L’impossibilità di essere (morti) normali di Antonio Cavicchia Scalamonti

 


Ora la perdita progressiva di quest’esperienza del sacro ha creato ovunque, com’era del tutto prevedibile, crescenti nostalgie che hanno assunto forme e contenuti diversi, ma tutte caratterizzate dalla paura della perdita di un legame con l’invisibile che per secoli, se non per millenni ha saturato di senso l’essere dell’uomo. Come se l’acquisizione della libertà che l’umanità alla fine ha riscoperto o semplicemente trovato per la prima volta, lasciasse scoperto il tetto dove si era riparata per lungo tempo. Queste nostalgie sono state accompagnate da violente critiche di questa società moderna che, agli occhi di molti, rappresentava il trionfo del nichilismo e dell’odiato relativismo.

Ebbene, in un mondo siffatto noi assistiamo ad uno strano fenomeno: l’uso esagerato o l’abuso del termine sacro che si pensava dovesse essere oramai obsoleto.  Un abuso non solo da parte di coloro che per evidenti motivi di sopravvivenza negano disperatamente la fuoruscita del sacro annunciando periodicamente un trionfale ed assai improbabile ritorno della religione, ma soprattutto da chi questi problemi non lo sfiorano neppure.

 Prendendo la nozione di sacro in modo rigoroso- dice Gauchet – non si può parlare di sacro nel mondo attuale se non come una derivazione metaforica assai fuorviante più che illuminante.

Ma perché quest’abuso linguistico e sostanziale?

Ebbene, se spogliamo il significato del sacro dalle sue incrostazioni storiche e dai suoi significati religiosi, esso appare come un desiderio di immutabilità, di stabilità, di fissità che vuol dire essere immuni dallo scorrere del tempo, dalla incostanza identitaria, dalla mutabilità della tradizione, e soprattutto dalla consapevolezza di quella che è la nostra principale caratteristica: la nostra finitudine.

Gli uomini sono fra tutti gli esseri coloro che si pongono il problema della morte, quello del non essere più, gli unici che possono essere chiamati i mortali, oi brotòi come li chiama Omero. E sono gli unici che, terrorizzati dalla prospettiva, vanno alla disperata ricerca di soluzioni. Oramai, fortunatamente direi, incapaci di trasportare epifanicamente l’invisibile nel nostro mondo essi adoperano un surrogato nell’illusione che possa funzionare. Senza sapere che la conquista dell’autonomia ci permette anche di fondare i nostri valori con la garanzia che la loro durata dipenda dal nostro acuto desiderio di preservarli e di trasmetterli e non dalla volontà imperscrutabile di qualcuno che ha prioritariamente deciso debbano essere i nostri per sempre. Io credo che questo responsabilizzarsi sia il segno di una fuoruscita da un mondo infantilmente caratterizzato che si affida all’onnipotenza di un  padre o di una madre o di chi per loro, che a tutto pensa e a tutto provvede. E che in nome di questa tutela è disposto o almeno è stato disposto ad accettare anche l’ingiustizia quando non l’orrore che questa tutela ha procurato o semplicemente permesso.

A questi uomini spetta il compito e la responsabilità di determinare i loro valori e le regole che debbono guidare le loro azioni. Niente può esonerarli perché non vi è nessuno che gieli detta.

E ciò è possibile solo nel momento in cui il contingente, il precario sono ampiamente accettati e non considerati come una maledizione che richieda illusori e irrazionali rimedi, ma come il segnale di una loro intrinseca preziosità che ci spinge a crearli e a difenderli. Come un padre o una madre che amano sempre di più la loro creatura anche se sanno, o proprio perché sanno, che essa è inguaribilmente mortale.

 

 

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