qfacebook
image

 

VISIONI / GIRLFRIEND IN A COMA


di Annalisa Piras / Springshot Productions, 2013


 

Cronache di un futuro imploso

di Adolfo Fattori

Girlfriend in a coma,

I know I know, it’s serious girlfriend in a coma,

I know I know, it’s really serious.

 

Così cantavano gli Smiths nel 1987, al tramonto del secondo mandato della “Lady di ferro” Margaret Thatcher, forse pensando alle classi lavoratrici del loro paese, messe in ginocchio dalla politica del Primo ministro, o forse, ironicamente, nella speranza che si levasse finalmente dai piedi. Erano gli anni della reaganomics e della carta bianca data ai teorici del liberalismo selvaggio – la risposta alla crisi petrolifera del 1973 e i primi passi verso l’ingresso nel post-fordismo. E in Italia gli anni della liberalizzazione delle frequenze televisive, dello yuppismo imperante, di una nuova esplosione, muscolare e sguaiata, dei consumi. La premessa al mondo – e all’Italia – in cui viviamo oggi.

Forse per questo motivo i versi dei “fabbri” (ma anche dei “chiunque”: Smith è un cognome fra i più diffusi nel mondo anglosassone) di Manchester, a seguire Annalisa Piras, giornalista dell’Espresso, del The Guardian, della Bbc e di La7, e Bill Emmott, ex direttore del The Economist, possono far pensare al nostro paese, ormai da tempo in bilico fra la catastrofe definitiva e una sopravvivenza da dopobomba, disincantato, disorientato, infantilizzato, deresponsabilizzato. Territorio – geografico, sociale, interiore – inerme, indifeso, perennemente impreparato a difendersi, massacrato e saccheggiato da bande di ladroni e tagliagole di ogni risma, dalle associazioni criminali per così dire “riconosciute” come tali – mafia, camorra, ‘ndrangheta – a quelle mimetizzate sotto le vesti dell’onorevolezza, delle regole, della democrazia – della sua forma degradata e caricaturale. Pronte ad allearsi, da sempre alleate.

E in contraltare le piccole casematte dell’impegno civile, della legge, del sapere, sempre a rischio di essere chiuse, tacitate, eliminate.

Un’analisi puntuale, senza sconti, spietata ma neutrale, fatta secondo le regole del giornalismo anglosassone – distaccato, in certi momenti lievemente ironico, senza remore o timori – che grazie al montaggio di interviste, spezzoni di repertorio, riprese dal vivo, rende con la forza delle immagini e delle parole la dimensione del disastro che ci sta attorno, che rischiamo di avere sempre più difficoltà a percepire, nel suo trasformarsi in habitat naturale, dove il tempo sembra essersi fermato: un eterno, immobile e plumbeo presente, di cui si è perso il passato, anche nella forma di una qualsiasi mitica “età dell’oro” – e quindi non è più immaginabile neanche un futuro. Siamo fermi, senza speranze, senza progetto, senza più neanche rabbia. Fra le macerie e le rovine di una Storia ormai persa.

Macerie come quelle non metaforiche del terremoto che nell’aprile del 2009 colpì l’Aquila, dando agli avvoltoi del potere – economico, politico, finanziario – un’altra occasione per ingozzarsi ed imbastire un’altra delle celebrazioni mediatiche in cui siamo vissuti negli ultimi decenni. Anche queste documentate e denunciate attraverso un documentario, Draquila, di Sabina Guzzanti (2010), che non per caso ha avuto non pochi problemi a circolare.

Viene da pensare ad altri documentari o “docufilm” simili realizzati nel recente passato, primo fra tutti Diario del saccheggio di Ezequiel Solanas (2007), la cronaca realizzata nel 2004 della sistematica svendita delle ricchezze dell’Argentina al capitale finanziario internazionale da parte di Carlo Saùl Menem e della sua cricca solo pochi anni dopo che il paese era uscito dalla feroce dittatura del generale Jorge Videla e dei suoi macellai. Una tecnologia del massacro del patrimonio di una nazione e della dignità del suo popolo che si sostituì alle tecnologie del martirio dei giovani, dei lavoratori, degli studenti. Così si esprime lo stesso Solanas: “Menem è il prodotto diretto della manipolazione mediatica e della volontà dei grandi gruppi economici, le multinazionali, le banche internazionali, che hanno bisogno di inventare questo tipo di personaggio. È il modello neo-liberale. È nato alla fine degli anni Ottanta dalla certezza del consenso di Washington, e questo è stato il pensiero che ha nutrito attraverso la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale il disegno di un modello base di dominazione mondiale a cavallo del mito della globalizzazione, che non è altro che una nuova svolta del colonialismo che interviene sempre. L’idea di eliminare le barriere doganali, «[…] Vendete tutte le imprese ed i servizi che arriviamo noi che siamo gli angeli del salvataggio!» Per noi è difficilissimo vendere anche un solo chiodo alla Comunità europea perché qui le porte sono chiuse […] e allora tutto è stato un’operazione di colonialismo di rapina” (Papa e Papa, 2009) da parte di una banda di impettiti manigoldi in doppiopetto guidati da un melodrammatico buffone.

