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di Gennaro Fucile

 

Omini ingobbiti, tristi, grigi, anonimi, omini-massa, talvolta scheletri che spuntano tra cavi elettrici, tubi, pozzanghere, mattoni, fanno capolino circondati da micro paesaggi segnati dall’incuria e dall’abbandono. Figure a metà tra le sculture di George Segal e i personaggi di Samuel Beckett, characters di dimensioni ridotte, come quelle dei puffi, che appaiono qui e là dove l’estro di Isaac Cordal li colloca. L’artista spagnolo non è l’unico esponente della street art a far emergere nel nostro quotidiano immagini che sembrano rimandare a qualcosa di irrimediabilmente perso, ma che al tempo stesso si ostina a riproporsi. Memoria di un tempo laterale, non proprio trascorso e nemmeno avveratosi, di cui l’immaginazione artistica sembra suggerire delle forme. Capita anche con un altro street artist, Phlegm. Un suo recente lavoro, Totems, realizzato sulla facciata di una ex fabbrica di carta in Norvegia. Una serie di figure, di soggetti e di elementi mostruosi, sovrapposti come sedimenti della memoria, ma di tempi non riconducibili ai nostri, dove gli elementi tecnologici ci sono al tempo stesso familiari ed estranei, ci appaiono proiezioni di un tempo lontano, al tempo stesso passato e futuro. Non sono opere singolari. Pur nella loro personalissima visione del mondo, Cordal e Phlegm, diversissimi tra loro, ci segnalano la persistenza di qualcosa che non è più tra noi pur non essendoci mai stato.
Nel percorrere i paesaggi contemporanei capita sempre più spesso di imbattersi in strane tracce che sembrano condurre in nessun luogo. Appaiono troppo moderne per essere testimonianze di tempi andati, ma antiquate quanto basta per non appartenere al presente. Mostrano i segni inequivocabili della rovina, dell’abbandono, della decadenza, tratti che vengono esibiti/mascherati talvolta in forma di documento, pertinenti alla musealità imperante, in altri casi denunciando un reale abbandono al lavoro del tempo. Sono manifestazioni dello spirito del tempo, in un certo senso, spirito che si fa pietra, metallo, immondizia, laddove “Il fantasma è il fenomeno dello spirito” (Derrida, 1994). Difficile non avvertire un malessere diffuso osservando questi lacerti del tempo perduto, perché quel tempo di cui sono testimonianza è il tempo futuro. Il futuro sognato, inseguito, pasticciato, tradito, desiderato, che si è letteralmente polverizzato, in un arco temporale che per comodità potremmo collocare tra due perentorie affermazioni: quella fatta in un’intervista del 1987 da Margaret Thatcher (“There is no such thing as society"), che aboliva il sociale e quella di Francis Fukuyama, che dichiarava la fine della storia in un famoso saggio del 1992. L’anno dopo, James Ballard annotava in un articolo pubblicato dal Daily Telegraph: “Può essere che noi abbiamo già sognato il nostro sogno del futuro, e che ci siamo svegliati di soprassalto in un mondo di autostrade, centri commerciali e atrii di aeroporto, che si stendono attorno a noi come la prima puntata di un futuro che ha poi dimenticato di materializzarsi” (Ballard, 2007).

 

