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 LETTURE / LA TERRA MORENTE. IL CICLO COMPLETO


di Jack Vance / Fanucci, Roma, 2013 / Quattro volumi pp. 176, 224, 352, 256, € 9,90 cadauno


 

Crepuscolaristi d'altri tempi

di Roberto Paura

 

All’inizio della sua brillantissima carriera di scrittore d’avventure fantascientifiche, terminata quest’anno con la sua scomparsa alla bella età di 97 anni, Jack Vance scrisse una serie di racconti che sarebbero poi stati raccolti nel 1950 nel volume The Dying Earth, in Italia noto come Crepuscolo di un mondo o La terra morente, titolo più fedele all’originale con cui l’editore Fanucci ha deciso di ripubblicarlo, facendolo seguire dai tre volumi successivi del ciclo, pubblicati da Vance molti anni dopo il primo: Le avventure di Cugel l’Astuto (1966), La saga di Cugel (1983) e Rhialto il meraviglioso (1984). Mentre molti suoi colleghi scrivevano di futuri iper-tecnologici pieni di ottimismo e speranza, Vance proponeva delle storie che poco avevano a che fare con la fantascienza e molto più con il fantasy, se non per il fatto che, invece di essere ambientate in un’altra terra – come la Terra di Mezzo di Tolkien che avrebbe fatto la sua comparsa editoriale solo un paio d’anni dopo – trovavano la loro collocazione sul nostro pianeta al termine dei suoi giorni. Le ambientazioni fantastiche, le avventure improbabili, lo stile picaresco dei protagonisti tratteggiati nel ciclo della Terra morente sono la firma inconfondibile di Jack Vance, il suo biglietto da visita con cui oltre sessant’anni fa si è presentato al mondo della fantascienza, conquistandolo. Ma dimostrano anche l’originalità di uno scrittore che ha preceduto di alcuni anni la nascita del fantasy contemporaneo riuscendo a cogliere da subito i suoi elementi costitutivi e utilizzandoli con sapienza, offrendo al lettore un mondo al tempo stesso magico e reale, “altro” e tuttavia riconoscibile. Se probabilmente il ciclo della Terra morente non rappresenta né il capolavoro del Vance fantascientifico (lo è invece il ciclo di Tschai) né di quello fantasy (il titolo spetta alla sua trilogia di Lyonesse scritta negli anni Ottanta), si inserisce senz’altro nel solco di una sensibilità che è stata poco studiata dagli esperti di letteratura fantastica – e principalmente di science-fiction – che potremmo definire “crepuscolarismo”.

Con i nostri crepuscolaristi italiani, va precisato, Vance ha poco da spartire in termini di bagaglio letterario: con Guido Gozzano difficilmente avrà avuto molte letture in comune. Però la definizione calza a pennello perché, nel ciclo della Terra morente, Vance realizza un affresco ricco e variopinto su cui si staglia continuamente, implacabilmente, l’attesa della fine. Il Sole pallido e freddo che non scalda più la Terra ed è ormai ai suoi ultimi rantoli è l’immagine più ricorrente nelle storie del ciclo. È una descrizione che non ha nulla di scientifico, ma che regala al lettore la sensazione che le avventure narrate nei romanzi siano continuamente avvolte dalla luce del crepuscolo. È in questo mondo morente che gli ultimi sopravvissuti, ben pochi dei quali sono veri e propri esseri umani, consumano le loro vicende: non c’è ordine, non c’è legge, né civile convivenza. Di fronte all’attesa che il Sole si trasformi in ghiaccio e faccia piombare la Terra nel buio perenne, la civiltà è collassata e il mondo è diventato simile all’immagine tradizionale del medioevo europeo: un mondo di tenebre e fitte foreste dove vige solo la legge del più forte, dove domina l’economia dello scambio e ogni ombra può nascondere una minaccia. Vance pesca a piene mani dall’immaginario medievale per tratteggiare i contorni di questa Terra morente, al punto da farvi irrompere la magia: i suoi protagonisti sono spesso maghi e streghe che conoscono incantesimi e segreti alchemici, e ne fanno uso per assicurarsi il loro potere sui più deboli.

