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di LIVIO SANTORO

 

Nel 1658, epoca di esplorazioni nelle curiose terre lontane dal “centro” del mondo, epoca di “scoperte”, come a noi europei è sempre piaciuto chiamarle, a Lérida, in Catalunya, Suárez Miranda pubblica il suo Viajes de varones prudentes, al cui interno, per la precisione nel capitolo XLV del Libro Quarto, leggiamo di un Impero in cui l’arte della cartografia, tendendo all’assoluta perfezione, volendo raggiungere la massima esattezza, precipitò in una tensione talmente ipertrofica da far sì che i cartografi dell’Impero, dopo aver costruito mappe delle provincie grandi come città, e mappe dell’Impero grandi quanto le provincie, giudicarono il proprio lavoro approssimativo e imperfetto nonostante l’impegno profuso, e cercarono dunque di superarsi e di far meglio. Fu così che nell’etica monastica imposta dalla loro stessa perizia, dal loro zelante furore descrittivo, i cartografi finalmente si superarono, e crearono una mappa dell’Impero delle dimensioni dell’Impero stesso, adagiata entro i suoi confini come una mano appiccicosa che si poggia sullo specchio.

Nel 1889, Enoch Soames scrive Negations, libro in cui leggiamo che la morte, per gli sventurati a cui tocca l’Inferno, non è altro che uno stato della coscienza che “si affaccia spaventata a un vuoto che aspetta”, un vuoto popolato da creature orribili la cui scaturigine è la medesima coscienza, la paura che in essa è generata dal senso di spaesamento di un’attesa evidentemente indeterminata. Per coloro a cui spetta il Paradiso, invece, secondo le parole di Soames, i fantasmi che popolano la coscienza sono creature docili, affabili, aliene dalla minaccia, con cui vivere un tempo, che forse non è tempo, scevro dal terrore.

Tra il 1904 e il 1909, all’inizio del febbrile Novecento, nella cittadina di Lund, in Svezia, il tenace teologo Nils Runeberg pubblica tre edizioni del libro Kristus och Judas, contrastando la comune visione della teologia tradizionale e condivisa, e tratteggiando dunque il profilo della figura di Giuda, per chiunque altro ascrivibile all’infamia più profonda, all’empietà più odiosa, come quella del più retto degli uomini (nella prima edizione del libro), come quella del più santo degli apostoli (nella seconda), come quella del più divino degli enti (nella terza e ultima edizione).

In un periodo purtroppo non databile, all’interno di un’enciclopedia cinese citata dal dottor Franz Kuhn e intitolata Emporio celeste di conoscimenti benevoli, leggiamo un’insolita tassonomia che descrive il patrimonio faunistico dell’Impero suddividendolo in: “(a) [animali] appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che si agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche”.

Il lettore rigoroso che voglia cercare Viajes de varones prudentes, Negations, Kristus och Judas e i volumi dell’enciclopedia Emporio celeste di conoscimenti benevoli negli scaffali fisici delle nostre biblioteche si troverebbe, purtroppo per lui, di fronte a un’impresa impossibile, perché tutte queste opere invero non esistono, non sono altro che frutto dell’immaginazione, anche se di un’immaginazione formidabile, questo è certo.

Il lettore che al contrario sia disposto ad ammettere che non tutte le opere della letteratura universale hanno concretezza materiale, che non tutti i libri sono fatti di pergamena o di cartapecora o di fogli riciclabili (o anche di byte, nella contemporaneità che si manifesta sugli schermi con il complice suffisso e-), potrà trovarne menzione, rispettivamente, nelle pagine de L’artefice (in particolare nel frammento Del rigore della scienza, a sua volta parte di Museo, Borges, 1999), del Libro del cielo e dell’inferno (nel frammento L’allucinazione della morte, Borges e Bioy Casares, 2011), di Altre inquisizioni (nel saggio narrativo L’idioma analitico di John Wilkins, Borges, 1973) e di Finzioni (nel racconto Tre versioni di Giuda, Borges, 2015, cfr. in questo numero, ndr). Potrà trovarne menzione, in altre parole, in alcuni fertili capitoli dell’opera dell’argentino Jorge Luis Borges, dove le parole pullulano vorticose e non hanno la minima intenzione di rispettare la frustrante misura del reale.

