LETTURE / CITY


di Clifford D. Simak / Mondadori, Milano, 2016 / pp. 271, € 6,50


 

Millenni di solitudine


di Adolfo Fattori

 

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Nelle radici della fantascienza c’è una antica propensione a costruire scenari titanici, che si spingono oltre ogni confine immaginabile del tempo e dello spazio. Il modello, per molti versi, è la colossale opera che Isaac Asimov ha costruito attorno al ciclo della Fondazione con tutte le sue articolazioni. Prima di lui, almeno Olaf Stapleton, proprio alle origini della science fiction, aveva scritto opere che cercavano di avere, con tutti i limiti di tentativi del genere, un respiro ambizioso, quasi cosmogonico, escatologico, oltre a tanti altri science fictioneer, di maggiore o minore fama, che provarono a costruire visioni monumentali, fatti di nascite, crescite, declini di civiltà, culture, pianeti, intere galassie.  

Sono tempi ancora ingenui, quelli in cui la fantascienza propone e predilige, per certi versi, opere del genere, tempi in cui il mito del progresso era ancora al massimo della sua centralità, nelle rappresentazioni sociali come nell’immaginario collettivo. Bisognerà aspettare l’emergere di una sensibilità più consapevole, quella della cosiddetta “Età dell’oro” del genere, i decenni dal Quaranta al Sessanta del Novecento, perché emergano costruzioni narrative e cronologie meno facilone nell’immaginare la storia umana del futuro: quella costruita appunto da Asimov e con lui da scrittori come Robert A. Heinlein con Universo (2014) o I figli di Matusalemme (2008), o ancora dopo Philip José Farmer con Dayworld (1985), ad esempio, senza dimenticare, naturalmente, che la strada per questa dimensione della fantascienza era stata tracciata già dal suo più accreditabile fondatore, Herbert George Wells, in La macchina del tempo, quando fa descrivere al suo crononauta il futuro remoto della Terra, esplorato durante i suoi viaggi nel tempo (cfr.  "Quaderni d'Altri Tempi" n. 5).

È in questa corrente che si inserisce nel 1952 Clifford D. Simak, uno dei maestri della fantascienza classica, con City, romanzo ambizioso, totale, immaginifico.

Lo scenario descritto da Simak è una Terra di un lontano futuro in cui, come nel Pianeta delle scimmie (2000), la specie dominante sul pianeta non è più quella umana, ma quella canina. Anzi, degli uomini non c’è più traccia fisica, ma solo vaghi ricordi leggendari, messi in dubbio dalla quasi totalità degli studiosi. 

Esiste una sola traccia, costituita da una serie di racconti, più che altro, per i cani, inaffidabili miti o leggende, scritti e anche di difficile comprensione, che si susseguono nel romanzo, costituiscono il romanzo, glossati da un curatore che cita per ognuno di loro i punti di vista dei vari studiosi che li hanno letti e commentati, tutti cani, naturalmente. È appunto questo curatore che scrive fra l’altro di come molti termini e molte situazioni siano completamente estranee all’esperienza canina.

In questa cornice del tutto dislocata rispetto all’esperienza dei lettori (umani) viene raccontata, nel suo svolgersi lungo migliaia di anni, la saga della stirpe dei Webster, da giorni avvicinabili ai nostri, o perlomeno a un futuro vicino a quello in cui scriveva Simak, a migliaia, forse decine di migliaia, di anni nel futuro, fin quando la parola “webster” non diventerà, nei racconti, addirittura il termine per indicare l’uomo.

Un Webster è stato colui che ha impedito, all’inizio della Storia futura tratteggiata nei racconti, al potere di scacciare coloro che, abbandonate le città, vi avevano fatto poi ritorno quando l’agricoltura “naturale” era stata schiacciata dalla diffusione delle colture idroponiche; un Webster era stato l’umano che aveva aperto alla vita umana su Giove non cercando di piegare il pianeta alle esigenze degli uomini ma sperimentando, a rischio della vita, l’adattamento del proprio corpo alle condizioni gioviane, “trasformandosi” in un gioviano, un “Rimbalzante” (un po’ l’idea, ma in termini molto più radicali, sfruttata da James Cameron nello splendido Avatar, 2013), e facendo esperienza di una visone del mondo completamente diversa da quella umana; ancora un Webster sarà colui che proverà ad operare alla gola i cani, e a insegnargli i primi rudimenti del linguaggio articolato, in un mondo che comincia a popolarsi di robot, di mutanti, poi di altri animali parlanti e pensanti (linguaggio e pensiero logico viaggiano insieme: lupi, orsi, scoiattoli…).

