In Ghosts of My Life, uscito lo scorso giugno, ti proponi di indagare una particolare “struttura” che caratterizzerebbe la nostra esperienza quotidiana della cultura nel XXI secolo – ovvero il ritorno continuo del già noto, sintomo della lenta ma inesorabile sparizione – negli ultimi trent’anni – dell’afflato verso il futuro. Qual è il filo rosso che lega Ghosts of My Life al tuo precedente libro (2009) Capitalist Realism. Is There No Alternative? (www.quadernidaltritempi.eu/ancore06)?
In realtà, sebbene siano usciti a vari anni di distanza l’uno dall’altro, questi due libri possono essere pensati come due testi nati in parallelo piuttosto che in successione. Infatti Ghosts Of My Life raccoglie una serie di scritture non inedite uscite originariamente prima del 2009, e inoltre i due libri affrontano la stessa questione da due angolazioni differenti. Per dirla in maniera semplice, in Capitalist Realism c’era il tentativo di descrivere alcuni degli effetti derivanti dall’idea che non vi sia alternativa al capitalismo, come la chiusura degli spazi d’intervento culturale e politico. Ghosts Of My Life invece è incentrato sulla persistenza di possibilità alternative anche nella fase del collasso, della resa e dell’esaurimento. Fredric Jameson ha affermato che il postmodernismo sia la logica culturale del tardo capitalismo, e io credo che alcune delle caratteristiche che Jameson attribuiva alla cultura postmoderna – ed in particolare la tendenza al pastiche e alla retrospezione – si siano intensificate e abbiano proliferato nel tempo al punto tale da essere diventate, oggi, le modalità dominanti della cultura contemporanea. In Capitalist Realism ho provato a descrivere questa paralisi partendo da un’analisi del film Children of Men di Alfonso Cuarón, che io ho letto come paradigmatico del fenomeno della sparizione del nuovo. Ghosts Of My Life è totalmente incentrato su questa sparizione e la domanda di fondo è: perché, a dispetto di tutti i profondi cambiamenti tecnologici del XXI secolo soltanto una minima parte della cultura contemporanea ci trasmette un senso di “nuovo”? Un po’ alla volta, ci siamo abituati a questo appiattimento; ma per me questa rimane una cosa alla quale non riesco ad adattarmi serenamente – e Ghosts Of My Life, sotto vari punti di vista, è emerso proprio da questa mia incapacità di adattamento.
In Capitalist Realism sottolineavi in più punti l’importanza di restituire alla cultura pop(olare) la sua dimensione politica. Ma mentre in quel testo ti concentravi molto sull’analisi delle linee portanti di alcuni dispositivi/pratiche (l’attivismo politico, la salute mentale, il lavoro, l’università), è in questo ultimo studio che davvero il tuo focus è più decisamente puntato sulla cultura pop degli ultimi trent’anni. Il libro infatti raccoglie una serie di “casi studio”, che vanno dalla musica al cinema, alle serie televisive, alla letteratura. Mi ha colpito molto una definizione della cultura popolare che tu dai – “popolare senza essere populista”. Puoi spiegarla nel dettaglio?