Il mondo di Borges, non c’è bisogno di ricordarlo, è un ambiente che fa di questo tema, ossia del brulicare delle opere di finzione all’interno della finzione stessa, uno dei suoi principali motivi d’essere: perché lì la letteratura è l’unica cifra perseguibile, come una scatola grandissima e a dire il vero infinita che contiene se stessa e il suo più profondo segreto. A titolo esemplare (per non incorrere in remoti bizantinismi da enciclopedisti che con i byte purtroppo configgono in acerrima pugna) si prenda soltanto, tra i libri dell’argentino sopra citati, quello scritto, o meglio antologizzato, a quattro mani con il sodale e paritario socio Adolfo Bioy Casares: Libro del cielo e dell’inferno, vorticosa raccolta di frammenti veri e inventati, apocrifi o veridici, in cui numerosi autori discutono di ciò che c’è nella più o meno umbratile parte dei morti. Lì si possono incontrare Franz Kafka, Emanuel Swedenborg, brevi passaggi de Le Mille e una notte o dell’Arharva-Veda, ma anche le riflessioni già citate di Enoch Soames, personaggio dell’omonimo racconto di Max Beerbohm, scrittore inglese della nostra realtà vissuto tra il XIX e il XX secolo, che sono assunte sullo stesso piano del reale delle altre.

A dirla tutta, l’opera di Borges è disseminata di simili giochi, in essa i libri reali si mescolano con quelli fittizi, dando così corpo a un’enorme biblioteca che contiene volumi mai stati scritti da mano umana o divina. Queste opere immaginate, inconsistenti nel nostro mondo materiale, nelle intenzioni di Borges o anche al di là di esse hanno però un preciso scopo. Sono inoltre testi che, a modo loro, esistono e ricadono sul reale soltanto per il fatto di essere stati immaginati e delineati in tutte o alcune delle loro parti. Esempio evidente ne sia proprio l’Emporio celeste di conoscimenti benevoli, una delle fonti principali per l’ispirazione di Michel Foucault nel suo Le parole e le cose (Foucault, 1998). Nella prefazione di tale ultimo volume, che proprio dall’Emporio prende il via, si legge:

“Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero – del nostro, cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia – sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro. […] Nello stupore di questa tassonomia, ciò che balza subito alla mente, ciò che, col favore dell’apologo, ci viene indicato come il fascino esotico di un altro pensiero, è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo.”

Foucault ragiona sul fatto che nell’Emporio, localizzato in un lontano altrove cinese di cui non conosciamo il tempo, avviene un evento disarmante in grado di farci lambire i confini dello sgomento e pure di farceli valicare: non è tanto la presenza di animali favolosi e di sirene a far sì che noialtri si vacilli; a trascinarci nella confusione è piuttosto l’impossibilità che noi lettori (con “la nostra età e la nostra geografia”) vi leggiamo, essendo da parte nostra avvezzi a un sistema classificatorio che per statuto non può ammettere all’interno di una serie tassonomica una voce che a sua volta contenga la serie stessa (il punto h: animali “inclusi in questa classificazione”), così come non può ammettere una voce che dichiari “eccetera” senza chiudere la serie.

La faccenda è grossa perché in ballo, come Foucault dice in apertura, c’è il nostro pensiero; un pensiero che alla luce dell’Emporio sembra precipitare, e nel precipizio ribollire per poi disperdersi in forma sottile di vapore.

Rileggendo dunque l’elenco dei quattro testi fasulli nella nostra realtà che esistono invece, veridici, nell’opera di Borges (Viajes de varones prudentes, Negations, Kristus och Judas, Emporio celeste di conoscimenti benevoli) e poi altrove a partire da essa, ci si rende conto che in tutti i casi il gioco dell’autore (degli autori considerando Bioy Casares antologista e Max Beerbohm scrittore) ha, tra gli altri, un suo intento perspicuo: creare e consolidare uno spazio che, mascherandosi proditoriamente da realtà fittizia, non sia più tale; uno spazio in cui porre al vaglio di un’ironica sfacciataggine marginale le linee fondamentali del pensiero del “centro”.