I robot: nella visione di Simak i loro corpi rimangono di metallo (il modello di partenza rimane quello dei robot positronici di Asimov), hanno una vita lunghissima, diventano capaci di emozioni, tanto che il vero connettore, il vero fil rouge delle storie raccontate in City, nelle varie “scene” di questa lunghissima visione, è il robot di casa Webster, Jenkins, maggiordomo, consigliere, amico dei vari Webster che si succederanno.

Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questi aspetti, quelli più palesi della mitologia futura architettata da Clifford Simak: gli spunti che può offrire agli entusiasmi degli appassionati della fantascienza, in genere affascinati da affabulazioni “profetiche” e visionarie come quelle espresse in romanzi ispirati al modello delle “grandi storie future”, e quelli che piuttosto fornisce alla riflessione di noi umani del terzo millennio.

A un’analisi superficiale, si può rimanere colpiti dalla apparente capacità predittiva dello scrittore, almeno nel breve termine (cioè nel descrivere gli anni del futuro più vicino a quelli in cui scriveva il romanzo): la fuga dalle città, la diffusione di tecnologie di produzione alternativa, certe allusioni alle “filosofie” New Age, tanto per dire.

Quello che emerge, piuttosto, molto forte, è una dimensione malinconica, crepuscolare, che accompagna, o meglio, conduce un sentimento di profonda nostalgia, ma nostalgia per il presente, il presente storico in cui viveva Simak. Ed è forse questa la sua vera capacità anticipatoria, ma per un sentimento che si diffonderà nel quindicennio subito successivo, e di cui scrive verso la fine del millennio, e quindi in tempi molto più vicini a noi, in piena affermazione del postmodernismo, Fredric Jameson, trattando di un altro grandissimo scrittore di science fiction, Philip K. Dick, a proposito di uno dei suoi romanzi più famosi, Time Out of Joint (Tempo fuor di sesto, 2003), scritto sul finire degli anni Cinquanta. Per argomentare su come la postmodernità trasformi il presente in Storia, lo studioso americano usa come esempio proprio il modo con cui gli americani rielaborarono dalla fine degli anni Cinquanta il ricordo del decennio subito precedente, quello de “… l’infarto del presidente Eisenhower; la Main Street; Marilyn Monroe; un mondo fatto di vicini e di appartenenti all’Associazione Genitori-Insegnanti; le piccole catene di negozi al dettaglio (con i prodotti portati da fuori con i camion); i programmi televisivi preferiti; il blando corteggiamento della casalinga della porta accanto; i giochi a premi televisivi…” (Jameson, 2007).  Lo sguardo che ritroveremo più tardi in film crepuscolari dove lo sguardo di autori ormai adulti si rivolge al proprio passato di adolescenti, come in Come eravamo (2013), American Graffiti, ambedue usciti nelle sale nel 1973, Stand by Me del 1986, o anche, per altri versi, Ritorno al futuro uscito nelle sale l’anno prima. Operazione facilitata dallo sguardo narrativo collocato nel futuro, tipico della science fiction: raccontare al passato ciò che deve ancora avvenire, e quindi a maggior ragione il tempo in cui si scrive, o quello appena precedente.

Simak qui fa ancora di più: rende storico il suo presente, neanche il suo passato recente. Come a intravvedere la piega che le cose prenderanno nel suo paese negli anni subito successivi, mentre si è in piena Guerra di Corea.

L’epoca immaginata dallo scrittore come alba del tempo del romanzo, l’antefatto del primo dei “racconti” raccolti dai cani, è un futuro in cui gli umani hanno abbandonato le città, stanchi dell’isolamento e della solitudine (Simak scrive di “individualismo”) che le metropoli hanno prodotto, per tornare alla terra e ai valori della natura. Ma poi si sentono costretti a ritornare nelle città e qui si innescano gli eventi narrati, perché il progresso ha reso il lavoro agricolo improduttivo. Il loro ritorno però è avversato dalle autorità cittadine, e ciò  innescherà conflitti e tensioni, quasi una guerra civile in sedicesimo, che avrà come conseguenza ultima la ricerca di nuovi spazi su altri pianeti.