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Congetture, difficile individuare il punto di rottura effettivo, il momento in cui il futuro si è smaterializzato, infrangendosi sulla società degli immateriali. Maggiori certezze le abbiamo sul fatto che lo abbiamo sognato, ipotizzato, teorizzato, perseguito e che numerose tracce sono diffuse sul pianeta, forme materiale di un malessere antico che ritorna, volgendo il suo sguardo non più, non proprio verso il passato, ma verso il futuro. Un tempo dal quale ci siamo distaccati e per il quale quindi proviamo qualcosa che possiamo ri/chiamare malinconia e rispetto alla quale siamo ancora una volta indifesi. A nulla varranno l’elleboro o la mandragola, tantomeno cataplasmi o erbe umidificanti o qualsiasi altra terapia tramandata da Ippocrate a Galeno, piuttosto che i trattamenti morali ottocenteschi, oppure l’oppio o le maniere forti dell’istituzione ospedaliera. 
La malinconia del futuro può forse trovare sollievo solo in nuove utopie, ma questo esula dal compito di rapido inventario – in particolare italiano – da svolgere qui. Una rassegna possibile inseguendo strane tracce, segni ambigui che non appartengono del tutto al presente, tracce del passato, ma le tracce indicano anche una direzione, una meta da raggiungere, un’agire nel futuro, un’intenzione di ieri verso il domani che la traccia manifesta. Dunque, le tracce appartengono a una dimensione ambigua, tra l’essere e il non essere, sono state, sono, ripresentano un percorso, lo reiterano, come gli spettri. Apparizioni. Ritorni. “L’umanità non è altro che una collezione o una serie di fantasmi” (Derrida, 1994). Molti sono gli spettri del futuro che infestano il presente, tutti in qualche modo generati dall’idea di progresso e dalla realtà del lavoro, che proprio sul finire degli anni Novanta lascia un’impronta macroscopica a Palermo, dove Ilya ed Emilia Kabakov allestiscono il Monumento alla civiltà perduta, un complesso di 38 installazioni che nell’insieme danno vita a “una gigantesca installazione della dimensione di 60x80 metri, con un’altezza media di 3,5 metri e massima di 7 metri” (Kabakov, 1999). L’opera è stata progettata come documento/denuncia del totalitarismo sovietico, e intende raccontare la quotidianità del presunto uomo nuovo abitante dell’Urss. La rovina e il disastro di questo sogno sono evidenti ovunque, in particolare nell’installazione intitolata Non viviamo qui. “L’installazione raffigura un’estesa superficie edificabile sulla quale è stato dato inizio alla costruzione di un’opera grandiosa: il «bellissimo palazzo del futuro» […] Lo spettatore entra in questo ambiente, passa da un locale all’altro  e vi scopre un mondo vastissimo e variegato […] Ma guardando  attentamente il «cantiere», lo spettatore si accorge che il lavoro è fermo da tempo, che tutto è in stato di abbandono  e che intorno – dalle impalcature ai  materiali – non ci sono che montagne di rifiuti. […] ciò che doveva diventare un meraviglioso e splendido «domani» si è fermato in un «adesso» eternamente immobile di cui sa cosa fare” (ibidem). 
Rovine a Est, rovine a Ovest, come annota Douglas Murphy: “Molti progetti del ventesimo secolo, compiuti per cambiare modelli politici, estetici e di vita, sono ancora sotto i nostri occhi, resi ancor più amari dall'affievolirsi della loro mancata incidenza sul futuro. Le rovine del modernismo sono sempre più spesso oggetto di espressioni artistiche e letterarie, e costituiscono una componente considerevole nelle opere di artisti contemporanei come Jane e Louise Wilson, Cyprien Gaillard, Tacita Dean, e Jeremy Millar” (Murphy, 2013). Tutti lavori che denunciano un’assenza: “La rovina moderna è la scoperta di un vuoto nel presente, un vuoto lasciato da un futuro potenziale che è esistito solo nel passato” (ibidem). Un futuro spesso sognato e inseguito in fabbrica, fatto di nuovi equilibri capaci di corrodere il potere, di superare la preistoria sociale. 
Alla fabbrica è dedicato ad esempio Kodak (2006), film girato in Francia, nello stabilimento dell’azienda situato a Chalon-sur Sâone, ripercorrendo tutte le fasi della produzione della pellicola, una memoria su una memoria tecnologica ancora sottostante all’ordine analogico, un simbolo di modernità oramai reso obsoleto dalla civiltà digitale, che cortocircuita il pensiero facendo coincidere il soggetto del film con il declino del suo supporto materiale. Sempre alla fabbrica e ancor più connaturato al fantasma è uno dei primi lavori che Studio Azzurro ha realizzato sul tema del museo di narrazione, La fabbrica della ruota (2005), dedicato a Pray (Biella), allestito nell’ex lanificio Zignone, più conosciuto proprio con il nome di Fabbrica della ruota, una struttura risalente al 1878. L’area dismessa ritorna in scena, riappare, grazie alla relazione interattiva che si instaura tra lo spettatore e il dispositivo predisposto dal collettivo milanese, azionando l’ormai antico ciclo produttivo della lana. Gli spettri dei macchinari tessili e degli operai addetti alle varie fasi del lavoro, riemergono dalla memoria collettiva.

