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LETTURE /
The Mantis – for Cecil Taylor – 1966-2009 – The collected pomes di Steve Dalachinsky
Poesia e musica,
storia di un incontro

di Erika Dagnino
Steve Dalachinsky, poeta contemporaneo dell’area newyorkese attivo sulla scena free jazz collaborando con musicisti tra cui William Parker, Susie Ibarra, Matthew Shipp, Roy Campbell, Mat Maneri, Federico Ughi, ha recentemente pubblicato la raccolta The Mantis – for Cecil Taylor – 1966-2009 – The Collected Pomes. È lo stesso Dalachinsky nelle Confessions of a Free JazzCultist’, rilasciate alla scrivente (tradotte con Marco Bertoli), ad esporre il percorso artistico e di vita che l’ha portato all’incontro con Cecil Taylor e all’inscindibilità tra parola e musica.

– CONFESSIONS OF A FREE JAZZ ‘CULTIST’ –

Sono nato a Brooklyn poco tempo dopo l’ultima grande Guerra e sono riuscito a sopravvivere a molte piccole guerre (c’è forse nascosta una lezione, qui?) e dato che attualmente guerre, seppure più piccole, congiurano a determinare le nostre vite, mi sento frustrato da gente sempre schierata.

C’è solo un unico partito pro-life (non nel senso fondamentalista cristiano, nel senso di ‘sovvenziona il malato di mente’ – fund-a-mental Dalachinsky), ed è tutta la vita, ogni cosa che è riuscita a sopravvivere quanto me su questo globo vivente, anch’esso in costante lotta per la vita.

Ok, basta. Ora “Il poema della mia vita” – musica.

Un critico di musica del New York Times ora in pensione, una volta mi descrisse come un Free Jazz Cultist. E un compositore e saxofonista famoso in città chiamò me e mia moglie, con cui sono sposato da trent’anni e che fortunatamente condivide la mia passione per l’arte e come me è poeta e artista visuale, Jazz Snobs. Entrambe le definizioni sono vere e sfoggio questi titoli con forte orgoglio anche se, come sa chi mi conosce, oltre ad essere un piccolo brooklynita linguacciuto, amo la maggior parte delle forme di musica, arte, film, con gusti ben definiti e considerando me stesso un ignorante elitario.

Il mio primo amore musicale fu il doo wop, che da teenager cantavo di fronte alla pizzeria dell’Avenue J nelle notti calde (avevano anche il juke box più caldo in città) con un gruppo che chiamavamo i J-Tones. Io ero il cantante leader e il mio soprannome era little dilly dally. Dovevate sentirmi cantare I Wonder Why di Dion & the Belmonts. Continuo ad amare il doo wop.

Il mio interesse per il jazz aumentò quando vidi Gene Krupa in tv. Wow, pensai, è questo che voglio fare, e provai. Ma a causa di un cattivo insegnante e non potendomi permettere una batteria, smisi. In seguito mi applicai per un periodo di sei mesi allo studio della tromba con lo stesso insegnante, il mio insegnante di musica alla scuola pubblica Mr. Armstrong. Abbandonai anche quella. Poi (facendo un piccolo salto in avanti) un amico mi mise in mano Silver's Blue, Free Jazz, My Favorite Things di Trane, cioè John Coltrane e Sin & Soul di Oscar Brown Jr., insieme con dell’ottima erba, trasportandomi dal doo wop all’hard bop e oltre, insieme con una buona dose di blues. Diventai un fissato. Davvero fanatico. Smisi di cantare il doo wop all’angolo della strada e iniziai a cantare Hoochie Coochie Man e Rags and Old Iron sulla Minetta Lane, con uno spinello in una mano e una bottiglia di ballantine ale nell’altra. Per ironia, dove ero cresciuto c’era proprio un vecchio straccivendolo che veniva una volta alla settimana e un vecchio chitarrista blues che viveva nel garage di uno dei miei migliori amici. Di notte, se non frequentavo la mia nuova dimora (le strade del Greenwich Village), restavo alzato ad ascoltare la WRVR, una stazione radio di Riverside Church e gli ultimi tempi della trasmissione di Symphony Sid prima che diventasse completamente latino. Ciò portò oltre la mia educazione. E iniziai a comprare vinile come un pazzo. Un paio di prime grandi scoperte furono Bessie Lynn e i Georgia Sea Island Singers e Inside Hi-Fi di Lee Konitz, ancora adesso due dei miei preferiti.

A quell’epoca nel pomeriggio c’erano anche straordinari show televisivi sul jazz, e uno degli episodi che è sempre rimasto impresso nella mia mente fu quello in cui Thelonious Monk, quando un teleconduttore gli chiese come faceva ciò che faceva, semplicemente rispose “Lo faccio e basta”. Questa affermazione mi influenzò profondamente. A  tal punto che ritengo si possa dire che quello è il modo in cui sento a proposito della mia opera e della mia vita.