Dicendo “populista” mi riferisco semplicemente a ciò che attrae e/o è programmaticamente orientato verso un gusto e dei desideri già esistenti. La cultura però può anche sfidare le preferenze e le premesse dominanti, pur rimanendo assolutamente popolare, assolutamente pop. La cultura che mi ha formato (serie TV sperimentali, cinema, musica elettronica da ballo, il post-punk) era proprio così. Come è noto, Theodor Adorno condannava senza riserve la musica ‘pop’, ma invece io non credo che il concetto di pop(olare) sia un concetto chiuso: quando si creano le condizioni necessarie, praticamente ogni cosa può essere pop. Eppure molte energie sono state spese affinché noi ci dimenticassimo di questa cosa una volta per tutte: in un certo senso, questa è l’epoca del populismo non popolare. Una figura come quella di Tony Blair è emblematica di tutto questo: è una figura totalmente modellata sui gusti ben noti del popolo, eppure non è riuscito a mobilitare il consenso derivato da questo suo corrispondere ai gusti del popolo a favore di nessuna causa se non quella di inseguire proprio una popolarità fine a stessa, con la conseguenza a lungo termine d’essersi invece piuttosto attirato un odio generalizzato. Oppure pensiamo un attimo ai reality show per la Tv, che sono enormemente popolari, hanno un seguito straordinario, ma sono pure assai disprezzati – e la maggior parte di quelli che li odiano con più accanimento poi ogni settimana si sintonizza per guardali. Di contro, pensiamo ai film di Stanley Kubrick o di Michelangelo Antonioni, o alla musica pop elettronica, o a quei television plays così strani come quelli che scriveva David Rudkin in Inghilterra (autore di visionari lavori per ATV e BBC, tra cui The Stone Dance del 1963 e Penda’s Fen del 1974, ndr): insomma, era una cultura che puntava sull’intelligenza e la complessità del proprio pubblico, che funzionava rispondendo quasi ad un’etica del dono – nel senso che non dava alla gente quello che la gente voleva, bensì provocava e produceva desideri che la gente non sapeva nemmeno di avere. L’importanza politica di tutto questo sta nel fatto che una cultura che ostinatamente ripete motivi e contenuti populisti triti e ritriti funziona implicitamente come una sorta di propaganda per l’idea che nulla possa mai più cambiare. E non dobbiamo dimenticarci quanto questo sia importante dal punto di vista della classe; c’è una dimensione di classe in tutto ciò. Una cultura che sia popolare senza essere populista può sfondare le linee di classe esistenti, laddove il populismo non fa che meramente confermare e proteggere i confini di una struttura classista. Molti dei momenti culturali evocati e compianti in Ghosts Of My Life ebbero luogo proprio in conseguenza del fatto che persone della working class erano riuscite, almeno in parte, a sfuggire al loro background di origine, afferrando e impadronendosi dei mezzi della produzione culturale che forgiavano i sogni e l’immaginazione collettivi. Mi sono reso sempre più conto, con il tempo, che l’infrastruttura che aveva permesso questi sviluppi, almeno per quanto riguarda il Regno Unito, era quell’apparato di stampo socio-democratico in cui rientravano varie misure, come i sussidi per la casa, i sussidi di disoccupazione, la sanità pubblica, le borse di studio – tutti sviluppi, questi, che liberavano il tempo; lo liberavano specialmente per la gente della working class, che poteva immergersi, in questo tempo liberato, nella produzione culturale. Quella che oggi chiamiamo precarietà è in fondo in larga parte un calmiere applicato a questo tipo di misure, una riduzione massiccia, che espone nuovamente la working class a condizioni di insicurezza permanente. Con l’emergere del realismo capitalista, questo apparato complesso è andato in mille pezzi. In un certo senso, oggi, mi interessano meno i potenziali effetti politici della cultura che i modi in cui gli sviluppi politici incidono sulle possibilità di produzione culturale. Rovesciare il neoliberismo significherà allora occupare nuovamente quelle istituzioni su cui i neoliberisti hanno preso il controllo; significherà introdurre misure che aumentino la sicurezza sociale. Uno dei grandi miti del neoliberismo è che l’insicurezza produca creatività; bene, io credo veramente che l’ultimo decennio smentisca pienamente questa posizione.
Visto che nel tuo libro si parla di
“fantasmi”, io direi che il tuo libro è
un “catalogo di tracce”. Ce ne sono di vari tipi e
la maggior parte di queste sono tracce sonore. Come mai proprio la
musica come “spettro-grafia” per eccellenza, per
te?