 

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Sempre la fabbrica, le sue rovine emergono dalle strutture più moderne del consumo, come nell’ex area industriale Breda a Sesto San Giovanni, Milano, quella che un tempo venne ribattezzata “la Stalingrado d’Italia”. Qui ora sorge un centro commerciale con un Ipercoop e un cinema multiplex. Sorgono all’interno di un parco pubblico al cui interno si innalza la struttura conservata intatta del Carroponte e la sede del Museo dell’Industria e del Lavoro. La struttura del Carroponte è uno spazio riconvertito per ospitare concerti e spettacoli; è dedicato all’intrattenimento, ma di questa dimensione spettacolare non è mera cornice, ne costituisce l’intima dimensione, è un effetto speciale del tempo e della memoria che si incarna nella materia dura della macchina un tempo adibita al trasporto di merci e materiali. Lavoro e intrattenimento, fabbrica e palcoscenico vanno spesso a braccetto nel presente, sono spettri di coppie antinomiche che riappaiono in più di uno dei luoghi più trendy del consumo contemporaneo: Eataly, dove il pre e il post industriale si incontrano. Qui con minacciosa leggerezza prende corpo una geniale intuizione di Loris Campetti, che oltre vent’anni fa scrisse: “Gli approcci ecologico e consumistico sono distanti tra di loro, ma hanno in comune l'insofferenza per il permanere della questione operaia” (Campetti, 1992). Sin dal suo apparire nel 2007, occupando gli spazi dell’ex fabbrica della Carpano al Lingotto (Torino), quelli del famoso vermouth e del celebre Punt e Mes (il vermouth rosso, con china), l’insegna Eataly si è insediata su luoghi dismessi della civiltà industriale. Ne conserva qualche volta memoria in forma istituzionale, come nel caso torinese, dove è allestito un museo che ricostruisce l’intera storia della fabbrica, esponendone cimeli di varia natura, si parte dagli oggetti ritrovati “casse in legno marchiate a fuoco, oggetti legati all’imbottigliamento, vecchie cartoline, timbri per la marchiatura e carrelli sui quali le merci venivano trasportate” come recita la pagina web che gli è stata dedicata e si giunge a un’area “dedicata alle materie prime del prodotto: vino, alcool, zucchero, caramello e sostanze aromatiche. Ci troviamo nella parte in cui un tempo le erbe venivano stipate, pesate, macinate, infuse e conservate e dove la storia della preparazione e conservazione degli estratti si dipana tra sacchi in juta e contenitori di vetro. Conclude il percorso l’esposizione di sei olfattori contenenti le principali erbe presenti in tutte le formulazioni del vermouth” (ibidem). In altri casi, sono gli spazi per godere del tempo liberato dalla fabbrica a essere fagocitati: il cinema, come nel caso della struttura bolognese, ri-sorta dal locale della storica sala cinematografica Ambasciatori. Il fantasma di un ex spazio fantasmagorico si aggira dunque tra ristorantini, una libreria e scaffali di merci politicamente corrette, green, a km 0, a filiera certificata e tutto quanto placa la colpevole coscienza dell’occidentale. Alla movimentazione ed esposizione delle merci erano invece dedicati gli spazi di Genova (il porto) e Bari (ciò che restava della Fiera del Levante); alle merci culturali era invece preposto lo spazio della struttura di vendita fiorentina sorta laddove c’era la Libreria Marzocco – fondata nel 1840 – e alla circolazione delle persone quello romano (Airterminal dell’Ostiense). 
