatto sintetico” di Stefano Tamburini e Tanino Liberatore (con qualche incursione di Andrea Pazienza) apparve come una epifania per gli appassionati italiani di satira e fumetto prima su Cannibale poi su Il Male, si ratificò una rivoluzione: quella dell’uscita definitiva, per l’Italia, non solo dalla logica del fumetto come medium per gli adolescenti – già c’erano Tex (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 28), Diabolik (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 38) e tutta la galassia dei fumetti per adulti – , ma anche dall’equivoco del suo disimpegno sociale, politico, culturale – seppure in una forma tale da rivelarsi difficilmente governabile anche da parte della cultura “impegnata”.

Anzi, i due periodici, a cui bisogna aggiungere Frigidaire (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 17), furono gli araldi di una sacrosanta, invocata, necessaria politically uncorrectness, con buona pace delle anime belle di casa nostra, dei paludati bacchettoni che aborrivano tutto ciò che era “condannabile”, “da qualunque parte” venisse. L’ipocrisia regnava sovrana, ancora, nonostante i lasciti del Sessantotto e gli spasmi del Settantasette, il diritto al divorzio confermato pochi anni prima, la legge sull’aborto appena approvata – ed era trasversale: la difesa del “buon gusto”, della “correttezza”, unificava tutto il panorama istituzionale, quello che veniva chiamato “arco costituzionale” del “Paese nato dalla Resistenza” – oltre che naturalmente il mondo della cultura accademica.

Era, quella in cui appare Cannibale, ancora l’Italia del “pare brutto”, del “comune senso del pudore”, del “decoro” (di cui forse in anni più recenti abbiamo anche avuto una certa nostalgia), nonostante le mazzate date alla cultura tradizionale dalle trasformazioni in corso e dalla liberazione del desiderio e dell’immaginazione – seppur sotto l’egida del mercato (cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 14).

Si discute – in circoli ristretti, sia chiaro – della natura di merce dei prodotti estetici, di società dello spettacolo e di situazionismo, e si comincia ad orecchiare e a sussurrare di postmoderno, leggendo Alphabeta. E i materiali di Cannibale e poi del Male, la sua logica progenie, non solo sono sovversivi nella loro mancanza di limiti, ma fanno pensare al postmoderno perché sono contaminati (e contaminanti), ibridi, meticci – e sono il luogo di una ricerca e di una sperimentazione imprevedibili, irriducibili, incontenibili. E profondamente, ostinatamente, orgogliosamente scorretti. Culturalmente e politicamente. Insieme allo Zanardi di Andrea Pazienza e alla Suor Dentona di Filippo Scòzzari, perlomeno.

Non solo quindi la violenza materiale, ma anche l’irriverenza, la mancanza di rispetto, la blasfemia, l’insulto al pudore.

Ranxerox è un replicante prima ancora che nasca Roy Batty. Ma a differenza dell’eroe di Blade Runner (Scott, 2009) non ha nessuna nobiltà ed eleganza, nessuna leggerezza, nessuna etica, nessuna memoria da conservare, nessun padre con cui instaurare un rapporto di amore-odio.

È trucido, volgare, feroce. È un coatto, seppur “sintetico”, espressione anche nella Roma del futuro immaginata dal duo Tamburini-Liberatore di quel sottoproletariato giovanile ignorante, cafone, palestrato al ribasso delle periferie degradate di una città post-pasoliniana. Parenti di Giancarlo Ricci, giovane pugile tossico, persecutore del “canaro” Pietro De Negri, protagonista nel 1988 di un fattaccio di cronaca particolarmente raccapricciante di cui racconta benissimo Vincenzo Cerami nel suo Fattacci (1997).

Una delle tracce dell’Italia di quegli anni che cambia, insomma, perfettamente resa in questa raccolta finalmente integrale di tutte le storie del coatto sintetico, anche quelle introvabili o mai apparse in Italia.

Attorno al replicante ruota una dis-umanità degradata e mutata, dedita al crimine di bassa lega, al vizio, alla ricerca continua di una sopravvivenza marginale e improvvisata, mentre Ranxerox si dedica a soddisfare i capricci di Lubna, la sua giovanissima ma già scafatissima partner umana (?), a difenderla dai predatori che la minacciano, a fare sesso con lei e a proteggerla dai guai.

