LETTURE / CAMMINARE


 di David Le Breton / Edizioni dei Cammini, Roma, 2015 / pp. 185, € 16,00


 

Avere il mondo e il ai propri piedi


di Fiorenza Gamba

 

Tra i tanti aggettivi che qualificano l’uomo, usati per sintetizzare le sue caratteristiche talvolta legate a un periodo storico oppure a un’epoca della sua evoluzione – come ad esempio homo sapiens, homo faber, homo ludens – quello di homo geograficus si differenzia per la sua trasversalità. Infatti, il termine non indica un aspetto dell’uomo legato a un periodo o ad un contesto specifico, ma fa riferimento alla sua essenza o, altrimenti detto, ad un carattere permanente al di là delle variazioni contingenti o storiche. Homo geograficus è per Augustin Berque l’espressione dell’originario legame che l’uomo ha con la terra, con il luogo in cui è situato, rappresenta il fatto che l’essere umano si iscrive (graphein) sulla terra () e ne è reciprocamente iscritto, in altri termini costituisce quel movimento che egli definisce tramite il concetto di ecumene. In questo caso, contrariamente alla lettura che ne fa la geografia moderna, la quale intende il termine semplicemente come terra abitata, che è tale perché l’uomo vi trova le condizioni minime di sussistenza, Berque intende con ecumene – riferendosi esplicitamente agli studi del filosofo giapponese Tetsurô Watsuji (cfr. Watsuji, 2015) – quel rapporto esclusivo di tipo ecologico, tecnico, concreto prima ancora che simbolico, che rivela in che cosa la terra, la chora greca, è umana e in che cosa è terrestre l’umanità (cfr. Berque, 2000). In questa prospettiva il mondo, la terra, la superficie abitata dall’uomo è l’orizzonte stesso dell’uomo, il luogo del suo essere in situazione, del suo esser-ci. Reciprocamente, l’uomo è ciò che dà senso, forma, misura alla terra, poiché trasforma “l’infinita connessione delle cose” (Simmel, 2006) che è propria della natura, in una delimitazione, momentanea o durevole, che Georg Simmel ha definito paesaggio, di fronte al quale siamo “uomini interi” responsabili di tale intervento sulla natura, infatti siamo noi gli artefici dell’atto attraverso il quale noi creiamo questo paesaggio, un atto che è “immediatamente un atto della visione e un atto del sentimento, scisso in queste due parti separate solo dalla riflessione successiva” (ibidem).

L’uomo, quindi, è ciò che separa e riunifica lo spazio che egli stesso abita attraverso un’attività oggettiva legata alla visione e una soggettiva dipendente dai suoi stati d’animo. Inseparabili l’una dall’altra, queste due attività concorrono a formare una relazione dinamica che da un lato influenza lo spazio abitato, conosciuto, tramite l’intervento dell’esistenza dell’uomo, mentre dall’altro influenza l’uomo in virtù del suo potere.

L’attività ininterrotta di separazione e unificazione descritta da Simmel interviene nell’unicum della natura producendo una morfologia fisica e visuale che è anche una morfologia capace di attribuire un senso ai luoghi frequentati: il paesaggio, pur indicando uno spazio delimitato, non corrisponde completamente alla sua quantificazione o alla sua misurazione, non possiamo dire quanto misura un paesaggio, stabilire il suo punto d’inizio e il suo punto di fine, ma riconosciamo chiaramente quale sia la combinazione di forme che lo caratterizza, ad esempio la sponda di un lago con le sue piante, disposte in un certo modo, e i suoi colori specifici, a una certa ora del giorno o in una particolare stagione; così come percepiamo chiaramente le sensazioni che questo luogo in riva al lago ci trasmette. Possiamo dire che il paesaggio non è soltanto il risultato di una selezione, ma emerge dall’indistinto anche per differenza, rispetto a un prima ed un dopo diversi situati nello spazio.

La differenza è anche uno degli aspetti specifici della mobilità, poiché si tratta di un movimento che connette morfologie diverse – fisiche e di senso – al giorno d’oggi moltiplicate in maniera esponenziale, che l’uomo contemporaneo attraversa, nelle quali ripetutamente si ferma e che tiene insieme come parte integrante della propria identità, grazie ad un complesso processo di appartenenza ed estraneità. La mobilità quindi, nella sua accezione contemporanea non riguarda esclusivamente i modi, le tecnologie e gli effetti del muoversi nella società e di conseguenza la sua razionalizzazione, ma ben di più la mobilità è una categoria interpretativa della società contemporanea, anzi come la definisce John Urry è un’atmosfera, un clima, nel quale è immerso l’uomo contemporaneo (cfr. Urry, 2007), uno stile di vita – talvolta scelto, talvolta subito – che coinvolge anche i suoi strumenti, oggetti, immagini, informazioni, concetti, e il suo ambiente e che proprio per questo, tra altri aspetti, tiene insieme nella vita degli individui delle differenze morfologiche fisiche, affettive e cognitive.