Il vero spettro appare però a Milano. Sotto di lui ortofrutta, pane, pizze, cornetti, piadine, caffè, cioccolato, alle sue spalle e a i fianchi salumi, formaggi, pasta fresca, prodotti di rosticceria, ristorantini mentre lo sovrastano vini, birre e altri ristoranti. La cosa sospesa nel vuoto, circolare come un Ufo (e se arriva dal futuro, quale migliore icona?) è ciò che resta del palcoscenico dello storico teatro Smeraldo, aperto nel bel mezzo della II Guerra Mondiale, nel 1942. Uno spazio in origine dedicato al varietà (vi capitò per caso Billie Holiday), poi sempre più cornice per concerti di artisti come David Bowie e Lou Reed. La Milano dello smog, della fabbrica, del relax, del progresso, del Carosello e delle sue favole di marca transitava dal teatro Smeraldo, quella del consumo equo e solidale, della cultura del cibo, rispettosa dell’ambiente, fa shopping da Eataly all’ombra del futuro perduto. Chi non andava a teatro guardava la tivù, luogo ideale per allevare fantasmi, infatti a qualcuno nel lontano 1967 venne in mente di produrre uno spettacolo intitolato Ieri e oggi, che andò avanti fino al 1980. A condurla furono personaggi notissimi del mondo televisivo, da Lelio Luttazzi ad Arnoldo Foà e poi Paolo Ferrari, Mike Buongiorno, Enrico Maria Salerno e Luciano Salce. Il format prevedeva la presenza in studio di un paio di ospiti che dando le spalle al pubblico in studio conversavano su quanto fatto fino a quel momento in televisione, rivedendo spezzoni dei programmi ai quali avevano lavorato. Le luci in studio si spegnevano come al cinema e su un grande schermo iniziava la proiezione. Una televisione moderna (ma ancora in B/N) che osservava le sue origini e ragionava con discreta autoreferenzialità. Passano i decenni, arriva la moltiplicazione dell’offerta televisiva della Rai, nasce il canale Rai Storia ed ecco che tra le tante riproposte di vecchie trasmissioni, ri-appare Ieri e oggi. Di fronte al telespettatore una doppia scena, formalmente due momenti del passato, uno più recente e uno meno ravvicinato. Eppure cronologicamente la scena che ci appare più lontana nel tempo è proprio quella ripresa in studio, forse segnata da abiti allora di moda, nel segno del giovanilismo, mai più ripresi se non in fugaci collezioni dell’haute couture. Il vero perturbamento però arriva dalla inclassificabilità. A quale tempo appartiene quella trasmissione che ci parla oggi dal passato di una trasmissione di cui parlava riferendosi a momenti del suo passato? Se Ieri si conferma tale, gli spezzoni delle trasmissioni televisive ci appaiono per quel che sono, episodi pionieristici del mezzo (in Italia, si intende), Oggi ci appare davvero un tempo “fuor di sesto”, incollocabile, non vivo, ma neanche morto, rendendo la replica del XXI secolo letteralmente inguardabile, perché insostenibile senza che la sua visione non susciti un malessere, un’inquietudine, come tutte le altre apparizioni sinora citate. Segni di una perdita e della relativa malinconia che questa produce inevitabilmente.

