ASCOLTI / SEGONDÈ SALECO (34°Ν - 42°Ν & 19°Ε – 29°Ε)


di Mohammad /Antifrost, 2015


 

Trittico della terra incognita


di Romina Baldoni

 

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Arrivano dalla terra delle sorprese, dalla terra che sa generare stupore, incanto e bellezza. Il trio Mohammad sono Coti K. (Costantino Kinakos), contrabbassista, Ilios (Dimitris Kariofilis), oscillatori e Nikos Veliotis, violoncellista, di Atene, Grecia. In Italia di loro si sa ancora spaventosamente poco. Sebbene i tre musicisti non siano certo dei giovincelli alla ribalta ma personalità autorevoli in ambito musicale, con esperienza provata sulle spalle e curricula di tutto rispetto. Sebbene il genere di musica oscura e criptica che stanno proponendo con i loro lavori rientri a pieno titolo in quel filone di psichedelia occulta che recentemente il nostro underground ha saputo rivalutare e apprezzare, oltre a rendere vivacemente attiva e protagonista di iniziative prestigiose. I Mohammad sono innovativi e allo stesso tempo inaspettati. Mettono in campo una miscela sonora assolutamente atipica con l’uso di strumentazioni anomale nella tipologia (il violoncello e il contrabbasso che generalmente si associano a partiture classiche e tradizionali) e nell’interazione (l’elettronica dell’oscillatore, capace di esasperare le vibrazioni per relegarle in confini inconosciuti di avanguardia disturbante che quasi annienta gli armonici a vantaggio del solo rapporto timbrica/frequenza subsonica). Quello che scaturisce è quindi una specie di palpito subliminale, un’onda che si propaga rigidamente, che si distorce, che disegna traiettorie spastiche, a tratti ronzanti, a tratti tremolanti, tanto impercettibili quanto implacabili ed erosive. Ma la loro ermeneutica non può ridursi semplicemente in un esperimento accademico che prova ad abbattere coordinate ormai esplorate e abusate in ogni loro dimensione. Il vero afflato di novità e di sorpresa che incarna questo trio è un lirismo e una poetica che riesce a emergere attraverso guizzi che inaspettatamente interrompono l’esasperazione e la monotonia di un fluire ottenebrante. L’ampiezza dei toni che si intrecciano e l’uso del contrappunto, la progressione mortifera che si incunea in atmosfere malinconiche fino a screziarsi di scintille di inatteso emozionale. I tocchi in glissando, l’enfasi della bassa frequenza, i ricami degli acuti come lampi che squarciano le tenebre, mille dettagli infinitesimali posati non casualmente. C’è passione e magia in questi intrecci che quasi vogliono esplorare le pieghe più nascoste di stati d’animo ambigui e intraducibili, quelli che non si accostano né a gioia né a dolore ma sono esplorazioni d’ignoto.

Alla luce di queste premesse, il focus è orientato sulla recente uscita dell’ultimo atto della loro trilogia: 34°Ν - 42°Ν & 19°Ε – 29°Ε. Dopo Zo Rèl Do e Lamnè Gastama, usciti rispettivamente tra la primavera e l’autunno del 2014, il 30 maggio del 2015 arriva lo studio finale, intitolato Segondè Saleco, su etichetta fondata ad Atene nel 1997 da Ilios, Antifrost.

Ma cosa identificano esattamente le coordinate geografiche di questa trilogia? Un luogo di commistioni e fusioni che finisce per generare paradossalmente il luogo dell’ignoto. Qualcosa di mai esplorato o studiato a sufficienza, qualcosa che si relega nella non appartenenza proprio per le sfaccettature multiformi e complesse delle sue radici. Si parte dalla Grecia e ci si muove a oriente verso Bulgaria e Turchia. Le terre dei cristiani ortodossi e della cultura islamica; l’ideologica estensione che mosse il cammino dei soldati persiani verso i confini più estremi; lo scontro tra Europa e Asia (il Bosforo di Costantinopoli, Bisanzio e Istanbul) che si può leggere come punto di frattura o come originario crogiolo identitario. Enigmi e misticismo dal fascino prepotente. Primitivismo, civiltà, religione, esoterismo, raffinatezza del pensiero filosofico e grezza incombenza della materia come muta testimone di sacro e di arcaico. Ci restituiscono la vibrazione, lo sconvolgimento tellurico (in doom) di un’esplorazione che è quasi un’operazione di disseppellimento archeologico e antropico. L’idea è resa perfettamente dal graffiare sofferto e stridente di violoncello e contrabbasso, dai loro fiotti sincopati e mortificati su bassissime frequenze e il tremolio fibrillante dell’oscillatore che sembra voler allestire un cupo cerimoniale evocativo. I sussurri che fuoriescono tra le rovine e la desolazione dell’usura temporale, diventano palpabile filologia della storia, patrimonio spirituale vivo e pulsante. Se vogliamo, la conclusione che traccia Segondè Saleco è quasi un’apoteosi drammatica e un crescendo emozionale che eleva la vischiosità e la rigidità delle note a qualcosa di profondamente fisico e psicologico.

