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    MATTONCINI DI PLASTICA
    E VIDEO AL PLASMA
    CHE PUFFANO IN SINTONIA
    di Gennaro Fucile

    Nel 1932 un signore danese di nome Ole Kirk Christansen fondò una piccola fabbrica che produceva giocattoli in legno. Giocattoli didattici che ribattezzò LEGO, incastrando una nell’altra due parole danesi “LEg e GOdt” (ovvero, giocare bene). Sul finire degli anni Quaranta passò dal legno alla plastica, materiale ritenuto più idoneo alla produzione industriale del modello base, il mattoncino cavo all’interno, un prototipo, però, diverso dalla versione che poi spopolò su tutto il pianeta (oggi, ogni abitante della Terra possiede in media 62 mattoncini). Plastica, acetato di cellulosa. Simbolo del moderno, un mondo che, al culmine della sua ascesa, spiccò il volo mandando in orbita il primo Sputnik 1, che, esaurita la sua spinta, terminò la missione polverizzandosi. Era il 4 ottobre 1957. Fu l’inizio industriale e culturale di quella che in musica si chiamò space-age pop, ma l’espressione è estensibile all’intero mondo occidentale di allora. Lì, nel pieno del trionfo, venne fecondato il tardo moderno, che mosse i suoi primi passi – letteralmente – nel mondo dei giochi. Infatti, cinquant’anni fa, nel 1958, nacque la versione definitiva del mattoncino a incastro LEGO. Singolare coincidenza, del mondo dell’infanzia e della neonata società postmoderna, poiché nel mattoncino si cela la logica stessa del digitale, vuoto-pieno – il codice binario –  la matrice da cui è sorta l’era attuale. I numeri sono eloquenti: con 6 mattoncini 2x4 cm si possono ottenere 915 milioni di possibili combinazioni. Un numero altrettanto elevato di combinazioni, tendente a infinito è possibile in un altro prodotto dedicato all’infanzia, nato con altrettanto singolare coincidenza nel 1958, mezzo secolo fa. Non si tratta di mattoncini e sono di un solo colore, il blu. Nacquero in Belgio dalla fantasia di Pierre Culliford detto Peyo e Yvan Delporte, sono piccoli, simili a gnomi, si chiamano Schtroumpf e da noi sono noti come Puffi. Loro, al contrario dei mattoncini LEGO, sono in numero finito, ma ne condividono la stessa logica, semplicemente slittata su un piano linguistico. I puffi, è noto, hanno un solo verbo universale, il puffare, che funziona in positivo e negativo (si puffa o non si puffa), con il quale costruiscono il proprio universo linguistico, dunque il modo in cui si rappresentano il mondo e quindi il mondo stesso.

     L’alba del tardomoderno, insomma, somiglia curiosamente a un mondo LEGO abitato da Puffi. Affinità elettive che si possono rintracciare comodamente un po’ ovunque nel nostro agire e pensare quotidiano, ma che si ritrovano anche in mondi appartenenti all’arte più raffinata, un po’ snob, molto concettuale e per tutto questo anche affascinante. Prendiamo, ad esempio, 77 Million Paintings, progetto videomusicale di Brian Eno, l’uomo che inventò l’ambient music, genere che, per molti, altro non è che il proseguimento, con altri mezzi, del medesimo fine (altra eccellente coincidenza) che si ponevano i vari Juan Garcia Esquivel e altri campioni del genere space-age pop: intrattenere. L’opera 77 Million Paintings girovaga nei luoghi più disparati, come si addice ai viandanti postmoderni.
    È stata ospite di luoghi istituzionali, come la Triennale di Milano, ma anche esibita nei grandi magazzini londinesi di Selfridges, oppure nella Grotta di Seiano, il sito archeologico di Pausylipon a Napoli, città da dove fino allo scorso settembre, ha irradiato la sua magia di nuovo in uno spazio istituzionale, il Museo Madre. 
    In che cosa consiste quest’opera? 
    In settantasette milioni di immagini trasmesse da monitor al plasma, variamente combinate tra loro e intrecciate con sequenze di suoni. Per vedere interamente la sequenza di tutte le combinazioni tra suoni ed immagini occorrono 9.000 anni. Il senso di 77 Million Paintings è chiaro: si tratta di una riflessione sul tempo, questione che Eno ha a cuore, come altri videomaker, Bill Viola, soprattutto. 
    Il lento incedere dei colori, l’intreccio che ne scaturisce, cattura, e presto si viene trasportati in un’altra dimensione, dove è conveniente aggirarsi con movenze da temponauti. 
    Si procede avanti e indietro nel tempo e molto prima che siano trascorsi 9.000 anni ci si ritrova impegnati a incrociare quei colori, pensati come tanti mattoncini da cui prende forma un disegno che immaginiamo e poi cancelliamo, smontiamo e poi ricostruiamo, giocando come al LEGO, e quei suoni sono, in realtà, un solo suono che acquista senso a seconda dei colori dei contesti, suono dunque... puffo direbbero dei piccoli omini blu.
    Insolite combinazioni nella circolarità del nostro presente.

     
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