Ecco che, in Kristus och Judas, il tradimento di Giuda diventa l’atto principale di Dio, nell’estensione parossistica dell’etica cristiana.

Ecco che, in Negations, l’aldilà diventa un fatto privato, nella tensione individualizzante dei moderni che hanno inventato la coscienza, apostoli inveterati e convinti delle capacità del soggetto.

Ecco che, in Viajes de varones prudentes, il “rigore della scienza” diventa un manierismo che procede asintoticamente verso la sua propria validazione, in una parodia di quel razionalismo che a partire da un certo periodo della nostra storia va prendendo forma e concretezza per imporsi poi come metodo dotato di legittimo senso.

Ecco che, in Emporio celeste di conoscimenti benevoli, l’imperativo dell’esaustività e della mutua esclusività del sistema classificatorio di matrice illuminista e disciplinare diventa un proposito impraticabile, nella frantumazione immateriale delle regole dell’archivio.

Tutti questi esempi, seguendo anche quando sostenuto da Foucault, ci trascinano verso una localizzazione eteroclita in cui a emergere è l’“impensato”; o almeno in cui l’“impensato” cerca di emergere.

Sergio Waisman, nel suo Borges e la traduzione. L’irriverenza della periferia (2014), sostiene che, grazie alla traduzione, Borges si fa testimone della resistenza delle periferie nei confronti della Metropoli, del “centro”. Grazie alla sua reinterpretazione di James Joyce e a quella di E.E. Cummings (in quest’ultimo caso ancora una volta a quattro mani con Bioy Casares), per esempio, o alla produzione letteraria di Pierre Menard (Borges, 2015), personaggio che riscrive parola per parola il Don Chisciotte in un’altra epoca e in un altro contesto, Borges si fa portatore di una riflessione per la quale quanto viene scritto in un contesto può essere riscritto, mis-tradotto, e non semplicemente tradotto, in un altro contesto. Quando è un contesto periferico a tradurre un contesto centrale, continua Waisman, allora la traduzione, la riscrittura, la cosiddetta mis-traduzione, può acquisire delle vere e proprie connotazioni di resistenza a un sistema di produzione non soltanto letteraria, ma anche e soprattutto di pensiero. Non a caso Pierre Menard, autore e traduttore del Chischiotte, è anche la firma di una lunga bibliografia di scritti di diverso genere e tipo elencati da Borges nel racconto a lui dedicato.

In quest’ordine di idee, dunque, e tornando a noi, è forse possibile sostenere che, grazie al pullulare nella sua opera di libri immaginari perturbativi dell’ordine del “centro”, come quelli che abbiamo qui citato in apertura, Borges non faccia altro che estremizzare quanto proponeva anche con la sua idea di traduzione, collocando questi stessi libri in un’eterotopia (ancora à la Foucault, naturalmente), in una biblioteca che sta altrove ma che contiene la nostra, tutte le nostre (può una biblioteca stare altrove e contenere le nostre, dopo essere nata proprio al loro interno?), e che, nella sua spazializzazione sconfinata eppure inconsistente in quanto a misura concreta, accolga tutto ciò che il pensiero, il nostro pensiero, non è riuscito o non riesce, o forse semplicemente non ha voluto e non vuole, concepire.

Forse, per noi, si tratta di aver a che fare con una faccenda sgomentevole, questo è certo. Tuttavia, diciamocelo chiaramente, There Are More Books

 


 

LETTURE

 

  Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 1973.
  Jorge Luis Borges, L’artefice, Adelphi, Milano, 1999.
  Jorge Luis Borges, Finzioni, Adelphi, Milano, 2015.
  Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares,  Libro del cielo e dell’inferno, Adelphi, Milano, 2011.
  Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998.
  Sergio Waisman, Borges e la traduzione. L’irriverenza della periferia, Arcoiris, Salerno, 2014.