Mi piace tanto l’espressione
“un catalogo di tracce”. Io penso che una delle
fondamentali differenze tra Capitalist Realism e Ghosts
Of My Life sia proprio la presenza, in
quest’ultimo, della musica; infatti, in Capitalist
Realism si parla abbastanza estesamente di film, ma la musica
quasi non è menzionata. Invece in Ghosts Of My Life,
come tu stessa dici, la cultura musicale assume quasi una posizione
privilegiata. Io credo che la condizione
attraversata dalla musica oggi sia quello che più di ogni
altra cosa ci può far rendere conto del malessere temporale
che caratterizza la nostra epoca culturale così paradossale.
La musica ha perso del tutto quella relazione così stretta e
speciale che un tempo aveva con “l’ora”
– in parte perché non c’è
più nessun “ora” nel senso in cui un
tempo si diceva ci fosse, in parte perché si è
de-storicizzata. Ma è proprio in virtù di questo
che la musica è anche il teatro per eccellenza in cui si
consuma il dramma di oggi, quello del “tempo
scardinato”. In artisti come Burial, per esempio, io sento un
desiderio struggente di quei futuri che la musica un tempo forniva,
insieme alla dolorosa consapevolezza che quei futuri non sono
più accessibili. Questa centralità della crisi
della temporalità, che attraversa la musica, è al
cuore della “cultura della hauntology”
di cui discuto nel libro. Se infatti la tendenza dominante è
oggi quella di “photoshoppare” i crepitii,
minimizzare le anomalie temporali, la musica del tipo legato alla hauntology
va invece nella direzione contraria, enfatizzando il fatto
che oggi viviamo in un tempo scardinato, evocando un regime di
materialità sonora ora soppiantato, minando
l’illusione della presenza e quindi rendendoci consapevoli
che stiamo ascoltando “la seconda venuta” di
qualcosa – un fantasma registrato.
Come mai, fra tanti artisti che rientrano nella hauntology,
tu hai scelto di occuparti a lungo di The Caretaker?
Il
progetto The Caretaker è stato inaugurato da James Kirby nei
tardi anni Novanta, partendo da una domanda semplicissima: Come
suonerebbe un intero album organizzato così come lo sono i
frammenti di canzoni che sentiamo nella versione di Shining
(1980, ndr) diretta da Kubrick? Le scelte musicali
di Kubrick erano sempre funzionali al tono emotivo che i suoi film
dovevano evocare – e questo è particolarmente vero
in Shining, in cui il tono d’umore
generale è dato dal contrasto tra lo sperimentalismo atonale
di György Ligeti e Krzysztof Penderecki e il melenso pop da
sala da tè di Al Bowlly. Due canzoni di Bowlly sono presenti
in momenti chiave del film: It’s All Forgotten Now
– che è usata nella scena in cui un disorientato
Jack chiede al precedente guardiano dell’Overlook
informazioni sulla storia dell’hotel – e Midnight,
The Stars and You – che ascoltiamo nella sequenza
finale del film, in cui vediamo una vecchia fotografia
dell’Overlook in cui ci pare di vedere comparire anche Jack e
che ci fa scoprire finalmente che tanto lui quanto l’hotel
sono catturati in una sorta di loop temporale
infernale. The Caretaker ha iniziato selezionando una serie di tracce
pop degli anni Trenta simili a queste e applicandovi tecniche come il
riverbero o il delay. L’idea era
semplicissima, ma i risultati ottenuti sono potentissimi. Man mano che
il progetto si è sviluppato, si è
progressivamente trasformato in uno studio sulla memoria – o
sui disturbi della memoria. Quando finalmente è uscito il
cofanetto di sei cd Theoretically Pure Anterograde Amnesia (thecaretaker.bandcamp.com)
per cui io ho scritto le note di copertina, le vecchie canzoni erano
diventate piccoli frammenti in un campo sonoro astratto.