Lo scenario delle avventure dei due è – con qualche incursione all’estero – una Roma degradata e butterata dall’incuria, dall’affollamento, dall’abbandono, popolata di delinquenti e sbandati, ispirata alla Los Angeles dell’universo noir e thriller, ma spostata in un futuro che allora poteva essere visto come il nostro. Ancora una volta viene spontaneo il paragone con il capolavoro di Ridley Scott, che d’altra parte gli è di fatto coevo. Un panorama che apre al cyberpunk, la science fiction del tardo moderno, con le sue metropoli sovraffollate, le ibridazioni organico/tecnologiche, i nipotini della cultura hippie degli anni Sessanta, tutto però spostato decisamente su una deriva trash che ne rende la verità più profonda, la dimensione di perdita di qualsiasi principio, valore, scrupolo.

Su tutto dominano il sesso e la violenza, come ad anticipare le parole di James G. Ballard: “Non c’è bisogno di dire che io sono convinto che occorrano più sesso e violenza, in televisione. Entrambi sono dei potenti catalizzatori di cambiamento, in aree dove il cambiamento è più urgente e indispensabile”. E ancora, “Ma oggi il cinema sta diventando un medium privato. Lo guardiamo sul video, da soli o con due amici, e l’immaginario richiede ormai una libertà sessuale sempre maggiore; va da sé che io penso che in televisione ci debbano essere più sesso e più violenza, non meno.” (Ballard, 1999), e ad accompagnare, praticamente “in corso d’opera”, quei cambiamenti nel costume e nella mentalità collettiva che investivano, con qualche ritardo, il nostro paese.

Sdoganare sesso e violenza significa – in quegli anni, a seguire Ballard – denudare il re lacero, ormai vestito di stracci di una società ancora apparentemente bacchettona, ma che partecipava pienamente all’orgia di cui scrive Jean Baudrillard nel 1990 in La trasparenza del male: “È stata un’orgia totale, di reale, di razionale, di sessuale, di critica e di anti-critica, di crescita e di crisi di crescita. Abbiamo percorso tutti i sentieri della produzione e della sovrapproduzione virtuale di oggetti, di segni, di messaggi, di ideologie, di piaceri”: la nascita della postmodernità, in pratica. Una via parallela a quella che proprio lo scrittore inglese aveva tracciato nel 1969 e nel 1973 con i romanzi La mostra delle atrocità (2004) e Crash (2001; cfr. Fattori, 2003), con l’unica differenza che se Ballard mette in scena la deriva del moderno ormai sfinito, esaurito, che muta come un serpente in tardo moderno, sezionandone sobrio, garbato, sottile, con un bisturi da chirurgo i quartieri esclusivi e le classi agiate – si vedano ad esempio Super-Cannes (2002) e Millennium People (2006) –, Liberatore e Tamburini ne illustrano iperbolicamente i bassifondi, i fondaci, le stamberghe e i parassiti che le popolano. Straordinaria è l’evoluzione del tratto e della grafica con cui Liberatore tratta il suo personaggio, dalle prime tavole scarne, in bianco e nero, alle successive a colori, sempre più barocche, affollate, iperboliche, a esaltare la brevità delle storie raccontate, sceneggiature minime, nucleari, sintesi di racconti ibridi fra noir e fantascienza, venate di ironia e sarcasmo, quasi un’anticipazione del cinema di Quentin Tarantino, almeno quello di Pulp Fiction (2011) e Kill Bill (2012) e del suo universo scatenato.

 


 

LETTURE

  Ballard James G., Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Ballard James G., Crash, Rizzoli, Milano, 2001.
Ballard James G., Super-Cannes, Feltrinelli, Milano, 2002.
Ballard James G., La mostra delle atrocità, Rizzoli, Milano, 2004.
Ballard James G., Millennium People, Feltrinelli, Milano, 2006.
Baudrillard Jean, La trasparenza del male, Sugar, Milano, 1990.
Cerami Vincenzo, Fattacci, Einaudi, Torino, 1997.
Fattori Adoflo, CRASH: Metafisica dell’ubiquità, in Belphégor, vol. II, n. 2, 2003.