VISIONI / LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT


di Gabriele Mainetti, Lucky Red, 2016


 

Mi chiamo Supereroe, risolvo problemi


di Chiara Ribaldo

 

image

Ci sono state punture di ragno, pipistrelli nel cuore della notte, entità aliene, anomalie genetiche, tempeste radioattive, preparati chimici e una lista infinita di incidenti in laboratorio. Ci sono stati un prima e un dopo e in quel dopo rocambolesco e caotico uomini e donne ordinari sono diventati, improvvisamente e loro malgrado, esseri straordinari. Supereroi con incredibili poteri.

“Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”, faceva dire Bertolt Brecht a Galileo dopo la sua abiura, per controbattere l’affermazione del suo interlocutore e allievo, Andrea Sarti, di fronte al Tribunale dell’Inquisizione (cfr. Brecht, 2014). E quale terra più sventurata, afflitta e perduta della Roma odierna, con i suoi buchi di bilancio, le sue voragini sull’asfalto, i quintali di spazzatura, fuori dai cassonetti e dentro i palazzi vista Colosseo, gli scioperi bianchi, le periferie criminali. Sì, è un presente infausto quello in cui viviamo, bisognoso di redenzione, ma troppo pigro e assuefatto all’umana bruttezza per liberarsi dal male. Una città rappresentata dai suoi figli peggiori e condannata a una fastidiosa metonimia, come accadeva per Gotham City, solo con una primavera più lunga e del cibo migliore. Dalla serie dedicata a Gotham City apprendiamo: "Al sabato, sulla Gotham Gazette, c'è una piccola rubrica di costume chiamata «Gotham è». Nell'articolo viene chiesto a dei gothamiti scelti a caso di completare la frase «Gotham è…» usando al massimo tre parole. La rubrica «Gotham è» va avanti da anni, sin da quando ero ragazzo. Ecco alcune delle definizioni usate per descrivere Gotham nelle ultime settimane: «Dannata», «Maledetta», «Un manicomio», «Letale... », Gotham è «criminale», Gotham è «una partita persa», Gotham è «senza speranza»”.

Roma è tutte queste cose, ma senza bat-segnale. La salvezza in questo caso è meno raffinata e tecnologica; è un Tevere infestato di ratti e bidoni di veleno radiogeno dove un ladro di borgata finisce per sfuggire alla polizia che lo insegue. È un limbo di noia, malaffare e abusivismo edilizio, tra il quartiere di Tor Bella Monaca e il nulla, una sorta di universo parallelo in cui la gente vive sospesa, il sogno di un paradiso che non vedrà mai, oltre i chilometri di autostrada, la certezza di un inferno dove ognuno troverà quel che merita. Imprevedibile come un pugno in pieno volto, la salvezza arriva dal basso, dai margini, dalla disillusione e dall’egoismo di un uomo troppo stanco, il frigo pieno di yogurt alla vaniglia, nessun amico o relazione sentimentale, fatta eccezione per i porno di cui è consumatore bulimico. Il furfante con la pancia e una felpa sdrucita che la mattina dopo quel bagno fortuito nel fiume si risveglia con una forza sovraumana e l’obiettivo di rubare di più e meglio. Un bancomat, prima, un portavalori, poi, fino ad affollare il suo monolocale sgarrupato di oggetti, pile di dvd per adulti, un proiettore, quintali di vasetti di yogurt alla vaniglia. Mentre fuori si continua a morire.

A Enzo Ceccotti, criminale da strapazzo, outsider di carriera, è affidata, per ironia della sorte, la resurrezione di una città che nel crimine e nel meschino individualismo sguazza. Un’eccezione per nulla eccezionale nel nostro Paese. Ma, certo, il viaggio dell’eroe è appena iniziato. Molte sono le soglie da attraversare, i pericoli da affrontare, molte le prove da superare perché il cambiamento si compia, perché l’uomo prescelto dal fato cambi la propria biografia e con essa anche la nostra.

Enzo, che a quei poteri non riesce a dare uno scopo diverso, non sa di essere un supereroe, un essere speciale in grado di riscattare una città umiliata e disorientata. La sua storia comincia a farsi solo attraverso la narrazione bizzarra, ma tenerissima, di Alessia, sua vicina di casa, appassionata di manga giapponesi e di uncinetto. È lei a scorgere nell’uomo l’eroe, l’Hiroshi Shiba che affronta il male senza paura. Sarà lei, mentore, alleata, principessa rinchiusa nella torre più alta del castello, a indicargli la via da percorrere: “Aò sei ‘n supereroe, mica puoi rapinà ‘n bancomat”, a mostrargli come riprendersi la propria umanità perduta e comprendere, finalmente, le ragioni del suo potere e le responsabilità che ne derivano un passo alla volta, un furto alla volta, un bacio alla volta.