L’“amnesia retrograda pura” è
la condizione patologica da cui è affetto Lenny in Memento
(2000, ndr) di
Christopher Nolan; un disturbo in cui chi è affetto conserva
le vecchie memorie, ma non riesce a costruirne di nuove. In un certo
senso, oggi è la cultura stessa a soffrire di una forma di
amnesia retrograda pura. La retrospezione è sintomatica non
di una nostalgia confessata, ma di un deficit della capacità
di sintetizzare il tempo in una narrazione coerente: continuiamo a
ripeterci perché non ci rendiamo conto che
l’abbiamo già fatto prima; non riusciamo a
costruire nuove memorie e allora continuiamo a vivere le vecchie come
se fossero nuove. Ciò che rende The Caretaker
così potente secondo me è il modo in cui riesce a
rendere questo tipo di indagine incisiva e seducente. Il suo lavoro non
è solo vagamente un lavoro “su” un
disturbo della memoria; piuttosto, esso simula la condizione patologica
in sé. Perciò Theoretically Pure
Anterograde Amnesia è
un’esperienza d’ascolto che confonde e mette
angoscia: le tracce non hanno nome ed è come vagare in un
territorio strano e astratto, in cui soltanto i frammenti di vecchie
canzoni di tanto in tanto fanno da punti di riferimento, pur sempre
temporanei. Se questo è il lavoro più crudamente
desolato di The Caretaker, in altri lavori la firma emotiva delle sue
tracce è quella del dolore e del desiderio struggente,
esacerbati da una musica che è velata da crepitii ed
eco.
Una delle parti che preferisco, nel libro,
è l’intervista all’artista britannico
Burial, che qui viene ripubblicata dopo sette anni dalla realizzazione.
Quando l’hai realizzata, il mistero
sull’identità di Burial era ancora molto fitto
– facendo di Burial stesso il fantasma di un luogo, di un
tempo, di un mondo assai recenti: Londra, gli anni Novanta, la cultura
Rave. Com’è stato intervistare quel
fantasma?
Semplicemente straordinario.
Burial non aveva concesso molte interviste prima di allora, quindi mi
sentivo molto privilegiato per avere avuto la possibilità di
parlare con lui. E mi sento ancora più privilegiato adesso,
a distanza di tempo, perché interviste ora non ne rilascia
più. La prima volta che ho sentito la musica di Burial, mi
ha rapito: era la musica che avevo sempre sognato. Al tempo vivevo
proprio nella zona sud di Londra e quando camminavo per strada con
quella musica nelle cuffie avevo la sensazione perturbante che musica e
ambiente circostante si combinassero perfettamente. Io credo che Burial
sia l’artista che più di tutti – e mi
riferisco all’arte in generale, non solo alla musica
– è stato in grado di evocare la tristezza segreta
della Londra del XXI secolo, la malinconia che serpeggia sotto un mare
di messaggi e social network, l’inerzia che si nasconde sotto
il velo della smania comunicativa. E sì – i
riferimenti alla cultura rave e alla garage music
nella musica di Burial sembrava un po’ che fossero le ceneri
ancora ardenti di un (allora) recente passato che però
già sembrava irrimediabilmente distante: i residui di una
euforia collettiva in un momento di individualismo di rete, le
apparizioni di futuri sonori in un tempo in cui la musica –
perfino in ambiti fino ad allora fecondi come quello della musica da
ballo – si stava già richiudendo su se stessa
sotto il segno della retrospezione. Chiaramente, prima di incontrarlo
non avevo idea di come Burial potesse essere come persona e come
intervistato. Magari poteva trattarsi di uno di quei produttori che si
limitano a dire che “la musica parla da
sé” o cose del genere. E invece mi sono trovato
davanti ad un poeta dell’intervista, calmo ma eloquente,
capace di aggiungere, con i suoi commenti, ancora
un’ulteriore dimensione al lirismo già intenso
della musica.
Per esserci un fantasma, cioè
perché una traccia sopravviva, è necessario che
qualcosa muoia. Ma nell’età digitale
dell’infinitamente presente, dell’infinitamente
riattivabile, pensi che sia ancora possibile che qualcosa muoia, o
credi che a sparire sia stato il diritto stesso di essere
dichiarato morto?
