qfacebook
filo_bianco giro tit 01 spacetit 02 spacetit 04
titolo_m02

 

“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te”. 

Tutto qui, concentrato in poche righe. Il nucleo gelido e disperato di La strada, l’ultimo romanzo finora pubblicato da Cormac McCarthy (2007).
Il mondo è ridotto al minimo: un uomo con suo figlio – o un bambino con suo padre – di cui sono superflui anche i nomi, appartenenti ad un passato di relazioni dimenticate, estinte, che camminano nel nulla cinereo e nemico di una terra postatomica semideserta e assolutamente ostile, sterile, agghiacciante. Miglia (polverose) da percorrere e boschi (bruciati) da attraversare – per citare Robert Frost – senza nessuna speranza di poter davvero dormire, abbassare la guardia, recuperare dal freddo, dalla fame, dal terrore, in un silenzio quasi assoluto, privo dei canti degli uccelli, dei ronzii degli insetti, dello scalpitare degli zoccoli dei cavalli.

Come nei versi di Fabrizio De André in uno degli Intermezzi di Tutti morimmo a stento (2002): 

La polvere il sangue le mosche e l’odore
per strada fra i campi la gente che muore… 

Solo che qui sono rimasti solo la polvere e la strada, anche le mosche sono sparite o quasi, fa troppo freddo per sentire odori, i corpi dei morti sono ormai già passati oltre la fase della putrefazione… 
Giusto, forse, una promessa da mantenere, del protagonista alla propria compagna, sacrificata alla catastrofe planetaria che fa da premessa al romanzo: portare in salvo il bambino, regalargli la possibilità di diventare adulto. Forse una speranza beffarda, vana, ma perseguita dall’uomo con caparbia tenacia e ostinata determinazione lungo tutto il romanzo. 
La storia dei due – come la strada del titolo – si snoda in uno scenario di neve putrida e fangosa, di piogge luride di fuliggine, di erbacce putrescenti che si sbriciolano al tocco, di polvere, sangue secco, brandelli di cadaveri abbandonati nei canaletti di scolo di fianco alle strade – e di polvere. Onnipresente, insidiosa, aliena.
Una Terra in cui gli animali sono scomparsi, non solo i cani, i cavalli, i gatti, ma anche i topi, gli scarafaggi, le bestie che fino all’apocalisse avevano sfidato le condizioni più avverse e dato lezione di sopravvivenza agli uomini. Rimangono pochi esseri, una volta umani, ridotti a bestie feroci, o a larve sparute, in un universo (sociale?) fatto di predatori e prede, selvaggi cannibali da una parte e dall’altra subumani ridotti a schiavi o a cibo.
L’uomo e il bambino vivono come animali braccati. Lerci, cenciosi – senza speranze il padre, chiuso nella responsabilità di salvare la salute mentale e la vita del figlio; animato dalle parole di questi il bambino, e dall’illusione magica, sacrale, come nelle fiabe, di “portare il fuoco” – ma determinati ambedue a proseguire, a procedere nell’unica cosa che possono fare: andare avanti cercando di sopravvivere, con l’obiettivo di arrivare al mare, chissà alla ricerca di cosa…
In viaggio lungo una strada che assume la dimensione metafisica di un’ossessione, di una coazione maniacale; unico spazio praticabile, unica dimensione colonizzabile. Niente di più di una gabbia senza sbarre evidenti estesa all’infinito.

 