In ogni caso, un giorno, mentre camminavo in St. Marks Place con un amico (un po’ fumato) all’età di circa quindici/sedici anni, sentii questa musica sfrenata venire fuori da un portone, che più tardi appresi essere quello del Five Spot. Misi dentro la testa e vidi questo magnifico pianista fare a pezzi i tasti. (Mi fu detto in seguito che era bandito da molti club per avere una reputazione di distruttore di pianoforti). Bene, ne rimasi sbalordito. La musica giunse dritta dentro di me e il mio già forte entusiasmo per essa (specialmente verso il free jazz) divenne davvero molto profondo. Il pianista si rivelò essere Cecil Taylor.

Appena potei iniziai a frequentare assiduamente Slugs, The Village Vanguard, Rivbea. Andavo a vedere dei grandi come Albert Ayler, Monk, Charles Mingus, Roland Kirk, Art Blakey, etc. Ma tristemente, uno dei miei eroi, Eric Dolphy, aveva lasciato il paese, come molti altri grandi del jazz, sia per ragioni economiche sia per ragioni razziali. Condizioni che in una certa misura esistono ancora oggi in America.

Digressione: poco è cambiato dai tempi di Dolphy per quanto riguarda la forma d’arte americana conosciuta come jazz, in particolare il free jazz. Oh, c’è la facciata politica del jazz al Lincoln Center o quel fiasco del festival JVC di Wein, che continua a soddisfare in primo luogo il grande business, i grandi marchi e quelli del mestiere, ma almeno ora abbiamo organizzazioni come il Vision Festival (le Arti per l’Arte), a cui ho avuto l’onore di prendere parte fin dalla sua fondazione che non solo mantiene la musica qui dove è nata ma la porta anche nei luoghi dove Dolphy e altri andarono, sebbene non come  esuli, ma come ambasciatori di questa, ancora molto trascurata, forma che era sempre stata accettata maggiormente fuori dal suo luogo di nascita.

E ho mancato per un pelo Trane, che, come ho sempre affermato, è una delle mie ragioni di vita. Morì quando stavo andando a sentirlo all’ora famoso Monterey Jazz Festival dove, si sa, venne registrato e poi prodotto l’ellepi Forest Flower di Charles Lloyd e più o meno presentato il jazz agli hippies.

Così, strafatto, senza un soldo e con il cuore a pezzi tornai a Berkeley e scrissi probabilmente il mio primo così detto jazz poem per Trane a diciannove anni, dove finivo dicendo che noi eravamo in lutto per “la molto inutile morte di questo motore avvelenato” –  poisoned engine’s greatly wasted death.

Poi, non molto tempo dopo, ne scrissi un altro per un altro dei miei idoli: Billie Holiday.

Digressione: anche se sembravo un hippie e condividevo la loro passione per le droghe, la loro mentalità limitata a pace-amore-rock mi respingeva. Del resto, ero già un emarginato.

Iniziai ad ascoltare musica appena potei sentire e a scrivere poesia appena potei scrivere, quindi fu inevitabile che le due ad un certo punto divenissero decisamente inscindibili, quasi un’estensione della mia passione per il canto. Ma invece di cantare con la musica,  scrivevo con la musica, come è evidente in una recente pubblicazione che raccoglie diciannove anni di poesie scritte mentre ascoltavo dal vivo la musica di Charles Gayle.

MUSICA + PAROLA =  CANTO

Finirò qui con un estratto da una poesia per Cecil Taylor scritta intorno al mio ventesimo compleanno nel settembre del 1966.

CANTA, non una canzone / ma un caos ben costruito /...lo spazio galleggia sopra di noi...avvolge, abbraccia, forse ama /compimento di salmo incompleto / bloccati l’un l’altro, lasciaci / mentre blocchiamo porte e spranghiamo tutto tranne la furia dei pianoforti / lasciaci rimanere insieme / in brama d’amore e riso / lasciaci rimanere insieme / lasciaci rimanere / lasciaci…

SING  not song / but a well constructed chaos / …the room floats above us…enfolds & possibly loves us / completion to an unfinished psalm / let us remain locked to each other / as we lock the door & bar admission to all but the piano furious / let us remain together / in love lust & laughter / let us remain together  /  let us remain / let us…



Letture
× Dalachinsky S., A Superintendent's Eyes, Hozomeen Press, New London, Usa, 2000.
× Dalachinsky S., The Final Nite & Other Poems: Complete Notes From A Charles Gayle Notebook 1987-2006,
Ugly Duckling Press, NY, Usa, 2006.
× Dalachinsky S./Bisceglia J., Reaching Into The Unknown, RogueArt, NY, Usa, 2009.
× Dalachinsky S./Shipp M., Logos and Language, RogueArt, NY, Usa, 2008.
Ascolti
× Steve Dalachinsky & Loren Mazzacane Connors Thin Air, Silver Wonder Recording, 2006.
× Steve Dalachinsky & Matthew Shipp Phenomena of Interference, Hopscotch Records, 2006.
× 3 Rocks & A Socks (S. Dalachinsky/ Didier Lassere/ Sebastian Capezza), Merci Pour le Visite, Amor Fati, 2007.