Penso che tu abbia
trovato un ottimo modo per presentare la questione: niente muore
più, niente muore veramente; tutto quello che pensavamo
fosse morto ritorna su YouTube. Bisogna venire a patti con questa
circolazione infinita e chiederci quali conseguenze essa abbia sul
nostro senso del tempo. Forse quello che ci manca oggi, dal punto di
vista culturale, è un senso della finitudine. Quando
qualcosa era dichiarato morto, allora si apriva uno spazio per
qualcos’altro, che ne avrebbe preso il posto; se niente
muore, allora ci si presenta il problema della sovrappopolazione,
cioè di uno sciame, di una proliferazione di sollecitazioni
alla nostra attenzione. Il cyberspazio è indubbiamente
infinito, ma la nostra attenzione è finita. Come ho
già detto, in un certo senso quello che ci perseguita oggi
è la perdita della possibilità di perdere
qualcosa: viviamo senza dubbio in quello che è di gran lunga
il tempo più archiviato – ma per chi è
questo archivio? Chi è l’Altro che immaginiamo
potrebbe mai, in futuro, avere il tempo di consultare gli immensi
archivi digitali che abbiamo prodotto nell’ultima
decade? Il paradosso del momento attuale sta in parte nel
fatto che così come tutto persiste
nell’eternità digitale, tutto è anche
effimero come mai prima. Questo perché il sistema stesso che
permette alle cose di persistere e circolare allo stesso tempo mette
sotto pressione e frammenta la nostra attenzione. Twitter è
un chiaro esempio di tutto ciò: è una specie di
enorme archivio che si cancella da solo: soltanto quelli che non
twittano in maniera compulsiva possono esperirlo in quanto archivio;
quelli che twittano, invece, tendono ad essere
intrappolati in un passato estremamente immediato, che pretende una
risposta ora e adesso. La fissità di attenzione non
è abbastanza perché ci sia un senso di
permanenza; e così gli artefatti persistono non tanto come
oggetti quanto come pulsioni psicoanalitiche, virtualità che
esercitano una pressione pur non essendo in sé presenti.
La tua scrittura, in Ghosts of My Life,
è ricca di emozioni – alcune serene, altre
più dure. Come tu stesso scrivi, quelli del libro sono in
fondo “i fantasmi della tua
vita”. Non lo intendi però in senso meramente
autobiografico, ma – chiarisci – in senso
“politico”. Quanto è importante per te
che anche le dimensioni emotiva, psichica, affettiva siano reintrodotte
nella dimensione politica più generale?
Sono
felice che tu trovi la mia scrittura toccante. Trovo importante non
cedere le emozioni agli ingegneri libidinali e affettivi del capitale.
Viviamo in una cultura che è dominata da manipolazioni
emotive di ogni genere, che operano mistificando e personalizzando le
emozioni, promuovendo una certa ideologia
dell’interiorità – l’idea
cioè che l’interiorità sia
completamente separata dal fuori. Io volevo muovermi nella direzione
contraria: spersonalizzare le emozioni, o meglio cercare le radici
impersonali del cosiddetto ‘personale’. Una delle
cose su cui il libro lavora è questo concetto del potenziale
politico della malinconia. Il realismo capitalista potrebbe essere
definito come una forma di adattamento alle condizioni attuali; ma
quali alternative ci sono a questo adattamento? Una è
certamente un certo tipo di malinconia – se però
per malinconia si intende il rifiuto di abbandonare il desiderio, una
condizione in cui il legame non è con un oggetto perduto del
passato, ma con i futuri che abbiamo perduto. Questa è la
prospettiva cui cerco di dare corpo nel libro: non giudicare il
presente dal passato, ma dal punto di vista di quei futuri che, fino ad
ora, non si sono ancora potuti realizzare.