Come avviene in La lunga marcia di Stephen King (King, 2010), una parabola allucinatoria in cui ogni anno un gruppo di cento persone deve percorrere a piedi la strada dai confini del Canada fino a Boston per ottenere un “Premio”, senza aiuto, senza mezzi. Una sfida mortale, ossessionante, assoluta.
Non più quindi una delle strade verso il futuro e l’avventura percorse da un Jack Kerouac (Kerouac, 2006) o dagli hippies di Easy Rider (Hopper, 2006), che aprivano alla speranza e alla ricerca, dove, in fondo “la vera meta del viaggio è il viaggio stesso” (ibidem), qui la meta è essenziale, è l’unico motivo che può spingere i due a continuare il cammino. Il mondo come lo conoscevamo si è rovesciato su se stesso, è imploso, è morto. 
Il mondo e l’epoca descritti da McCarthy sintetizzano i decenni di narrazioni post apocalittiche inventate dagli scrittori di fantascienza, riducendo il mondo del dopo alla sua dimensione nucleare: freddo, intemperie, grigiore, sterilità, buio, violenza, crudeltà.
Un pianeta indifferente alle sorti degli umani – come sempre è stato, altro che “Gea”, “Madre Terra” e tutte le altre stupidaggini inventate da predicatori d’accatto come guru televisivi, mistici new age o spacciatori d’ottimismo come preti, filosofi, saggisti – che procede nel suo “moto gelido e spietato di una terra morta senza testamento”, mostrando così “l’assoluta verità del mondo. Il vuoto nero e schiacciante dell’universo” (McCarthy, 2007), un universo che se ne fotte di quell’effimero incidente che è stata la comparsa, la crescita e la fine dell’umanità, con il suo vaniloquente blaterare di “civiltà”, “cultura”, “mondo a misura d’uomo”. L’universo sopravvive, e può fare a meno anche della vita sulla Terra, basta che questa continui a ruotare attorno alla sua stella per mantenere l’equilibrio del sistema planetario di cui fa parte.
L’umanità intanto è ridotta a branchi di selvaggi ottusi e feroci, spietati nella loro lotta per sopravvivere, subumani rabbiosi alla continua caccia di cibo, armi, rifugi, tornati ad una condizione primordiale, forse quella dei primi ominidi, ma incancrenita dall’esperienza di  millenni di applicazione e addestramento alla violenza, alla crudeltà, all’indifferenza verso i propri simili. E anche al piacere di praticare il Male… 
Perché questo è il punto: a differenza di chi già ne aveva scritto, McCarthy non ha scrupoli, né peli sulla lingua, e mostra il mondo postcatastrofe senza mediazioni di sorta. Non ci sono buoni sentimenti, non ci sono speranze, non ci sono prospettive. Non c’è – non ci può essere – progetto: la Terra è morta, figuriamoci Dio, ridotto a leggenda beffarda e stantia, a vaga e lontana memoria, da ricordare con diffidenza e sospetto  – dopo essere stato per secoli una delle bandiere preferite dai potenti per giustificare la sofferenza e il terrore, la disperazione e il dolore.

Dolore e sofferenza: c’è una forte assonanza fra la tenebrosa metafora orchestrata da McCarthy e le parole di Alberto Abruzzese che riflettendo sul “destino dell’umano nel mondo” scrive esplicitamente, a proposito dell’esito della storia umana, di “vicenda che […] può essere narrata in altro modo: come nascita, trionfo e caduta dell’umano nel mondo” (Abruzzese, 2011).
E ancora di “unica realtà tangibile di cui disponiamo: quella istintiva cognizione del dolore che la ragione sociale tende a occultare” (ibidem), attribuita da Abruzzese alla condizione umana in generale, certo, come spiega in un’intervista concessaci ( www.quadernidaltritempi.eu/numero37):

“L’oggetto-soggetto di culto di questi processi alterni è stato l’individuo, l’essere umano come identità, divina e insieme mondana, posta al di sopra di qualsiasi altro essere vivente […]. Identità che è alla base di ogni sistematico fallimento dell’essere umano nella sua pretesa di distinguersi dalla violenza della natura, delle sue leggi fondate sulla potenza affermatrice e insieme mortale del più forte e sulla cecità del proprio destino […] al crepuscolo di una umanità affranta dalla crisi di ogni suo modello di sopravvivenza (si attualizza in) una sola logica, quella dello sterminio e del dolore”

che tuttavia conserva una dimensione esplicitamente politica ed economica

“In sostanza si può dire che disuguaglianza, ingiustizia e alienazione del lavoro, dunque la sofferenza e infelicità della vita contemporanea non possono essere più considerate soltanto come dirette conseguenze dei tradizionali conflitti di classe […] ma ormai vanno definitivamente riconosciute come effetto del potere assunto da ceti dominanti che si sono formati in modo trasversale ai conflitti di classe scatenati dal capitalismo” 