Questo impone qualche precisazione, infatti, benché la mobilità sia una condizione che tende a inglobare e a definire tutte le forme di espressione e azione dell’uomo nel mondo, ciò non equivale ad affermare che l’appartenenza, nel senso di aderenza, di ancoraggio ad un luogo, si risolva nel nostro tempo necessariamente nella mobilità (cfr. Urry, 2000). In altri termini, affermare che tutto è mobilità relega a luogo comune una dinamica che invece è ricca di indizi e prove per la comprensione del rapporto dell’uomo con il mondo e che si produce come movimento incessante, che oppone e al tempo stesso integra delle enclaves, fisiche certo, che sono però anche spazi di possibilità e di radicamento, di appartenenza. Spazi il cui clima può essere sia positivo sia negativo, in quanto gli effetti della dinamica mobilità/appartenenza possono configurarsi tanto in una poetica degli spazi vissuti, come conseguenza di un processo di appropriazione e di appartenenza, quanto in contesti di sradicamento, che producono esclusione e che trasformano degli spazi poetici in veri e propri ghetti (cfr. Gamba, 2009; Sansot, 1973; Sennett 1996; Cattacin, 2011). Ciò che i Mobilities Studies indagano come effetto di un mobility turn, inteso come dinamica sociale caratterizzante il XXI secolo in una prospettiva prevalentemente (anche se non esclusivamente) sociologica, David Le Breton affronta in chiave antropologica e più precisamente nella prospettiva propria di un’antropologia del corpo.

Si può infatti osservare che se i Mobilities Studies indagano gli effetti del rapporto dell’homo geographicus con il proprio ambiente in relazione anche alle sue estroflessioni tecnologiche (cfr. Leroi-Gourhan, 1977), con particolare riguardo a quelle digitali, Le Breton mette allo scoperto la condizione originaria di questo rapporto nei sui elementi essenziali, infatti analizza il suo strumento – il corpo – e la sua azione – il camminare: l’uomo si iscrive sulla terra attraverso l’azione del camminare compiuta dal corpo. È propriamente l’azione dell’abitare, vale a dire dell’occupare una porzione più o meno estesa di terra e modificarla, una vera e propria incarnazione nel luogo realizzata dal corpo non soltanto in qualità di organo del senso, ma anche come strumento che attribuisce un senso allo spazio.

Per questa sua proprietà il corpo rappresenta l’esperienza umana legata allo spazio, al luogo, come scriveva Maurice Merleau Ponty in Fenomenologia della percezione: senza corpo non ci sarebbe lo spazio ed è soltanto considerando il corpo in movimento che si può comprendere come l’uomo abiti lo spazio, ma potremmo anche dire il mondo, l’ambiente (cfr. Merleau Ponty, 2014).

Il movimento è allora un punto di osservazione della specificità dell’uomo e il camminare è la sua forma primaria e indipendente da qualsiasi altro supporto tecnico fornito da mezzi di trasporto animati o inanimati: l’uomo che cammina è l’uomo che misura il mondo attraverso il proprio corpo e che misura se stesso. Di questo atto fondativo dell’esperienza e anche dell’esplorazione umana David Le Breton dà una definizione nella quarta di copertina del suo ultimo libro tradotto in italiano con il titolo Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza, “Camminare è inutile come tutte le attività essenziali. Atto superfluo e gratuito, non porta a niente se non a se stessi, dopo innumerevoli deviazioni”. Il libro infatti racconta del camminare, dei movimenti interni ed esterni che esso attiva nell’uomo, della topografia umana che produce e di cui lascia traccia. L’interesse di Le Breton per il camminare è un interesse antico e radicato, come testimonia il suo primo libro sull’argomento Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Le Breton, 2001), ed è un interesse accompagnato da una pratica ininterrotta, poiché l’autore è anche un grande camminatore. Se nel saggio precedente l’attenzione era posta sulla dimensione liberatoria del camminare rispetto alle costrizioni della modernità, in questo libro vengono messi in luce i differenti aspetti di questa azione, i movimenti interni che provoca o a cui si accompagna – le emozioni –, i luoghi che attraversa, come la natura o la città, i modi e i tempi in cui si produce : il lungo cammino o la breve passeggiata, il girovagare senza meta o il seguire un percorso prestabilito, il camminare in compagnia o in solitudine. Inoltre, il corpo e l’attività che in esso si produce attraverso il camminare sono il punto di snodo tra le differenti forme del mondo, espresse nei differenti paesaggi e la riflessione che avviene nell’interiorità dell’uomo, quel cammino che porta a se stessi. È l’attività precipuamente sensoriale del camminare che interrompe le routine sensoriali, per usare un’espressione cara a Le Breton, cioè le abitudini legate alle nostre percezioni quotidiane (cfr. Le Breton, 2007), amplificando la ricettività sensoriale, la curiosità, la disposizione allo stupore che consentono il rinsaldarsi dell’alleanza spesso dimenticata o negata tra il mondo e l’uomo, e soprattutto permettono a quest’ultimo di sentire e sviluppare un senso di appartenenza totalmente terrestre, eppure anche così dipendente anche dalla propria forza interiore.