È evidente qui l’allusione alla memoria collettiva, a un periodo che era rimasto ben vivo nei ricordi, la grande crisi del 1929 con i suoi micidiali effetti sulla vita delle popolazioni rurali, come è esplicita la fiducia nell’energia nucleare, che nel romanzo diventa il motore (pacifico) del progresso e del cambiamento, in una fase storica in cui ancora non si intravvedevano gli sviluppi del digitale e i suoi trionfi attuali, anche se man mano che si procede nella lettura la storia narrata da Simak racconta di tecnologie della comunicazione che sembrano immaginare una tecnologia a metà strada fra la teleconferenza e l’ologrammatica. 

In tutto il romanzo scorre sottotraccia la sensazione della profonda solitudine dei vari Webster, nel loro slancio verso il cambiamento, nel loro superomismo teso alla ricerca di una solida e definitiva comunione con la natura, fino alla propria eclissi come razza dominante nel pianeta. 

Forse in profondità Clifford Simak guardava a quei movimenti “umanisti” che si diffusero in America nel XIX secolo e che ispireranno alla lontana proprio la New Age dei nostri anni, e che in alcune delle sue espressioni più estreme propugna, o almeno immagina, la sparizione dell’umanità o la sua mutazione in un’essenza puramente “spirituale” o virtuale, come nel caso della setta “Heaven’s Gate”, o di quella degli “Estropiani” di cui scrive Erik Davis nel suo Techgnosis (1999; cfr. "Quaderni d'Altri Tempi" n. 7).

Nel caso del suo romanzo, l’estinzione dell’Umanità è causata da un tratto della natura umana che le impedisce di accedere a una conoscenza “superiore”, quella che un filosofo marziano, Juwain, stava articolando in un sistema filosofico da donare agli uomini, e che non riesce a completare per colpa di uno dei Webster e della sua agorafobia, ma che invece è patrimonio dei Rimbalzanti di Giove, dei mutanti sulla Terra, e delle razze animali che sostituiranno l’uomo, a partire dai cani: la consapevolezza che la “quarta dimensione”, quella del tempo, è in realtà una dimensione dello spazio: il tempo non esiste, ma esiste solo l’attimo presente, e ogni altro attimo del passato o del futuro è un universo parallelo, adiacente a quello dell’attimo che stiamo vivendo: l’emancipazione dalla propria limitatezza avverrà nel momento in cui questa conoscenza troverà sbocco in un sistema per transitare da un attimo (un universo) all’altro, liberandosi del limite del tempo, articolando un’operazione sincretistica fra la filosofia di Edmund Husserl e le riflessioni pseudoscientifiche di certa fantascienza. Gli uomini, incapaci di concepire questa idea, sono condannati alla solitudine e alla lenta estinzione…

 


 

LETTURE

Isaac Asimov, Trilogia delle Fondazione, Mondadori, Milano, 2004.
Erik Davis, Techgnosis, Ipermedium, Napoli, 1999.
Philip K. Dick, Tempo fuor di sesto, Fanucci, Roma, 2003.
Philip José Farmer, Dayworld, Sfbc, Parma, 1985.
Robert A. Heinlein, I figli di Matusalemme, Mondadori, Milano, 2008.
Robert A. Heinlein, Universo, Mondadori, Milano, 2014.
Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007.

 


 

VISIONI

James Cameron, Avatar, 2013, 20th Century Fox Entertainment (home video).
George Lucas, American Graffiti, Universal Pictures, 2003 (home video).
Sidney Pollack, Come eravamo, Universal Pictures, 2013 (home video).
Rob Reiner, Stand by Me, Universal Pictures, 2013 (home video).
Franklin J. Schaffner, Il pianeta delle scimmie, 20th Century Fox Entertainment, 2000 (home video).
Robert Zemeckis, Ritorno al futuro, Universal Pictures, 2005 (home video).