Il mondo decadente e crepuscolare descritto da Vance ha più di un punto in comune con quelli rappresentati da diversi suoi colleghi scrittori. Edgar Rice Burroughs nel suo ciclo di John Carter (2012) immaginava il pianeta Marte – Barsoom per gli indigeni – come un pianeta antichissimo ormai in piena decadenza, dove ai costumi civilizzati delle popolazioni più tecnologicamente avanzate si affiancano i rituali barbarici e le gesta guerresche di tribù semi-selvagge. La science-fantasy di Burroughs è da annoverare senza alcun dubbio tra i riferimenti letterari a cui Vance trae ispirazione. Ma probabilmente le storie della Terra morente devono soprattutto a Leigh Brackett. La scrittrice americana, che avrebbe poi sposato il maestro della space opera, Edmond Hamilton, si era fatta notare, negli anni in cui Vance leggeva le prime riviste di fantascienza, con le avventure che poi sarebbero state raccolte nel volume Storie marziane (2013). Il Marte di Brackett è un mondo fantastico dove la convivenza tra i terrestri e le antiche popolazioni, risalenti a un’epoca lontanissima nel tempo, è particolarmente complessa. Come il Barsoom di Burroughs, il pianeta Marte nelle storie della Brackett è un mondo al crepuscolo costellato dalle vestigia delle antiche civiltà. Le Storie marziane saranno la principale ispirazione per il ciclo della Terra morente di Vance, soprattutto per il loro stile fantasy. Con la Brackett, Vance è il principale interprete della cosiddetta planetary romance, che mescola la fantascienza ai cliché dell’avventura di cappa e spada. Ma al tempo stesso tempo Vance prende le distanze da molti di quei cliché e spesso se ne beffa, presentando nel suo ciclo della Terra morente non degli eroi, ma degli anti-eroi.

Al tempo stesso i racconti di Vance non costituiscono una pura e semplice fuga dalla realtà, un divertissement per i tanti lettori dei pulp magazine di quegli anni. Già interprete di una fantascienza più adulta e interessata a riflessioni più profonde, nel ciclo della Terra morente Vance utilizza i suoi personaggi e le sue trovate per esplorare più a fondo l’animo umano. È quel che farà anche Ray Brabdury (cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 46) quando, riprendendo le suggestioni delle Storie marziane di Leigh Brackett, inizierà a scrivere i racconti che andranno a far parte di un’altra raccolta, ben più famosa e celebrata, quella delle Cronache marziane (2003), che non a caso esce proprio nel 1950, stesso anno della Terra morente. Le ambientazioni sono solo apparentemente diverse: Marte da un lato, la Terra dall’altro. Entrambi sono mondi immersi nel crepuscolo, immense distese selvagge in cui si inoltra – smarrendosi – l’animo umano. Nelle Cronache marziane, dopo lunghe vicissitudini spetterà ai terrestri, scampati all’olocausto nucleare sul loro pianeta d’origine, ricostruire la civiltà su Marte. Nel primo volume del ciclo della Terra morente, i protagonisti dell’ultima avventura, la più rilevante, alzano gli occhi al cielo e alle “stelle bianche” chiedendosi cosa farsene della conoscenza in un pianeta precipitato nella barbarie.

La storia di Guyal di Sfere che chiude il primo romanzo del ciclo è, si diceva, la più importante. Vance varca i confini del racconto picaresco (che pure riprenderà nelle storie successive) e si spinge a narrare con toni più cupi e riflessivi il destino della Terra morente. Guyal, che si distingue dai suoi simili per l’ardente desiderio di conoscenza, decide di incamminarsi verso il leggendario Museo dell’Uomo, dove il Custode potrebbe finalmente rivelargli tutti i segreti della Terra. Dopo aver affrontato numerose peripezie, e aver conquistato il cuore di Shierl, la ragazza più bella del regno che confina con il misterioso Museo, Guyal penetra nell’enorme e inquietante edificio. Qui sono custodite numerose reliquie dell’antica civiltà umana di cui si è perso il ricordo, ma i corridoi e le sale del Museo sono infestati da demoni provenienti da un’altra dimensione. “Il sonno della ragione genera mostri”, letteralmente: il Custode addormentato non è più in grado di far fronte all’irruzione dei demoni, che si fanno beffe della sacralità del luogo. Toccherà a Guyal permettere al Custode di liberare finalmente il Museo, dopo aver riconquistato la saggezza. E il vecchio mostrerà al giovane il sancta sanctorum, dove sono custoditi giganteschi computer nei cui recessi si nasconde tutta la conoscenza umana andata perduta. Con la morte del Custode, il ruolo ora ricade su Guyal, ultimo detentore della sapienza scomparsa. La metafora dell’irrazionalità che dirompe di fronte al sonno della coscienza è impiegata da Vance per ribadire la sua visione della Terra morente: un mondo medioevale dove la conoscenza di un tempo è racchiusa all’interno di pochi santuari, costellato dalle vestigia di antiche civiltà.

