LETTURE / CALCIATORI DI SINISTRA. DA SÓCRATES A LUCARELLI: QUANDO LA POLITICA ENTRA IN CAMPO


di Quique Peinado / Isbn Edizioni, Milano, 2014 / pp. 251, € 21,00


 

Quando il pallone va all'ala sinistra

di Luca Bifulco

 

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Chi dice che il calcio è solo un gioco pronuncia un’affermazione che farà sicuramente piacere a qualche mielato perbenista, ma non coglie la realtà di uno sport che ha una decisa ramificazione nell’economia, nella strutturazione delle relazioni sociali e della vita quotidiana, ma anche e profondamente nella dimensione politica. Una rilevanza quindi a tutto tondo che non assume per forza tinte negative e che, soprattutto, accompagna in modo così stretto la realtà da offrirci un punto privilegiato da cui osservarne molte delle sue più consistenti declinazioni.

E, a riprova della dimensione politica che il calcio può avere, in un volume da poco uscito in Italia, Calciatori di sinistra, Quique Peinado ci racconta la storia di giocatori che si sono caratterizzati per il loro impegno politico o la loro passione ideologica. Un interesse che spesso non hanno avuto timore di coniugare con la loro professione. I temi contenuti in questo libro godono indirettamente della sponda offerta da quelli di un testo di Gabriel Kuhn mai uscito nel mercato editoriale italiano, Soccer Vs. The State. Tackling Football and Radical Politics. È questo un volume uscito nel 2011, ovvero un paio d’anni prima del lavoro di Peinado, che ha visto la luce nella sua versione originale nel 2013.

Kuhn ha una prospettiva indirizzata ad illuminare la matrice di potenziale ribellione che può risiedere in una specifica zona del mondo del calcio. Trovano accoglienza nelle pagine del suo libro le proteste contro la commercializzazione di questo sport, il dibattito ideologico sui temi calcistici o le campagne di giustizia sociale e promozione politica legate agli eventi del calcio. Ne emerge l’immagine di un terreno fertile in cui, seppur sottotraccia e ancora in casi sporadici, può risiedere il germe di un laboratorio di attivismo politico ed espressione di culture alternative.

Peinado, dal canto suo, è più orientato all’analisi biografica. Nel suo libro ci sono le storie di tanti giocatori del passato o del presente che non hanno mai taciuto il loro orientamento politico, anzi, hanno provato – laddove possibile – a rendere la loro vita e finanche la loro professione in qualche modo coerente con le proprie idee. Cosa, quest’ultima, non molto semplice, se pensiamo ai guadagni che consente la carriera del calciatore ad alti livelli e alla difficoltà, non sempre agevolmente risolvibile, che risiede nel ricomporre la contraddizione tra un reddito così munifico e un’ideologia al fondo egualitaria.

Ciò non vuol dire che battersi per il proprio credo, pagare a volte sulla propria pelle per il peso delle proprie idee e del proprio attivismo concreto sia attività contaminata e impura se proviene dai terreni del calcio professionistico. Anzi, può apparire, per un certo verso, cosa particolarmente degna di nota, proprio perché nasce in un contesto che nella sua dimensione più benestante risulta spesso ovattato, orientato al disimpegno o all’indifferenza tipica dei privilegiati, tanto che un atteggiamento di segno diverso può essere costretto a farsi carico di tutti i disagi – dalla derisione all’ostracismo più netto – tipici dell’eterodossia.