Così, che lo scenario immaginato da McCarthy in La strada sia solo una metafora della condizione umana al tempo del tardo capitalismo o una previsione del futuro che ci attende, la verità è messa a nudo. Il destino che attende l’umano è questo: non esiste domani, non esiste dopo. “Il dopo è già qui”, lercio, collassato, paludoso, eterno nel suo orrore. Lo scrittore è spietato nella sua descrizione, arriva ben oltre i limiti cui si erano spinti gli scrittori di science fiction. Forse solo Friedrich Dürrenmatt ha guardato così a fondo nell’abisso delle illusioni umane, con un breve, lancinante racconto natalizio scritto nel 1942, in piena barbarie nazista, Natale: “Era Natale. Attraversavo la pianura. […] Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. […] Vidi un corpo disteso nella neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. […] Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso: Marzapane stantio. Proseguii” (Dürrenmatt, 1988).
In questo orizzonte terminale solo l’uomo e il bambino sembrano conservare un minimo di quella che nel “prima” di questo mondo si chiamava orgogliosamente “umanità”. Solo a loro appartengono ancora sentimenti di amore, di affidamento, di fiducia, di empatia, rivendicati dal bimbo, desideroso di compagnia e di comunicazione, sacrificati e soffocati dal padre, ossessionato dalla missione di salvare il figlio, in quelle rare volte che gli capita di incontrare qualche essere vivente: un altro bambino, un cane sopravvissuto all’estinzione delle specie viventi, massacrati prima dall’apocalisse globale, poi dalla fame dei sopravvissuti.
Nella parvenza di routine di vita quotidiana in cui sono immersi i due viandanti (fuggiaschi? migranti?) quelli che una volta erano rifiuti diventano cose preziose: barattoli di vetro, lattine vuote, ma soprattutto accendini, cacciavite, pinze… oggetti che da banali utensili – a volte usa-e-getta – si innalzano al rango di tesori inestimabili, talismani che permettono di rimanere vivi e non attraversare la soglia della morte. Un barattolo di vetro per raccogliere acqua potabile, un cacciavite per forzare una lattina di frutta sciroppata chissà come sopravvissuta ai saccheggi, a riprova di come la vita sia cambiata, il mondo si sia rovesciato: le banconote e le monete sono oggetti inutili, arcaici, obsoleti, gli attrezzi da lavoro ne hanno preso il posto.
Tutto si riduce al giorno per giorno, all’ora per ora. La vita, l’identità, si restringono al loro nucleo essenziale, io, tu, sopravvivere. Ma a volte almeno l’adulto, desidera, si augura la fine. Come quando, in uno dei rarissimi casi in cui ai due – e ai lettori – Cormac McCarthy concede una pausa, l’uomo e il bambino si imbattono in un rifugio antiatomico intatto, vi penetrano, e conoscono un paio di giorni di pausa. Si lavano, dormono tranquilli, mangiano, si trovano dei vestiti nuovi, asciutti, puliti, caldi. Ma questo impatto con la memoria di un passato ormai svanito è – sempre nella forma sfinita e sfiancante che sembra informare tutto il comportamento dei due sopravvissuti – devastante: durante il sonno, l’uomo sogna la visita di creature che non riconosce. E si chiede, una volta sveglio, che cosa significa la loro “visita”. Se sia stato un modo, per il suo inconscio, di metterlo in guardia contro… la speranza? un’illusione? la vacuità del viaggio che ha intrapreso col figlio? “Si voltò a guardare il bambino. Forse per la prima volta capì che ai suoi occhi lui era un alieno. Un essere venuto da un pianeta che non esisteva più. Le storie che raccontava erano sospette. Non poteva ricostruire il mondo perduto per compiacerlo senza trasmettergli anche il dolore della perdita […] non poteva riaccendere nel cuore del bambino ciò che ormai era cenere nel suo. Anche ora, una parte di lui rimpiangeva di aver trovato quel rifugio. Una parte di lui continuava a desiderare la fine” (McCarthy, 2007; corsivo nostro).
E infatti, dopo un paio di giorni, i due si rimettono in viaggio. Verso il mare. E, quando riescono a raggiungere la costa, l’uomo cede, si concede o soccombe alla fine. In qualche modo la sua “missione” è compiuta. Non può fare di più. Lascia la sua pistola al figlio, gli raccomanda prudenza, e spera che il caso gli sia propizio. Il bambino sopravvivrà: incontra un uomo, che dalle parole del romanzo, appare ancora capace di empatia, di emozione, e che lo accoglie per condurlo fra la sua gente. Chissà per quanto resisteranno. Forse tutti i superstiti dell’apocalisse sono condannati allo sterminio. Forse si massacreranno fra loro per un fucile, un cacciavite, una scorta di viveri sopravvissuta. Forse, invece, il pianeta è davvero morto, sterilizzato, come la Luna o uno dei tanti asteroidi che ruotano silenti e ottusi nel vuoto del cosmo, e quindi non ha più nulla da offrire ai sopravvissuti. Forse il tempo fermo, fatto di giorni e sofferenze sempre uguali è destinato a diventare eterno e rendere infinita una sopravvivenza primitiva, elementare. O forse ripartirà il Tempo, ripartirà la Storia… 
Non è dato saperlo. Forse “il dopo è già qui”.

 


 

ASCOLTI

De André Fabrizio, Tutti morimmo a stento, Ricordi, 2002.

 


 

LETTURE

Abruzzese Alberto, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.
Dürrenmatt Friedrich, Racconti, Feltrinelli, Milano, 1988.
Kerouac Jack, Sulla strada, Mondadori, Milano, 2006.
King Stephen, La lunga marcia, Sperling&Kupfer, Milano, 2010.
McCarthy Cormac, La strada, Einaudi, Torino, 2007.

 


 

VISIONI

Hopper Dennis, Easy Rider, Sony Pictures Home Entertainment, 2006.