Molto simile, il film della Piras e di Emmott, per la mancanza di riguardo nei confronti del potere e della politically correctness, che fanno parlare i fatti, giustapponendo “mala Italia” e “buona Italia”, richiami al comportamento dei governi degli ultimi decenni e testimonianze di uomini di cultura, magistrati, anche semplici studenti – e persone impegnate in silenzio e oltre i margini della conoscenza del pubblico nella militanza “sociale”.

Pensando alla Tv, e non al cinema, l’esempio che viene in mente è la trasmissione Report di Milena Gabanelli. La stessa spietata neutralità, la stessa feroce precisione. Tutt’altra musica, rispetto alla spettacolarizzazione del dolore – degli altri – e dei litigi – dei soliti – dei vari format di “approfondimento” celebrati da cerimonieri salmodianti e gesticolanti coperti dall’alibi della “par condicio” che affollano le serate televisive, maestri di cerimonie ognuno impegnato a mandare avanti il suo teatrino.

Fin qui l’indignazione, che torna a sgorgare, stimolata dalla capacità delle immagini di riattivare ricordi ed emozioni.

Ma c’è da riflettere, anche, in termini più articolati, su questi anni d’ombra, di ripiegamento, di riflusso della democrazia sostanziale. In realtà, si potrebbe ipotizzare che l’Italia di questi ultimi decenni, piuttosto che essere uno dei ventri molli, degli anelli deboli della catena di una società occidentale terreno dell’ultima crisi di metamorfosi del capitalismo, sia invece, come già successe negli anni Ottanta del secolo scorso per l’esplosione delle Tv commerciali, il laboratorio avanzato di questa trasformazione, come nelle previsioni di Jacques Attali (vedi "Quaderni d'Altri Tempi" n. 11).

In effetti la liberalizzazione delle frequenze Tv, oltre a fare da sponda e canale alla presa di possesso e in carico da parte del mercato dell’appello sessantottino all’immaginazione al potere (vedi "Quaderni d'Altri Tempi" n. 14), agì anche negli stretti termini di una riorganizzazione complessiva dello scenario e delle prospettive dei sistemi di comunicazione di massa, trasformando la logica delle Tv via cavo in termini di “democratizzazione” e abbattimento di costi, e aprendo allo sdoganamento e alla legittimazione quote sempre più alte dei contenuti di fondo dell’immaginario, violenza e sesso, come ad anticipare, distorcendone preventivamente il senso, le parole di James G. Ballard “Non c’è bisogno di dire che io sono convinto che occorrano più sesso e violenza, in televisione. Entrambi sono dei potenti catalizzatori di cambiamento, in aree dove il cambiamento è più urgente e indispensabile” (1999).

Una mutazione degli apparati della comunicazione di massa, dell’impegno pubblicitario, dell’organizzazione dei consumi – e necessariamente della riorganizzazione e ri-dislocazione dei flussi finanziari globali – che, insieme all’esplosione che avverrà subito dopo l’informatica di massa e del Web passando per la crisi economica del 2008, col senno di poi possiamo ipotizzare sia stata la premessa della condizione attuale. Il riemergere della versione più selvaggia e distruttiva del capitalismo (Napoleoni, 2009; Harvey, 2012), quello dell’accumulazione primitiva, fondata sul capitale nella sua forma più pura: il denaro, i flussi finanziari, non ha importanza da dove provenienti, se dagli affari della grande criminalità organizzata internazionale – mafia camorra e ‘ndrangheta alleate con le varie mafie dell’est europeo (Saviano, 2006), da “insider traders” riusciti a sfuggire al lungo braccio della legge, o alle attività “pulite” delle grandi finanziarie sovranazionali (Gallino, 2011).

Fatto sta che, intanto, le distanze fra “ricchi” e “poveri” aumentano tragicamente, la politica degrada nell’operetta, la riflessione e la consapevolezza si ritirano, in attesa di una qualche nuova barbarie, verso un dopobomba senza bomba. Coma profondo, insomma, da cui non possiamo sapere ancora chi, come, quando, cosa, emergerà.

 


 

LETTURE

  Attali Jacques, Breve storia del futuro, Fazi, Roma, 2007.
Ballard James G., Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Gallino Luciano, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.
Harvey David, La crisi della modernità, Net, Milano, 2012.
Napoleoni Loretta, Economia canaglia, Saggiatore, Milano, 2009.
Papa Giovanna e Papa Palma, Lo sguardo degli altri. Intervista a Fernando Solanas, in Quaderni Regionali Eda, XIII, 3, Napoli, 2009.
Saviano Roberto, Gomorra, Mondadori, Milano, 2006.

 


 

VISIONI

  Guzzanti Sabina, Draquila, Rai Cinema - 01 Distribution, 2010.
Solanas Ezequiel, Diario del saccheggio, Fandango, 2007.