L’impossibilità di essere (morti) normali

 

di Antonio Cavicchia Scalamonti

 

Fué sueno Ayer; Manana serà tierra!

Poco antes, nada; y poco después, humo!

Y destino ambiciones, y presumo

Apenas punto al cerco que me sierra!

Breve combate de importuna guerra,

en mi defensa soy peligro sumo;

y mientras con mis armas me consumo

menos me hospeda el cuerpo que me entierra.

 

Francisco de Quevedo.

 

La categoria del sacro è una categoria assai ambigua. Nasce quando dopo aver definito la religione come culto di dio o degli dei si scoprì che in alcune religioni l’idea di dio o più semplicemente degli dei era completamente assente.

In questo contesto, alla ricerca di quanto potesse essere considerato l’essenza della religione, la scuola sociologica francese, la prima attenta a questo fenomeno, propose l’idea del sacro come elemento centrale dei fenomeni religiosi. Il sacro cioè era – almeno per questi studiosi – la manifestazione distintiva della religione. Bisognava in poche parole sostituire l’idea di dio con quella di sacro che era considerata più euristicamente fertile, più onnicomprensiva e anche più primitiva. Quanto alla definizione di sacro esso fu concepito sotto la forma del proibito e del separato. [1]

Nelle forme elementari della vita religiosa Emile Durkheim definì la religione come quel sistema solidale di credenze e pratiche relative a cose sacre, vale a dire separate, proibite. E scrisse anche che sono le credenze e le pratiche che riuniscono in una stessa comunità morale (Chiesa) tutti coloro che vi aderiscono. Il che implicava due conseguenze: l’universo religioso presuppone una distinzione tra due campi eterogenei, il sacro e il profano; e poi che quest’opposizione sacro-profano, che la scuola francese sottolineò con forza, tutto sommato, non era altro che l’opposizione tra individuo e società, e il sacro non era altro che l’oggettivazione della società come potere misteriosamente superiore all’individuo.

Questa riduzione del sacro al sociale non piacque soprattutto alla scuola fenomenologica che pur riconoscendo l’importanza del legame che unisce l’uno all’altro, e il sacro come fondamento di ogni fenomeno religioso, mise l’accento sul vissuto del sacro che secondo loro era sostanzialmente “potenza e terrore”. In questa chiave Rudolf Otto nel suo famosissimo studio (Il Sacro) vide il sacro come l’elemento non razionale nell’idea del divino e lo definì come il “totalmente altro”, un’epifania religiosa che ispira terrore e contemporaneamente una profonda attrazione. Il sacro è potenza, potere, forza ed è un’esperienza che non s’iscrive nelle categorie del logos.  Il sacro cioè – secondo l’oramai notissima sua definizione – era il mysterium tremendum et fascinans. E per di più esso non era semplicemente una tappa dell’evoluzione ma, fenomenologicamente, una vera e propria modalità dell’esperienza umana.

Anche un altro fenomenologo come G. Van der Leeuw ritenne l’idea del sacro ben più antica  e fondamentale di quella di dio, e definì il sacro come “potenza” e nello stesso tempo come “totalmente altro”. Secondo questo studioso quello che avviene nell’esperienza religiosa è la manifestazione di un potere estraneo, “totalmente altro” che s’innesta prepotentemente nell’esistenza degli uomini. [2]

Ma i contributi più importanti di questa scuola e oserei dire in un certo senso più definitivi per inquadrare questo fenomeno sono stati quelli di Mircea Eliade. Questo autorevolissimo studioso volle studiare il sacro nella sua totalità e non solamente in ciò che comporta di irrazionale. Per Eliade come per Otto il sacro è totalmente altro ma mentre Rudolf Otto insisteva sul suo  carattere misterioso e affascinante, egli dichiarava esplicitamente che, per l’uomo religioso, il sacro equivaleva alla realtà per eccellenza. Sacro e profano egli scrisse, si contrappongono così come si contrappongono la realtà da una parte e l’irrealtà dall’altra. L’homo religiosus crede che esista una realtà assoluta che egli individua nel sacro, e crede anche che questa sia una realtà che trascende il mondo, ma che in esso si manifesta santificandolo e perciò stesso rendendolo (periodicamente) reale.

Lo studioso rumeno ritenne poi non fosse  sufficiente descrivere il sacro così come si manifesta, ma era necessario capire anche il fondamento antropologico d’esso. Ebbene questo fondamento - per l’autore - risiedeva nel bisogno di senso che proveniva dall’angoscia che l’uomo prova davanti al caos e all’assurdo dell’esistenza. Esso rappresentava un efficace sistema d’assicurazione contro il terrore che causa l’anomia.


[1] H. Bouillard, La categoria del sacro nella scienza delle religioni, in A.A.V.V. Il Sacro, Archivi di filosofia Cedam, Milano, 1974.

[2] Cfr. G. Geffré, Le Christianisme et les métamorphoses du sacré, in A.A.V.V., Il Sacro, op. cit.

 

 

    (1)  [2] [3]