Tra le tante storie che trovano spazio nel libro di Peinado vale la pena di ricordarne alcune. Quelle, ad esempio, di calciatori come Sergio Manzanera, Aitor Aguirre, Josean de la Hoz Uranga o Inaxio Kortabarria, che si sono erti a portavoce, non senza rischiare in prima persona, delle istanze della sinistra basca negli anni Settanta, dovendo fronteggiare il seppur ormai decadente regime di Franco. Allo stesso modo apprendiamo delle vicende di chi ha in diversa misura pagato il prezzo della propria militanza politica nei paesi del Sud America del secondo Novecento governati da dittature militari: gli argentini Claudio Tamburrini, torturato prima di riuscire a scappare in Svezia, Ángel Cappa, anch’egli rifugiatosi in Europa – in Spagna per la precisione – dove darà inizio a una gratificante carriera da allenatore, e il desaparecido Carlos Alberto Rivada; Carlos Humberto Caszely, calciatore cileno che si oppose al dittatore Pinochet subendo l’ostracismo del potere sulla sua carriera e ritorsioni sulla sua famiglia che ebbero il loro apice nello stupro della madre; i brasiliani Reinaldo, Nando e Alfonsinho che esprimevano le loro idee rivoluzionarie tanto apertamente che il regime ne ostacolò senza mezzi termini la carriera.

Ci sono poi quegli atleti che, con una qualche matrice marxista, hanno lottato tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del XX secolo per liberare la forza lavoro dei calciatori dal dispotismo dei club, e che presumibilmente non apprezzeranno le derive utilitariste odierne di un mercato dei calciatori completamente deregolamentato. Lo stesso calcio contemporaneo, affarista e individualista, che ha disgustato e portato alla fuga giocatori come Ivan Ergic o Javier “Javi” Poves, fautori di un radicalismo politico più intellettuale e critico nel primo caso, più febbrile e infatuato nel secondo. Tra gli italiani spiccano le storie di Cristiano Lucarelli, con le sue scelte professionali poco attente al denaro e maggiormente alla sua appartenenza politica e territoriale, e Paolo Sollier, calciatore dalla vita proletaria ricca di coerenza.

Se nel volume di Peinado non manca il riferimento a calciatori con un’identità politica più debole e sfumata, l’esperienza più suggestiva rimane invece quella dello Sport Club Corinthians nei primi anni Ottanta, ancora in pieno regime militare. Il club modificò la sua logica organizzativa e di governo, dando vita ad una peculiare forma di autogestione che fu chiamata “Democrazia corinthiana”. Come scrive lo stesso Peinado, “il suo funzionamento interno era semplice quanto rivoluzionario: un’assemblea dietro l’altra in cui votavano tutti, dalla stella della squadra fino all’ultimo magazziniere, e tutte le schede contavano esattamente allo stesso modo. Si decidevano gli orari di allenamento e dei pasti, si decideva se si dovevano comprare dei palloni, ma anche quali giocatori vendere e quali acquistare, e se gli allenatori dovevano rimanere o no, sebbene il lavoro del tecnico, quello sì, fosse completamente indipendente. Lo slogan era «Libertà con responsabilità»”. Un’esperienza non lunga – e, tra l’altro, non senza importanti vittorie sul campo – di politica assembleare tra le più compiute, sebbene non immune da leadership carismatiche, come quella di Sócrates, campione autorevole e prestigioso.

A ben vedere, in effetti, il calcio affonda le sue radici nell’essenza del politico – ovvero, andando al nocciolo della questione, nella distribuzione del potere e della capacità di scegliere come allocare risorse e opportunità – fin nel cuore della sua organizzazione interna. Il suo mondo è infatti costellato di diversi attori – i club, le federazioni nazionali, la Fifa, l’Uefa o le altre confederazioni continentali, le associazioni dei calciatori o dei procuratori sportivi, le televisioni e le aziende di sponsorizzazione, solo per citarne alcuni – che esprimono interessi e rivendicazioni contrapposte e che sono continuamente coinvolti in contese per promuovere le proprie istanze all’interno di un’arena conflittuale.

Le stesse trasformazioni del calcio a noi vicino, in seguito alla deregolamentazione del mercato dei calciatori e al prepotente ingresso delle pay-tv nel mercato della trasmissione degli eventi calcistici, è alimentato e accolto da una politica dell’Unione Europea che ha fondamenta chiaramente neo-liberali e che dunque esprime una volontà ideologica e di governo precisa, anche se spesso invisibile ai più. Un’impostazione che ha conseguenze tangibili nella sempre più netta disuguaglianza tra i club più ricchi e quelli minori o tra i cosiddetti top player e i calciatori di livello più basso, sia per quanto concerne le risorse economiche in gioco che per i risultati sportivi in senso stretto (cfr. Bifulco, Pirone, 2014).