Così inteso il camminare è una terapia antropologica che mette l’uomo in condizione di riappropriarsi della propria umanità ed è per questa sua funzione che siamo indotti a considerare questa terapia particolarmente efficace se praticata in certe condizioni, ad esempio a diretto contatto con la natura e preferibilmente in solitudine. Ma questo è solo una delle tante forme del camminare e dell’alleanza, come la definisce Le Breton, tra l’uomo e il mondo. Infatti anche la città, apparentemente così chiusa all’intensificarsi delle emozioni, delle riflessioni e della percezione diretta del mondo, è un luogo dove l’uomo fa esperienza del camminare in tutta la sua ricchezza di senso, certo con una specificità diversa rispetto alla natura. Ad esempio, il camminare urbano stimola principalmente la vista a discapito di altri sensi, ma ciò lascia intatta la possibilità di vivere un’esperienza profonda a patto però che ci abbandoniamo alla poetica della città, una condizione che trasfigura la città dalla sua concezione moderna di luogo anonimo, arido – secondo uno schema fisso che dalla griglia infinita di Thomas Jefferson arriva fino al modello frattale descritto da Jean Attali (cfr. Attali, 2001) – a luogo dell’immaginazione, della creazione di una topografia interiore e personale (cfr. Wunenburger, 2007), poiché come scrive Le Breton in Camminare: “ogni camminatore urbano porta dentro di sé una mitologia che è l’unico a conoscere, anche se naturalmente a volte questa incontra la geografia interiore degli altri”. Prendendo spunto da pagine (tra altri) di Charles Baudelaire, Walter Benjamin, Georges Perec, Honoré de Balzac, Siegfried Kracauer, l’autore mostra come la città sia tracciata e rintracciata innumerevoli volte dai suoi visitatori – abituali od occasionali – che in essa cercano, e trovano, “tracce felici di vita” e tesori nascosti al di là dei percorsi ovvi, abituali o conosciuti, poiché “il valore delle città dipende dal numero di luoghi riservati all’improvvisazione” (Kracauer, 1995).

Sta esattamente nella possibilità di invenzione nell’anonimato, messa in luce anche da Michel de Certeau, tutta la forza della poetica della città (cfr. de Certeau, 1979) che il camminare permette di scoprire e che dà all’uomo l’opportunità di riconoscere in maniera diretta e quotidiana la propria ecumene, vale a dire la propria appartenenza al luogo, allo spazio abitato e, per quella via, alla propria umanità, ma soprattutto di prendere contatto attraverso il corpo e il mondo con la propria esistenza. Perché il camminare, in qualsiasi modo e luogo venga praticato, pur con le dovute differenze, dà all’uomo la propria misura senza intermediazione alcuna, alimentando nell’homo geograficus, scrive Le Breton, “il gusto di vivere con una semplicità essenziale”.

 


 

LETTURE

  Jacques Attali, Le plan et le détail, Edition Jacqueline Chambon, Nimes, 2001.
Augustin Berque, Écoumène. Introduction à l’étude des milieux humains, Belin, Paris, 2000.
Sandro Cattacin, Les différences dans la ville. Mondes parallèles, migrations et le problème de l’inclusion des différences
dans l’espace urbain, in André Petitat (éds.). Être en société. Le lien social à l’épreuve des cultures, Presse de l’Université Laval, Laval, 2011.
Michel de Certeau M. (1979), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2010.
Fiorenza Gamba, Leggere la città. Indizi di contaminazioni sociologiche, Liguori, Napoli, 2009.
David Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, Feltrinelli, Milano, 2001.
David Le Breton, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano, 2007.
André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino, 1977.
Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2014.
Pierre Sansot, Poétique de la ville, Payot, Paris, 2004.
Richard Sennett, Flesh and Stone, Faber & Faber London, 1996.
Georg Simmel, Filosofia del paesaggio, in G. Simmel Saggi sul paesaggio, Armando Editore, Roma, 2006.
John Urry, Sociology Beyond Societies, Routledge, London, New York, 2000.
John Urry, Mobilities, Polity Press, Cambridge, 2007.
Tetsurō Watsuji, Vento e terra. Uno studio dell'umano, Mimesis, Milano, 2015.
Jean-Jacques Wunenburger, La vita delle immagini, Mimesis, Milano, 2007.