Il prima, quel mondo usuale e incasinato, ma rassicurante, in cui ogni istante assomiglia a quello precedente, lascia il passo alle ombre, alla polvere, all’avventura, al mutamento. Il dopo ha molteplici facce, altre soglie che se oltrepassate possono condurre al trionfo o alla morte, ma dalle quali, comunque, non si può più tornare indietro. Il dopo è un bacio e una pistola. Il mentore e la nemesi. Nessun eroe, infatti, diventa tale senza aver affrontato a un certo punto del suo periglioso viaggio il lato più oscuro della propria straordinarietà, senza aver visto la propria immagine capovolta e deformata, perché il bene stesso vive del suo contrario ed Enzo Ceccotti, il Jeeg Robot di Torbella, non esiste senza lo Zingaro, un perfetto villain, rigurgito di sobborghi in cui neanche la polizia si addentra. Piccolo boss con velleità artistiche, un passato televisivo senza successo, una passione per Loredana Bertè e Renato Zero, un curriculum pieno di cadaveri, serate in discoteca, occasioni mancate di diventare grande, temuto, famoso sui social network.

 

“È un volo a planare / dentro il peggiore Motel / di questa carretera / di questa vita-balera.

È un volo a planare / per essere inchiodati qui / crocefissi al muro / ma come ricordarlo ora.

Non sono una signora”.

 

Canta a squarciagola davanti ai suoi scagnozzi prima di un colpo che, naturalmente, fallirà. La Bertè non è Prince e lo Zingaro non è Joker ma il senso e l’effetto straniante sono identici. Ogni incubo, in fondo, ha bisogno della propria personalissima colonna sonora.

Tra il prima e il dopo, tra oltrepassare una porta per salvare la bella e distruggerla a pugni per uccidere i cattivi, ci sono ettolitri di sangue, quintali di piombo e tritolo, molte scazzottate, sesso, amore, vendetta, tradimento, i salvataggi dell’ultimo minuto, i giri sulle giostre abbandonate e le partite di calcio, la discesa negli inferi e il ritorno.

Scriveva Christopher Vogler che il superamento di tutti gli ostacoli restituisce un eroe trasformato con maggiori poteri e nuove facoltà (cfr. Vogler, 1992). Enzo Ceccotti non esiste più, c’è un uomo in cima al Colosseo a vegliare su una Roma dormiente, che sembra già diversa, più bella, più sicura, consapevole. La trasfigurazione è avvenuta. È nato un eroe e sa persino volare.

Lo chiamavano Jeeg Robot, primo lungometraggio del regista romano Gabriele Mainetti e primo vero heroes movie italiano, è la risposta perfetta al fatalismo diffuso, quello che ci spinge a non fare nulla per cambiare le cose, che tanto niente cambia mai, lo stesso che qualche mese fa faceva dire all’assessore alla mobilità Stefano Esposito, a proposito dei disagi nel trasporto pubblico capitolino, che “siamo appesi alla fortuna. Siamo nella mani del Signore”. E se invece di essere appesi alla mutevole sorte, fossimo nelle mani di un Batman giallorosso, di un Superman con il cappuccio? L’idea alla base della storia non è nuova al genere, ma è di certo la prima volta che viene usata nel cinema italiano con originalità e ironia e il risultato è un Romanzo criminale in chiave supereroistica. Un piccolo capolavoro tutto italiano, figlio del suo tempo imperfetto.

Quello di Mainetti è un prodotto cinematografico brillante e dissacratorio, un omaggio sincero e appassionato all’universo manga, al film di genere, all’estetica della violenza delle pellicole di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, agli albi della Dc e della Marvel, tuttavia senza mai scimmiottare personaggi e situazioni, al contrario tenendo sempre a mente la lezione del Neorealismo di guardare vicino, di raccontare la realtà che più si conosce, restituendo così sullo schermo, anche se spesso in modo inconsapevole, il sentimento di un popolo in un preciso momento storico. E, a ben pensarci, l’eroe è un testimone pubblico esemplare poiché, come scriveva Marco Revelli in un suo articolo: “esso mostra con le proprie virtù solitarie l’estensione dei vizi collettivi […] Questa è in fondo la sciagura delle terre che “hanno bisogno di eroi”: la mediocrità morale del conformismo di massa, resa visibile dalla testimonianza delle poche mosche bianche” (Revelli, 2013).

Una fortuna e insieme una sciagura, dunque. Menomale che siamo abituati a entrambi in egual misura.

 


 

LETTURE

  Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014.
Marco Revelli, Gli eroi e la nostra cattiva coscienza, in Micromega, 12 dicembre 2013,
  http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-eroi-e-la-nostra-cattiva-coscienza/
Scott Snyder e Greg Capullo, Il trucco del coltello, in Batman n. 1, Lion/RW Edizioni, Novara, 2012.
Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma, 1992.