Zo Rèl Do inaugura la trilogia partendo da un’apertura puramente sensoriale. Dalle campionature di suoni ambientali catturati di Urso Nesto, ai droni opprimenti e ripetitivi di Grabe che sembrano incisioni materiche dolorose, senza variabili, senza colore. Rovelli che pungolano sulle stesse note con lievissime inflessioni timbriche. Kabilar Mace si apre a una dilatazione ansiogena e il concetto di amplificazione sinusoidale, prodotta sia dalle corde che dall’oscillatore, non si associa ad un libero propagarsi ma ad un’idea di escavazione, di penetrazione profonda compiuta su un corpo che oppone resistenza. Qui c’è un accrescersi emozionale che diventa quasi sofferenza, malessere.

Lamé Gastamaè la seconda tappa del periplo. L’amplificatore ci restituisce una serie di contrazioni che figurano invece il ripiegamento, l’introspezione, il sigillo ascetico, un’anacoretica volta a captare il senso più nascosto del circostante, una metabolizzazione severa. I suoni sono quindi sporchi, strappati, continuamente rimacinati e rigettati come scorie. Il sussurro tra i denti di Hapsía (https://vimeo.com/125347010 che si avvale della voce di Sakis Tokis, leggenda della band greca black metal, Rotting Christ) sembra un’espiazione forzosa, un cruento cerimoniale di purificazione messo in atto dall’insieme degli strumenti che stridono e si contorcono in una densità claustrofobica e in propagazioni metalliche e ronzanti. Ci sono vuoti abissali oscuri e con la stessa impenetrabile opacità di un’ossidiana. L’ultimo brano, Tik Tromakton con la sua progressione subsonica vuole forse riflettere il folklore più mistico di queste terre. È un drone sferragliante che annaspa e sprigiona una melodia spastica e rattrappita, ma che lascia intravedere a tratti bagliori di luce man mano che le frequenze prendono ariosità e si decontraggono, si estendono, montando in intensità e suggestione. La religiosità e la spiritualità di questo album si intravede attraverso impalcature monolitiche che montando ossessivamente in disturbanti e lente scansioni, lasciano intravedere variazioni infinitesimali. In questo senso l’estetica dei Mohammad si riallaccia a certa cinematografia balcanica (prevalentemente silente, con lunghi piani sequenza che mettono a fuoco un ordinario privo di colore) che vuole raccontare il travaglio esistenziale, l’attanagliante senso di impotenza che si collide con una smisurata ambizione di onnipotenza. Sostanzialmente potrebbe essere l’attesa, il senso di attesa che angoscia l’uomo e che lo spinge continuamente a credere che qualcosa improvvisamente possa accadere.

E il fiato è rimasto decisamente sospeso nel tempo trascorso prima dell’ultimo atto. L’attesa ha rilasciato sul greto del suo flusso imperituro i sedimenti dell’irricostruibile. Secondè Saleco è l’assuefazione all’irricostruibile. Ci si abitua a non attendere più, si apprezzano i mille vaghi rimandi e le mille indicibili sensazioni che scorrono nella mente, ci si abbandona a un’ostilità che stranamente diventa famigliare. I lievi sottotoni di Bela Frumatene non hanno nulla della pesante oppressione e della vischiosa densità delle cose precedenti. Si sottolinea la poetica dello smarrimento con leggere amplificazioni dal sapore vagamente cosmico. Poi una deriva, un piacevole vagare di modulazioni sempre tenute su toni morbidi. Infine una serie di reminescenze che potrebbero far pensare a un etnico sbiadito, rallentato fino allo snervante, relegato ad una dimensione onirica di confuso torpore. Ogni brano in qualche modo suggerisce nuances di folk tetro e minimale che sono oltraggio e audace elogio del tragico, nostalgia malinconica di un irraggiungibile freddamente messo a fuoco. La contorta, possente, materiale, corporale resistenza opposta attraverso gli stridori precedenti, apre ora a una panoramica del vuoto. In Sagaraki (https://www.youtube.com/watch?v=b51K9Z_CvGo) il proverbiale doom da camera dei Mohammad diventa pianto liberatorio, sublime resa di straziante e pregnante lirismo. L’ospite Erifyli Giannakopoulou presta la sua voce da mezzo soprano, violoncello e contrabbasso tessono l’elegia commossa della consapevolezza, svelando la bellezza della fragilità umana finalmente messa a nudo. Si rintracciano echi di classicità strumentale in Kawas Rivero Akvo, si avverte il languore estatico del risveglio sensoriale proteso a captare le sfumature. Il clapping sparuto della finale Ah Ya Em Hamada è una straziante nenia di drammatica intensità e di eterea delicatezza.