 

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In questo mondo spettrale, dove i futuri di ieri si manifestano e infestano lo sconfinato presente, che fine ha fatto la narrazione per eccellenza del domani, la sua voce eroica, entusiasta e al tempo stesso ammonitrice, la fantascienza? Dissolta, cancellata, cestinata. Come mai? “Il futuro è forse arrivato troppo presto, in qualche momento attorno alla metà del secolo, l’epoca più importante della fantascienza moderna?” (Ballard, 2007). Parto prematuro, presto surclassato dalla velocità di diffusione di tecnologie che hanno prodotto mutazioni profonde finanche nel più banale quotidiano. Ecco allora che una rivista come Wired oggi soppianta il ruolo di quelle gloriose fanzine (una per tutte: Astounding Science Fiction), che fecero fiorire il genere a partire dagli anni Venti del XX secolo. Cosicché succede che quando delle storie in senso classico ricompaiono proprio su Wired, è al cospetto di genuini spettri del futuro che ci troviamo di fronte. È successo proprio nell’estate 2014, quando il numero di agosto dell’edizione italiana, sfoggiando una copertina all’altezza dei tempi passati di John W. Campbell, lo storico direttore di Astounding, ha chiamato dodici autori (numero piuttosto simbolico) a rendere omaggio addirittura al fondatore riconosciuto del genere moderno, Hugo Gernsback, creatore di Amazing Stories, la fanzine delle fanzine di science fiction. Tra i dodici ci sono diversi autori di valore internazionale, come Bruce Sterling, Valerio Evangelisti, George R.R. Martin (quello della saga Game of Thrones), guidati da Sergio “Alan” D. Altieri, la cui foto è la cosa più aliena delle 96 pagine occupate dallo speciale. Già, perché, (solo per fare un paio di esempi relativi allo stesso numero di Wired), le storie dello speciale sono precedute da Kor Fx “l’avanguardia dei corpetti aptici per gamer”, un gadget “basato sulla tecnologia wireless 4dfx, che traduce gli impulsi audio in retroazioni  localizzate” suggerito non solo per divertirsi con un videogioco, ma anche per addestramenti militari digitalizzati; sono anche precedute dal punto sulla preparazione del lancio del capitano dell’Aeronautica militare e astronauta dell’Esa, Samantha Cristoforetti, nell’ambito della missione Futura. Le dodici storie incredibili che seguono appaiono fuori sincrono come i personaggi di Ieri e Oggi, ancora una volta è quell’oggi a non appartenere all’oggi. La fantascienza si è praticamente dissolta nel reale, sorpassata dalle sue previsioni che, occorre ricordarlo non sono banali anticipazioni di gadget, di meraviglie della scienza e della tecnica, ma intuizioni sulle relazioni a venire tra uomini e inediti ambienti tecnologici. Una liquefazione a sua volta pre/vista anzitempo da più parti, basti rileggere le riflessioni di Jean Baudrillard sin dalla fine degli anni Settanta (cfr. Baudrillard, 1980). 
Con un candore che lambisce il ridicolo, lo riprova Carmine Treanni che in parallelo al numero di Wired, la rivista di fantascienza del nostro presente senza futuro, scrive su Delos Science Fiction numero 164, la rivista online di fantascienza del nostro futuro passato, senza presente, che “Lo confesso, sono uno di quelli che gode quando vien fuori una o più notizie che riguardano nuove tecnologie e tutti parlano di fantascienza. Godo perché mi vien da pensare che tutti gli altri (esclusi noi fantascientifici) sono culturalmente arretrati, obsoleti”. È successo di recente con due nuove tecnologie di cui si sta parlando sulla Rete e sui giornali”. Treanni si riferisce a nuove tecnologie che rendono possibile la realizzazione di traduttori universali e videoconferenze olografiche. Si avvererebbe così quanto predetto da Star Trek e Star Wars. Ed è vero, ma sembra che solo i cosiddetti “fantascientifici” non si rendano conto che questi sono avvenimenti luttuosi per il genere, episodi ennesimi di una messa a morte consumata e reiterata, che a volte produce spettri inquietanti, come quelli che si aggirano tra le pagine di Wired, in altre occasioni porta in scena fantasmi da operetta, come quelli evocati sulle pagine (virtuali, pagine che chissà come le definirebbe un “fantascientista”) di Delos, rivista a sua volta ospitata dal grande portale italiano della fantascienza. In realtà, un sottogenere a più livelli