Altro coefficiente specificamente politico che il calcio estrinseca è, pur all’interno di una dimensione chiaramente transnazionale e caratterizzata da movimenti globali di capitali e carriere, il richiamo ancora consistente al senso della nazione. Non a caso, giusto per esemplificare, nell’Africa postcoloniale, dove i confini statali ereditati sono spesso il frutto della spartizione arbitraria del continente operata dai paesi europei, in molti stati convivono conflitti e differenze etniche notevoli. In simili realtà il calcio ha spesso fornito appigli simbolici per un senso di unità nazionale, che piaccia o meno. Ma, parallelamente, ha anche offerto ai despoti di turno un palcoscenico cerimoniale dove cercare consensi di massa e promuovere la propria immagine e il proprio potere (cfr. Bloomfield, 2011).

Questo utilizzo politico del calcio è stato d’altronde evidente in tanti paesi a basso livello democratico – si pensi all’Italia e alla Spagna fascista o all’Argentina e al Brasile governati dalle giunte militari nella seconda metà del Novecento, quelli cui si riferisce più direttamente il testo di Peinado – sebbene con alterne fortune, dal momento che l’anonimato dello stadio garantisce, paradossalmente, una valvola di sfogo anche per l’espressione del dissenso e per l’incontro degli oppositori (cfr. Goldblatt, 2008; Duke, Crolley, 1996). E non è secondario considerare come la visibilità mondiale del calcio possa comunque offrire una ribalta finanche internazionale alla promozione delle rivendicazioni di opposizione a regimi o a scelte governative che innescano una sostanziosa disapprovazione. Lo stadio, in fondo, può poi essere un luogo di mobilitazione, che nel mondo a volte è stato sfruttato, non sempre in modo fruttoso, come bacino elettorale nella politica locale o addirittura nei suoi punti estremi, come è accaduto nella Bosnia-Erzegovina in guerra, come sede di raccolta e organizzazione di gruppi paramilitari (cfr. Čolović, 2002).

Questo quadro complessivo della relazione tra calcio e politica si rafforza nella considerazione che in alcuni casi questo sport può diventare il luogo diretto o indiretto in cui poter esprimere le proprie idee o addirittura promuovere campagne politiche vere e proprie. Ciò anche da parte degli stessi addetti ai lavori, calciatori o allenatori ad esempio, la cui immagine diviene, a volte involontariamente, la cassa di risonanza del proprio modo di vedere il mondo. In questi casi la celebrità calcistica e la biografia articolata e ricca di momenti significativi dei protagonisti del pallone si legano a stretto e indissolubile filo con la loro passione ideologica o anche la loro attività civica.

È per questo che la carrellata di biografie proposte nel libro di Peinado, tutte appetibili per l’interesse che suscitano, ci aiuta quanto meno – ed è questo il compito della narrativa che voglia essere efficace – ad allontanarci con profitto da uno di quegli “automatismi di pensiero” che germogliano nel nostro tempo, ovvero il luogo comune del calcio o dello sport come nuovo oppio dei popoli, automatico diversivo per le masse e regno del disimpegno. Questi esempi svolgono allora al meglio la loro funzione narrativa indicandoci, piuttosto, che anche lo sport può diventare un ambito dove è possibile costruire e dar vita alle idee con cui si tenta di modificare il mondo.


 

LETTURE

  Bifulco Luca, Pirone Francesco, A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica, Guida, Napoli, 2014.
Bloomfield Steve, Africa United. How Football Explains Africa, Canongate, Edinburgh, 2011.
Čolović Ivan, The Politics of Symbol in Serbia. Essays in Political Anthropology, C. Hurst & Co., London, 2002.
Duke Vic, Crolley Litz, Football Nationality and the State, Longman, Harlow, 1996.
Goldblatt David, The Ball is Round. A Global History of Soccer, Riverhead Books, New York, 2008.
Kuhn Gabriel, Soccer Vs. The State. Tackling Football and Radical Politics, PM Press, Oakland, CA, 201.