In piena era nucleare, Vance fa più volte accenni che permettono di comprendere, attraverso le ingenue descrizioni degli abitanti della Terra morente, che il pianeta è in parte radioattivo. È questa radioattività, verosimilmente, la causa delle mutazioni che hanno colpito gli ultimi abitanti della Terra. All’inizio del romanzo, Turjan di Miir è intento a ricreare nelle proprie ampolle un essere umano senza difetti, merce – a quanto sembra – piuttosto rara. Il misto di formule magiche e alchimia richiama alla mente l’ingegneria genetica, a cui probabilmente Turjan cerca di far ricorso nel suo prometeico tentativo. Come qualche anno dopo sancirà Arthur C. Clarke con la sua celebre ‘legge’, “ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. La magia della Terra morente non è altro, probabilmente, che scienza storpiata, alla stregua di quella che maneggiavano i maghi e gli alchimisti medioevali. Che l’antica civiltà tecnologica sia stata spazzata via da qualche disastro nucleare risulta evidente nel racconto che ha per protagonista Ulan Dohr. La storia è in buona parte ambientata nella città di Ampridatvir, di cui Ulan descrive le vestigia, tra cui grattacieli e “carri volanti” che altri non sono se non le auto volanti immaginate dalla fantascienza. Leggendo il ciclo della Terra morente diventa chiara l’ispirazione che quelle storie hanno avuto per i romanzi del ciclo di Shannara (1995) di Terry Brooks. Lo scrittore fantasy ambienta i suoi romanzi in un mondo medievaleggiante che il lettore scopre poi essere la nostra stessa Terra dopo spaventose guerre nucleari. Il modo in cui i protagonisti descrivono le reliquie della civiltà tecnologica del passato deve moltissimo a Vance.

I “crepuscolaristi” sono insomma dovunque: nella fantascienza quanto nel fantasy, entrambi filoni in cui Vance è maestro. La Terra di Mezzo di Tolkien è un mondo in declino dove gli Elfi partono per altri lidi, lasciando gli uomini in balia della guerra e del duro confronto con i loro più gloriosi antenati. È difficile dire quanto questo atteggiamento dipenda dall’epoca in cui scrissero questi scrittori e quanto, piuttosto, derivi dal loro desiderio di ambientare le loro storie in mondi che si rifanno all’immagine romanticizzata del medioevo, “l’età oscura”. Ma probabilmente la scelta stessa dell’ambientazione è legata ai tempi in cui scrissero Vance, Brackett, Bradbury o Tolkien: sono i tempi in cui si attende, quasi trattenendo il respiro, l’irreparabile, la catastrofe che travolgerà per sempre la civiltà umana, vittima di se stessa. Se ci sarà un “dopo”, sarà come quello raccontato nelle storie di questi autori: un mondo irriconoscibile dove i sopravvissuti guardano alle rovine del passato con lo stesso misto di fascino e di orrore con cui i discendenti dei barbari descrivevano le grandi arterie di comunicazione tracciate dai romani per tutta l’Europa, “le strade del diavolo”.

 


 

LETTURE

  Brackett Leigh, Storie marziane, Mondadori, Milano, 2013.
Bradbury Ray, Cronache marziane, Mondadori, Milano, 2003.
Brooks Terry, Il ciclo di Shannara, Mondadori, Milano, 1995.
Burroughs Edgar Rice, John Carter di Marte, Newton Compton, Roma, 2012.
Vance Jack, Lyonesse, Fanucci, Roma, 1999.
Vance Jack, Tschai, Mondadori, Milano, 2006.