imparentato con la fantascienza mette in scena con maggiore efficacia e pertinenza orde di ritornanti di coloro che non sono del tutto morti e non sono neanche del tutto vivi: gli zombi. Al contrario degli spettri, gli zombi possiedono ancora un corpo, seppure in rovina, agiscono collettivamente e si nutrono di carne umana (ma non sono antropofagi, non potendo considerarsi del tutto umani). Il genere cinematografico nasce negli anni Trenta del XX secolo, si codifica nel 1968 con La notte dei morti viventi di George Romero ed esplode, non a caso, a partire dagli anni Ottanta, spettacolarizzato dal videoclip girato da John Landis per Thriller (1983) di Michael Jackson, un format ibrido a sua volta. Il singolo zombie non possiede la forza dello spettro, la sua invincibilità, la capacità di ritornare ostinatamente. Lo zombie deve moltiplicarsi per ottenere il medesimo risultato; se un solo zombie entrasse in azione, presto la questione verrebbe risolta, perché lo zombie può morire definitivamente, ma quando è un’orda ad agire le cose cambiano. Perché dunque lo zombie come lo spettro è il segno (anche se disfatto) di un futuro abortito? La massa, il permanere della questione operaia e in senso lato del lavoro, del suo sfruttamento e della sua emancipazione, in un nuovo mondo che ha sbriciolato i legami di classe, ha creato un immenso esercito di forza lavoro delocalizzato e permanentemente precario, la società liquida che ha anche liquidato le basi materiali da cui è sorta, l’imbarbarimento del sociale, la sua fine come proclamò la Thatcher, ecco, tutto questo mondo in perpetuo sfilacciamento, progetti, idee, utopie e fallimenti trovano nel corpo devastato dello zombie un’esemplare (e drammatica) metafora che cinema e televisione in seguito hanno diffuso su tutto il pianeta. Il conflitto tra lo ieri/domani che ritorna e l’oggi si compendia mirabilmente proprio nel reiterato ricorso al centro commerciale, al supermercato, ai grandi magazzini come rifugi ideali per l’umanità presa d’assalto dagli zombi. Tracce trasversali, come si è detto che sembrano non condurci in un punto definito, che approdano nel nulla di un tempo aspirato dal tempo stesso. Segni di una perdita che tenacemente trova modo di ritornare, segni che si possono rintracciare un po’ ovunque come si è visto in questo rapido excursus che si conclude ritornando a Est, dove hanno iniziato ad aggirarsi i primi spettri del futuro, in quell’est politico a sua volta dissolto, anzi abbattuto a picconate: a Berlino. Il palcoscenico dove si esibiscono le ultime scene di un futuro molto immaginato e per nulla realizzato si chiama Spreepark. Era il parco giochi dove tutte le famiglie della DDR ben organizzate si recavano per portare in gita i propri figlioli. All’epoca (venne realizzato nel 1969) si chiamava Kulturpark Plänterwald. Non si faceva mancare nulla, barchette a forma di cigni, dinosauri, giostre, montagne russe, due parchi d’acqua da gioco, un trenino che fa il giro dell’area circoscritta, un villaggio stile, una grande ruota panoramica. Giù il Muro e via al progressivo decadimento del parco, abbandonato, in disuso e di recente (agosto 2014) quasi del tutto bruciato in seguito a un incendio forse doloso. Prima del rogo, la scena era piuttosto simile al set di un film horror, con le carcasse dei dinosauri e dei cigni a ogni angolo del parco, la cabina di comando delle montagne russe che cade a pezzi, vetri ovunque, muffa, ruggine e la grande ruota che mossa dal vento cigola come solo gli spettri con le loro classiche catene sanno fare.
Quanti altri spettri si aggirano per l’Europa (e oltre)?

 

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LETTURE

  James Ballard, Ritorno all’eccitante futuro, in Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2007.
  Jean Baudrillard, Simulacri e fantascienza, in Luigi Russo (a cura di),
  “La fantascienza e la critica. Testi del Convegno Internazionale di Palermo, Feltrinelli, Milano 1980.
  Loris Campetti, I misteriosi figli della fabbrica della qualità totale, in il Manifesto, 12/9/1992.
  Jacques Derrida, Spettri di Marx, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1004.
  Ilya, Emilia Kabakov, Monumento alla civiltà perduta, Charta, Milano, 1999.
  Douglas Murphy, L’architettura del fallimento, Postmedia Books, Milano, 2013.