Questa trilogia fondamentalmente lascia tutti gli interrogativi aperti, ma ha il merito inopinabile di riuscire a sollevarli e a renderne partecipe e affascinato l’ascoltatore. Impatta nelle modalità ambigue che possono spaziare dal fastidio al senso di irritante disturbo acustico, dall’immersione contemplativa alla scossa sensoriale che tocca la profondità più inconscia.

Si tratta di un lavoro di ispirato approfondimento sulle potenzialità espressive della musica contemporanea, in particolar modo in questo ultimo, complesso, atto finale, la ricerca è analitica e capillare e riguarda specificamente le modulazioni. Il gruppo, attivo fin dal 2009, con questa opera dimostra il coraggio della controtendenza, si inoltra in una complessa esegesi in cui gli elementi messi in campo sul piano della sperimentazione musicale e del non convenzionale trovano punti di congiunzione con l’arcaico sensoriale, l’antropologia e la psicologia. È uno spingersi oltre, una sfida che rivela la grande classe e il talento smisurato di questi artisti in coerenza e in continuità con le loro rispettive carriere e con i precedenti lavori accolti da un unanime consenso di critica. Partendo dal loro primo album Roto Vildblomma del 2010 e poi con lo splendido triplo Spiriti del 2011 (https://www.youtube.com/watch?v=-ME8A3IkkNk) che, pur nella loro peculiarità stilistica, hanno più marcate aperture melodiche e costruzioni classiche del quartetto d’archi tradizionale, iniziano ad addentrarsi in uno specifico dell’estremo che davvero porta a risultati unici e assolutamente inediti. Nel 2013 per la PAN hanno realizzato Som Sakrifis, probabilmente parte proprio da qui la visibilità internazionale del trio e un certo interesse mediatico che cerca di ascriverli nella nuova fenomenologia underground. Mohammad è l’unione di tre differenti personalità e influenze che si interessano all’impatto emozionale del suono. Spingono sempre più avanti la loro indagine, sprezzanti di ogni calcolo di carriera o tornaconto. Cercano di decriptare l’inesplorato che è relegato in qualche angolo buio della natura e che esiste, pur non essendo visto o percepito attraverso il normale uso dei sensi. Lo fanno attraverso la musica. La loro filosofia, anche sul piano religioso, potrebbe riallacciarsi allo gnosticismo, ad una maieutica dell’inconscio. Il loro background culturale lega da sempre il sonoro e il visivo, il saper cogliere alcuni stimoli specifici dal caos e re-interpretarli. Rifuggono da incanalature di generi (stoner, neo folk, dark ambient) che comunque non potrebbero davvero rendergli giustizia. Mohammad è un’identità a se stante carica di astrattismi e impressionismi che si intersecano in strutture di grande spessore emotivo. Portano il nome più comune al mondo (Maometto in italiano, nda) ma hanno intrapreso un cammino davvero unico e questa loro ultima fatica rappresenta l’esplorazione più autentica di un territorio sconosciuto. Unico l’approccio, unico assemblaggio, unica tecnica di inter modulazione. Questo grandissimo potenziale arriva – e non può essere casuale – dalla Grecia. Una Grecia attualmente travolta da una drammatica crisi economica e sociale che di certo non può preoccuparsi di dare spazio e possibilità ai talenti artistici, men che meno incentivare o finanziare la musica sperimentale. Ma loro sono qui e danno al mondo una meravigliosa lezione artistica. A dimostrazione che le potenzialità e le risorse umane sono ampie e sorprendenti, forse ancora più vivaci e motivate a emergere nei tempi bui.

 


 

ASCOLTI

  Mohammad, Vildblomma, Antifrost, 2010.
Mohammad, Spiriti, Antifrost, 2011.
Mohammad, Som Sakrifis, Pan, 2013.
Mohammad, Zo Rèl Do (34°Ν - 42°Ν & 19°Ε – 29°Ε), Antifrost, 2014.
Mohammad, Lamé Gastama (34°Ν - 42°Ν & 19°Ε – 29°Ε), Antifrost, 2014.